LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4812/2016 proposto da:
F.G., FI.FR., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TARO 35, presso lo studio dell’avvocato ENZO PARINI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
F.M.C., L.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G. PISANELLI 40, presso lo studio dell’avvocato BRUNO BISCOTTO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIA SCOGNAMIGLIO;
M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, V. CAVOUR 221, presso lo studio dell’avvocato LORENZO VITALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO FABBRINI;
– controricorrenti –
e contro
O.M.F., MA.CL., E.G.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1029/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/02/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;
udito il Sostituto Procuratore Generale Dott. Lucio Capasso che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito gli avvocati Enzo Parini per i ricorrenti e Giovanna Cresci, per le parti controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. L.G., F.M.C., E.G., O.M.F., M.G. e Ma.Cl. convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Tivoli, F.G. e Fi.Fr., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in quanto, in violazione di norme contrattuali e urbanistiche, avevano organizzato e svolto nella loro villa denominata Villa Fi., in *****, contigua alle abitazioni degli attori, intrattenimenti e banchetti in assenza delle autorizzazioni amministrative necessarie per l’esercizio di attività di somministrazione di alimenti e bevande, contravvenendo in particolare all’art. 9 dell’atto pubblico di compravendita dei lotti di terreno sui quali erano edificate le ville, che imponeva il divieto per gli stessi acquirenti di destinare l’immobile ad attività industriali o commerciali, nel rispetto della destinazione urbanistica della zona ad attività agricola e residenziale, causando disturbo per emissione di rumori molesti, passaggio di mezzi e presenza di persone oltre i limiti di tollerabilità in relazione alla destinazione della zona. Gli attori chiedevano, pertanto, ordinarsi ai convenuti di astenersi o comunque dl cessare l’illegittimo uso della villa con condanna al risarcimento dei danni per diminuzione del valore commerciale degli immobili da liquidarsi mediante c.t.u., con separato giudizio, oltre alla condanna al pagamento delle spese.
2. Si costituivano i convenuti con domanda riconvenzionale di risarcimento del danno in quanto la condotta ostruzionistica degli attori aveva cagionato forti perdite economiche con ripercussioni sullo stato di salute.
3. Il giudice del Tribunale di Tivoli rigettava tutte le domande. Sulla domanda principale, ritenuta la irregolarità amministrativa dell’attività svolta all’interno della Villa Fi. per difetto dell’autorizzazione di cui alla L. n. 287 del 1991, art. 3, dichiarava l’impossibilità di ordinare la cessazione o sospensione dell’attività perchè alla situazione di illegittimità conseguivano le sanzioni previste dalla L. n. 287 del 1991, art. 10 e art. 17 ter del Testo Unico di Pubblica Sicurezza.
Quanto alla violazione dell’art. 9 del contratto di compravendita dei lotti di terreno in data 15/11/1965 per notaio Fe., il Tribunale riteneva che la disposizione contrattuale volta al divieto di svolgere sui terreni in oggetto attività industriale o commerciale non avesse natura reale, non essendo idoneo a creare un vincolo sul bene, trattandosi invece di un obbligo di natura personale tra i soggetti che avevano stipulato l’accordo.
Rigettava anche la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno.
4. F.G. e Fi.Fr. proponevano appello avverso la suddetta sentenza.
5. La Corte d’Appello affermava che l’attività svolta all’interno della Villa Fi. doveva considerarsi avente natura imprenditoriale, essendo stata esercitata sistematicamente e con organizzazione di beni e servizi, secondo i criteri dl cui all’art. 2082 c.c..
Ciò risultava provato da due accessi dei carabinieri che avevano constatato che sul citofono della villa vi era scritto “ricevimenti” e che erano in corso banchetti con la presenza in un’occasione di 30 e in altre di 100 persone servite ai tavoli con intrattenimento musicale. Anche altri elementi confermavano lo svolgimento di tale attività.
