LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20248/2019 proposto da:
AIM ENERGY SRL, A MANZONI & C SPA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G AVEZZANA 6, presso lo studio dell’avvocato MATTEO ACCIARI, rappresentati e difesi dall’avvocato BRUNO GUARALDI;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/10/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso depositato dinanzi alla Corte d’appello di Venezia le odierne ricorrenti, Aim Energy s.r.l. e A. Manzoni & C. s.p.a., proponevano opposizione avverso il decreto emesso dalla medesima Corte d’Appello, in composizione monocratica, che aveva rigettato la richiesta di condanna del Ministero della Giustizia all’equa riparazione per l’irragionevole durata di una procedura fallimentare.
2. La Corte d’Appello con decreto dell’11 dicembre 2018 confermava il decreto opposto, ritenendo infondata l’opposizione.
In particolare, la Corte d’Appello evidenziava che il giudizio presupposto aveva ad oggetto l’irragionevole durata del fallimento relativo alla ditta *****, dichiarato con sentenza del Tribunale di Vicenza nel giugno del 1985 e chiuso con decreto del 28 settembre 2017.
I ricorrenti, per quel che ancora rileva, avevano proposto opposizione contestando la insussistenza di vantaggi patrimoniali che sarebbero loro derivati dall’integrale soddisfacimento della pretesa creditoria insinuata al passivo fallimentare della L. n. 89 del 2001, ex art. 2, comma 2 sexies. Peraltro, nessuno dei crediti ammessi in via chirografaria poteva considerarsi di natura irrisoria.
Secondo la Corte d’Appello, invece, i crediti vantati dalle ricorrenti non avevano determinato in ragione della qualità del creditore e della stessa natura del credito un patema d’animo indennizzabile. La Corte d’Appello rammentava che il credito della società Manzoni ammontava ad Euro 1193,83 e quello della società AIM Energy a Euro 1124,38.
3. I ricorrenti come sopra identificati hanno proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.
4. Il Ministero della Giustizia si è costituito con controricorso.
5. I ricorrenti con memoria depositata in prossimità dell’udienza hanno insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett. g), in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e all’art. 1 del primo protocollo addizionale ed agli artt. 111 e 117 Cost..
Secondo le ricorrenti sarebbe erronea la decisione con la quale la Corte d’Appello ha ritenuto irrisoria la pretesa vantata dalle ricorrenti nel giudizio presupposto nel quale erano state ammesse al passivo per l’importo rispettivamente per la società Manzoni di Euro 1193,83 e per la società AIM Energy di Euro 1124, 38.
Le ricorrenti richiamano la giurisprudenza di legittimità, evidenziando che somme di importo molto più modesto di quelle in esame sono state ritenute rilevanti ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quinquies, lett. a), in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e all’art. 1 del primo protocollo addizionale ed agli artt. 111 e 117 Cost..
La censura attiene alla presunta consapevolezza da parte dei ricorrenti della possibile mancata soddisfazione dei crediti perchè chirografari. Anche in questo caso il ricorrente cita numerose sentenze di legittimità, sostenendo l’erroneità della decisione.
2.1 Il primo e il secondo motivo che possono essere trattati congiuntamente sono infondati.
La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, si applica al caso di specie, in quanto la domanda di equa riparazione è successiva all’entrata in vigore della modifica normativa con la quale è stata introdotto la presunzione iuris tantum di insussistenza del danno nel caso di irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alle condizioni personali della parte.
Peraltro, anche prima dell’introduzione del citato art. 2, comma 2 sexies, questa Corte aveva affermato che: “In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, in applicazione dell’art. 12 del Protocollo n. 14 alla CEDU, si deve tenere conto della soglia minima di gravità, al di sotto della quale il pregiudizio non è indennizzabile, da apprezzarsi nel duplice profilo della violazione e delle conseguenze, sicchè restano escluse dalla riparazione sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole, di per sè non significative, sia quelle di maggiore estensione temporale, riferibili però a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi” (Sez. 2, Sent. n. 26497 del 2019).
Nella specie la Corte d’Appello, con giudizio non sindacabile in questa sede in quanto adeguatamente motivato, ha ritenuto applicabile la presunzione di insussistenza del danno per l’irrisorietà della pretesa fatta valere, tenuto conto della modesta entità delle somme oggetto dell’insinuazione al passivo e della natura delle parti che erano, la prima, una società per azioni e, la seconda, una società a responsabilità limitata. I ricorrenti non hanno fornito alcuna prova atta a superare la suddetta presunzione di insussistenza del danno.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e all’art. 1 del primo protocollo addizionale ed agli artt. 111 e 117 Cost..