La suddetta attività imprenditoriale, a parere della Corte d’Appello, doveva ritenersi vietata in base alle clausole contrattuali di cui all’atto del notaio Fe. del 3 dicembre 1965 che costituiva il primo atto di vendita, da parte dell’unico originario proprietario, dei terreni e con il quale erano stati disciplinati i rapporti tra gli acquirenti dei singoli lotti e nel quale era espressamente vietato a tali acquirenti di adibire i terreni e le costruzioni ad uso diverso da quello abitativo, con espresso divieto per l’acquirente di svolgere nella zona attività industriale e commerciale (art. 9).
L’atto regolarmente trascritto vincolava all’osservanza delle disposizioni in esso contenute anche i successivi acquirenti, avendo i proprietari originari dei fondi costituito per accordo negoziale unanime un vincolo di natura reale, tipo servitù prediale, circa la destinazione dei fondi al soddisfacimento di legittime esigenze da tutti condivise, con la previsione funzionale del divieto di mutare l’uso residenziale dei terreni/edifici della zona (Cass. 7614197).
Restava dunque irrilevante che nell’ultimo atto di compravendita dell’unità immobiliare, non era contenuto alcun riferimento al limite posto nel rogito Fe., dovendosi applicare le norme civilistiche in ordine alla trascrizione degli atti di cui agli artt. 2643 c.c. e segg., analogamente a quanto previsto per il regolamento di condominio di origine contrattuale.
Sulla base di tali considerazioni, in riforma della sentenza di primo grado, andava disposta la cessazione dell’attività imprenditoriale all’interno di villa Fi. a prescindere dalla legittimità o meno del profilo amministrativo dell’attività di ristorazione connessa allo svolgimento dei ricevimenti all’interno della villa.
6. F.G. e Fi.Fr. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
7. L.G. e F.M.C. nonchè M.G. hanno resistito con controricorso.
8. I ricorrenti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione, errata e contraddittoria motivazione circa la natura imprenditoriale dell’attività svolta ex art. 2082 c.c., in relazione art. 360 c.p.c., n. 3.
A parere dei ricorrenti sarebbe erronea la qualificazione di carattere imprenditoriale attribuita all’attività svolta all’interno di Villa Fi.. I ricorrenti, infatti, si sarebbero limitati a concedere in uso a terzi una parte della propria villa per feste e ricevimenti non svolgendo alcuna attività di tipo imprenditoriale in proprio. Concedere in uso parte della villa non è attività imprenditoriale o commerciale e non vi sono norme che impediscono la concessione di private abitazioni per manifestazioni ricreative a carattere privato. Il corrispettivo derivante dalla concessione in uso della villa per feste a carattere privato sarebbe assimilabile al canone nelle locazioni e non ad un ricavo d’impresa.
L’unica attività imprenditoriale che potrebbe ritenersi sussistente è quella della ditta di catering che, tuttavia, è regolarmente autorizzata. Sarebbe erroneo, dunque, il riferimento all’art. 2082 c.c., fatto dalla Corte d’Appello di Roma.
1.2 Il motivo è infondato.
Il presupposto da cui muovono i ricorrenti è erroneo in quanto, per quanto si dirà in riferimento al secondo motivo, il divieto di esercitare attività industriale o commerciale posto dall’art. 9 del contratto di vendita del terreno oggetto di frazionamento grava sul bene indipendentemente dal soggetto che materialmente esercita tale attività. Ne consegue che è del tutto irrilevante stabilire se l’attività relativa allo svolgimento di banchetti e feste sia gestita direttamente dai ricorrenti o da terzi, e se, in tale seconda ipotesi, la stessa debba qualificarsi come attività commerciale svolta in forma imprenditoriale.
Infatti, i ricorrenti, nella loro qualità di proprietari della villa oggetto del giudizio, ove peraltro assumono di abitarvi, ai sensi del citato art. 9 dell’atto del notaio Fe., trascritto il 3 dicembre 1965, così come non possono svolgervi direttamente attività commerciale o imprenditoriale, allo stesso modo non possono consentire a terzi di svolgerla mediante l’affitto giornaliero della villa ad organizzatori professionali di feste e banchetti. In entrambe le ipotesi, infatti, si realizza la violazione di quanto stabilito dal citato contratto di vendita, con il quale l’originario proprietario, al momento del frazionamento del terreno, ha costituito un vincolo di non facere di natura reale sul bene.
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione o falsa applicazione, errata e contraddittoria motivazione, errata valutazione delle prove circa la natura reale delle pattuizioni contenute nell’atto del 3 dicembre 1965 ex art. 2643 c.c. e art. 1073 c.c..
Secondo la Corte d’Appello, le pattuizioni sottoscritte nel contratto con il quale gli originari proprietari avevano ceduto i terreni nel dicembre del 1965 hanno natura reale e, dunque, vincolante per tutti i successivi aventi causa, anche se i rispettivi atti di acquisto non ne fanno menzione, in quanto il contratto del 1965 è stato regolarmente trascritto e dunque, ha creato un vincolo di natura reale sul bene.
I ricorrenti riportano l’art. 9 del suddetto atto evidenziando che erano previsti una serie numerosa di obblighi cui non è mai stato dato seguito, trattandosi di un mero programma di lottizzazione. Nessuna delle pattuizioni ivi previste ha avuto attuazione. Ne consegue, secondo i ricorrenti, che quanto stabilito nel suddetto contratto, non ha natura reale ma solo personale. Peraltro, l’acquisto dei signori F. risaliva al *****, ovvero 33 anni dopo il suddetto contratto e le eventuali pattuizioni ivi previste anche se a carattere reale, dovevano essere ritenersi estinte per non uso, tanto da non essere inserite negli atti successivamente trascritti, senza che potesse attribuirsi rilievo alla trascrizione dell’atto nel 1965.
2.1 Il secondo motivo è infondato.
I ricorrenti sostengono che il contratto di vendita dell’originario proprietario che aveva deciso di procedere ad un frazionamento del terreno abbia natura di piano di lottizzazione, ma non forniscono alcun elemento che possa confermare tale assunto. Peraltro a pagina 10 del ricorso si legge che l’atto del 1965 è stato trascritto in quanto atto di compravendita immobiliare che necessitava per legge della trascrizione per la pubblicità nei confronti dei terzi ex art. 2643 c.c.. Dunque, sono gli stessi ricorrenti a precisare che è l’art. 9 del contratto di compravendita trascritto nel 1965 che prevede, che le parti acquirenti dei lotti di terreno, tra le quali il primo acquirente del suo lotto (nel ricorso non chiarisce se è il suo diretto dante causa), espressamente si obbligano, tra le altre cose, a non adibire le costruzioni ad uso diverso da quello di abitazione e a non svolgere sul terreno acquistato attività industriale o commerciale.
La Corte d’Appello ha specificamente e coerentemente argomentato le ragioni della decisione adottata sulla servitù in oggetto senza incorrere nella denunciata violazione o falsa applicazione degli artt. 2643 c.c. e 1073 c.c..
In particolare, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’atto regolarmente trascritto vincoli all’osservanza delle disposizioni in esso contenute anche i successivi acquirenti, avendo i proprietari originari dei fondi costituito per accordo negoziale unanime un vincolo di natura reale, tipo servitù, circa la destinazione dei fondi stessi al soddisfacimento di legittime esigenze da tutti condivise, con la previsione funzionale del divieto di mutare l’uso residenziale dei terreni e di non svolgervi attività industriale o commerciale. Le originarie limitazioni del diritto contrattualmente previste si trasferiscono agli aventi causa con presunzione iuris et de iure di conoscenza, in virtù della rituale trascrizione.
La decisione della Corte d’Appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità che con orientamento del tutto consolidato ha ritenuto che, allorchè il proprietario di un terreno decida di frazionarlo e venderlo a scopo edificatorio, la pattuizione nei contratti di compravendita di limitazioni a carico degli acquirenti circa la destinazione del bene, ove regolarmente trascritte, costituiscono una servitù prediale reciproca a non tollerare modificazioni delle aree individuate in proprietà alle singole unità immobiliari.