La censura attiene all’applicazione retroattiva dell’art. 2, comma 2 sexies, che, data la sua natura sostanziale, non può applicarsi ai periodi di eccessiva durata maturati anteriormente alla sua entrata in vigore.
3.1 Il terzo motivo è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte, infatti, è consolidata nell’affermare che “il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso; lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore” (Cass., 27 maggio 1971, n. 1579; Cass., 3 marzo 2000, n. 2433; Cass., 3 luglio 2013, n. 16620).
In via di principio deve premettersi che il principio della irretroattività della legge – invocato dal ricorrente – comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, se in tal modo si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future dello stesso. Lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sè stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (Cass. S.U., 12.12.1967, n. 2926; conf. Cass., 3.4.1987, n. 3231).
Ciò premesso dall’esame complessivo della norma richiamata emerge chiaramente come essa disciplini non tanto le condizioni per ottenere il ristoro per l’irragionevole durata del processo e, dunque, il fatto generatore del danno, ma solo l’onere probatorio che nei casi indicati è posto a carico del richiedente, dovendosi presumere altrimenti l’insussistenza del danno da ritardo. La nuova disciplina, infatti, ha inciso in particolare, sul riparto dell’onere della prova, con riferimento al presupposto per la sussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, nel senso di contemplare una presunzione iuris tantum di disinteresse della parte a coltivare il processo. E’ stata così posta, in favore dell’Amministrazione, in vista della statuizione giudiziale, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro legislativo previgente, che, come si dirà, non può trovare applicazione unicamente nei processi di equa riparazione già iniziati al momento dell’entrata in vigore della nuova regolamentazione. A riprova di quanto affermato deve osservarsi che l’unica disciplina transitoria che ha accompagnato la riforma del 2015 riguarda proprio il fatto generatore della pretesa, avendo il legislatore escluso l’applicabilità della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, secondo il quale “E’ inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’art. 1-ter” per tutti i processi la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all’art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data.
Ciò detto deve precisarsi, tuttavia, che la nuova disciplina non può avere alcuna portata retroattiva per le domande di equa riparazione già proposte al momento di entrata in vigore della legge.
Le presunzioni iuris tantum di insussistenza del pregiudizio da irragionevole durata del processo, introdotte dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, sono, infatti, idonee ad influire sul diritto della parte a dimostrare l’effettività del patema d’animo da riparare. L’applicazione di tali disposizioni a domande di equa riparazione proposte prima del 1 gennaio 2016, e cioè prima dell’entrata in vigore della L. n. 208 del 2015, avrebbe ripercussioni in ordine al regime delle prove richieste nel procedimento di cui alla L. n. 89 del 2001, destando sospetti di irrazionalità e di illegittimità costituzionale. Si osserva in dottrina come ogni disposizione legislativa sopravvenuta, che introduca nuovi oneri probatori, oppure ripartisca diversamente tali oneri tra le parti del rapporto sostanziale, non può operare nell’ambito dei processi in corso, in quanto chiama l’uno o l’altro dei contendenti ad addurre prove che questi in origine non era tenuto a fornire, ponendosi altrimenti a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa, la quale implica anche la garanzia di poter fornire la prova e di “difendersi provando”. L’illegittimità dell’applicazione retroattiva dalla norma che introduca una presunzione discende, in definitiva, dalla considerazione dall’effetto a sorpresa determinato dalla necessità di fornire prove che, al momento del promovimento della lite, non costituivano oggetto dell’onere della parte.
In definitiva della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), introdotto dalla L. n. 208 del 2015, pone una nuova disciplina della formazione e della valutazione della prova nel processo. In assenza di norme che diversamente dispongano, e perciò proprio in forza dell’art. 11 preleggi, L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, lett. d), senza che rilevi la natura sostanziale o processuale della disposizione, dando luogo a ius superveniens operante sugli effetti della domanda e implicante un mutamento dei presupposti legali cui è condizionata la disciplina di ogni singolo caso concreto, non può che trovare applicazione avendo riguardo al momento della proposizione della domanda di equa riparazione e, quindi, anche con riferimento alla fattispecie in esame.
4. Il ricorso è rigettato.
5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1000 più spese prenotate a debito;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021