Peraltro, anche con riferimento ai piani di lottizzazione, questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che, nelle vendite a lotti di aree fabbricabili, le pattuizioni contrattuali, con cui allo scopo di conferire determinate caratteristiche alle zone in esecuzione di un piano di sviluppo si impongano limitazioni alla libertà di utilizzare vari lotti, danno luogo alla costituzione di servitù prediali a carico e a favore di ciascun lotto.
Deve anche ribadirsi che: “Ai fini della costituzione convenzionale di una servitù prediale non si richiede l’uso di formule sacramentali, di espressioni formali particolari, ma basta che dall’atto scritto si desuma la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario, sempre che l’atto abbia natura contrattuale, che rivesta la forma stabilita dalla legge ad substantiam e che da esso la volontà delle parti di costituire la servitù risulti in modo inequivoco, anche se il contratto sia diretto ad altro fine” (Sez. 2, Ord. n. 10169 del 2018, Sez. 2, Sent. n. 9475 del 2011). Il concetto di utilitas della servitù è talmente ampio da ricomprendere ogni elemento che, secondo la valutazione sociale, sia legato da un nesso di strumentalità con la destinazione del fondo dominante e si immedesimi obiettivamente nel godimento di questo. In tal modo, può essere soddisfatto ogni bisogno del fondo dominante, assicurandogli una maggiore amenità, abitabilità, o anche evitando rumori o impedendo costruzioni che abbiano una destinazione spiacevole o fastidiosa (Sez. 2, Ord. n. 18465 del 2020, Sez. 2, Sent. n. 4333 del 1979).
La sussistenza di una servitù prediale reciproca tra i fondi, costituita con i rispettivi atti di acquisto della proprietà regolarmente trascritti, rende infondata la censura. La diversa interpretazione del contratto proposta dai ricorrenti secondo cui il vincolo era di natura personale e non reale, investe, inammissibilmente, il merito delle valutazioni che la Corte d’Appello ha espresso, nell’ambito dell’accertamento di fatto a lei demandato ed espletato sulla base dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., tenuto conto dello stato dei luoghi e della volontà delle parti come emergente dalla complessiva operazione negoziale.
Quanto al non uso non può che ribadirsi che il termine di prescrizione delle servitù negative e di quelle continue, accomunate dalla peculiarità per cui il loro esercizio non implica lo svolgimento di alcuna specifica attività da parte del relativo titolare, decorre dal giorno in cui è stato compiuto un fatto impeditivo dell’esercizio del diritto medesimo (Sez. 2, Sentenza n. 3857 del 2016).
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione o falsa applicazione, errata e contraddittoria motivazione in ordine alla valenza di legittimità del programma di lottizzazione. Nullità ai sensi della L. n. 765 del 1967, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
A parere dei ricorrenti la L. n. 765 del 1967, art. 8, vieterebbe di procedere alla lottizzazione di terreni a scopo edilizio prima dell’approvazione del piano regolatore generale del programma di fabbricazione. Nessuna autorizzazione ad una lottizzazione della ***** era mai stata rilasciata dal Comune di Sant’Angelo Romano e, dunque, il divieto per legge alla lottizzazione e l’assenza dell’autorizzazione comunale comporterebbero la nullità di diritto delle pattuizioni convenute dagli originari proprietari nel richiamato atto del 1965.
3.1 Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
La questione non risulta trattata nella motivazione della sentenza impugnata e i ricorrenti non indicano in quale atto la medesima questione è stata sollevata.
Secondo l’indirizzo consolidato di questa Corte, infatti: “In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, i ricorrenti devono, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di specialità, anche indicare in quale atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio” (ex plurimis Sez. 2, Sent. n. 20694 del 2018, Sez. 6-1, Ord n. 15430 del 2018).
4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: errata motivazione conseguente al rigetto della domanda di risarcimento danni e spese.
Sostanzialmente si ripropone la domanda di risarcimento del danno rigettata nei due gradi di merito.
4.1 Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
La censura presuppone l’accoglimento dei motivi proposti e, in ogni caso, spetterebbe comunque al giudice del merito,richiedendo un accertamento di fatto precluso in sede di legittimità.
5. Il ricorso è rigettato.
6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5300 più Euro 200 per esborsi, per ognuno dei due gruppi di controricorrenti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021