LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 569/2014 R.G. proposto da:
Istituto Ancelle Riparatrici del SS Cuore di Gesù – Ente religioso di diritto pontificio riconosciuto -, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonino Mazzei, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Luciano D’Andrea, in Roma, Viale Giulio Cesare n. 109, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici domicilia in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
– resistente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, sezione distaccata di Messina, n. 131/27/2013 depositata il 31 maggio 2013.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 novembre 2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Roberto Mucci, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso e l’avv. Mattia Cherubini per l’Agenzia delle Entrate.
FATTI DI CAUSA
1. La Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione distaccata di Messina, rigettava l’appello proposto dall’Istituto delle Ancelle Riparatrici del SS. Cuore di Gesù avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Messina che aveva accolto solo parzialmente il ricorso dell’Istituto contribuente contro l’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate nei suoi confronti, per l’anno, 2004, ai fini Ires e Irap, senza alcun accertamento per gli anni 2001, 2002, 2003 e 2005, con cui era stato rettificato il reddito imponibile ai fini Ires da Euro 304.054,00 ad Euro 1.385.843,00 ed ai fini Irap da Euro 1.644.640,00 ad Euro 4.439.971,00. In particolare, il giudice di prime cure aveva negato che sussistessero le plusvalenze per alienazioni di immobili, aveva escluso la natura di ente ecclesiastico ed aveva ritenuto la natura di ente non commerciale, considerando violato però il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 144, comma 2, che prevedeva l’obbligo della contabilità separata per l’attività commerciale. Il giudice di appello condivideva la sentenza di prime cure, anche in relazione alla assenza di una separata contabilità per l’attività commerciale.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Istituto, depositando successivamente memoria scritta.
3. L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione solo ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di impugnazione l’Istituto deduce la “nullità della sentenza: Violazione di legge art. 31 del Concordato tra Stato Italiano e lo Stato Città del Vaticano reso esecutivo in Italia con la L. 27 maggio 1929, n. 810, la L. 25 marzo 1985, n. 121, protocollo 7.2; L. 20 maggio 1985, n. 206, artt. 4,5,6; dell’art. 117 Cost., art. 149.4 Tuirn. 917 del 1986, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello si è limitato a condividere la decisione del primo giudice che non ha considerato l’Istituto contribuente come “Ente Ecclesiastico non economico”, in base a quanto risultava dallo Statuto. Inoltre, la Commissione regionale ha anche erroneamente affermato che l’Istituto svolgeva attività commerciale in maniera prevalente, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 4. Infatti, gli enti ecclesiastici non possono perdere la natura di ente non commerciale per il fatto che l’attività commerciale, per “avventura”, svolta, risultasse, in un solo anno, prevalente. Gli enti ecclesiastici sorgono in base al diritto canonico e vengono riconosciuti dallo Stato Italiano, in base al Concordato del 1929 ed alle modifiche di cui alle leggi 121 del 25 marzo 1985 e n. 206 del 20 maggio 1985. Il giudice di appello, condividendo la pronuncia di primo grado, avrebbe fatto perdere all’Istituto la natura di Ente Ecclesiastico, mentre l’attribuzione di tale natura spetta solo all’Autorità ecclesiastica. In realtà, gli enti ecclesiastici non perderebbero mai, ai fini delle imposte dirette, la natura di ente non commerciale. Inoltre, l’ente ecclesiastico non economico, non può essere ritenuto ente commerciale, solo perchè nel corso di un anno l’attività commerciale sia stata prevalente.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “nullità della sentenza” per “violazione di legge art. 144.2 del Tuirn. 917 del 1986; art. 143.1 e 143.3 lett. b TUIR 917de1 1986; art. 53 Cost, comma 1, art. 97 Cost., comma 1 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello, dopo aver condiviso la decisione di prime cure in ordine al mancato riconoscimento della natura di ente ecclesiastico non economico dell’Istituto contribuente, ha poi affermato che non poteva essere esclusa la natura di “Ente non commerciale”, sicchè il suo reddito doveva formarsi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 143, quindi in relazione a tutte le categorie reddituali (redditi fondiari, di capitale, di impresa, per attività commerciale eventualmente esercitata e diversi, con esclusione dei redditi esenti). Tuttavia, l’assenza di una separata contabilità per l’attività commerciale svolta non consentiva di escludere dal reddito i contributi pubblici percepiti pari ad Euro 1.921.077.
2.1. I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati per le ragioni di cui in motivazione.
2.2. Va subito chiarito che gli enti ecclesiastici sono tali in base alle norme del diritto canonico, quindi, o in virtù di “erectio”, con l’espresso conferimento della personalità giuridica di diritto canonico, oppure tramite la “approbatio”, concessa dalla autorità ecclesiastica, quindi con l’inserimento dell’associazione nell’ambito della organizzazione ecclesiastica.
2.3. L’art. 31 del Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica dell’11.2.1929 ha previsto che gli enti ecclesiastici possano ottenere il “riconoscimento” dello Stato. Infatti, si dispone all’art. 31 che “l’erezione dei nuovi enti ecclesiastici od associazioni religiose sarà fatta dall’autorità ecclesiastica secondo le norme del diritto canonico: il loro riconoscimento agli effetti civili sarà fatto delle autorità civili”. Allo stesso modo l’art. 32 del Concordato prevede che “i riconoscimenti e le autorizzazioni previste nelle disposizioni del presente Concordato e del Trattato avranno luogo con le norme stabilite dalle leggi civili, che dovranno essere poste in armonia con le disposizioni del Concordato medesimo e del Trattato”.
Il R.D. 2 dicembre 1929, n. 2262, artt. 7 e 17, nel fissare le modalità necessarie per il riconoscimento agli effetti civili degli istituti ecclesiastici o degli enti di culto, hanno formalmente subordinato il provvedimento statale all’esistenza di un analogo provvedimento preventivamente adottato dall’autorità ecclesiastica nei confronti degli enti da riconoscere.
2.4. Anche la Costituzione tutela gli enti ecclesiastici l’art. 20 dispone che ” Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
2.5. L’art. 7.2 del Protocollo di cui alla L. 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica Italiana e la Santa sede), a conferma della necessità di un “riconoscimento” da parte dello Stato, prevede che “ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici che ne sono attualmente provvisti, la Repubblica italiana, su domanda dell’autorità ecclesiastica o con il suo assenso, continuerà a riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto. Analogamente si procederà per il riconoscimento gli effetti civili di ogni mutamento sostanziale degli enti medesimi”.
Alla L. n. 121 del 1985, art. 7, comma 3, si afferma che “agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fini di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fini di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.
Il D.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33, art. 8, prevede che “l’ente ecclesiastico che svolge attività per le quali sia prescritta dalle leggi tributarie la tenuta di scritture contabili deve osservare le norme circa tali scritture relative alle specifiche attività esercitate”.
2.6. I medesimi concetti sono espressi dalla L. 20 maggio 1985, n. 206, art. 4 (Ratifica ed esecuzione del protocollo, firmato a Roma il 15 novembre 1984, che approva le norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici formulate dalla commissione paritetica istituita dall’accordo, art. 7, n. 6, con protocollo addizionale, del 18 febbraio 1984 che ha apportato modificazioni al concordato lateranense del 1929 tra lo Stato italiano la Santa sede), che dispone che “gli enti ecclesiastici che hanno la personalità giuridica nell’ordinamento dello Stato assumono la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”; all’art. 5 si prevede che ” gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche”, mentre all’art. 6 si aggiunge che ” gli enti ecclesiastici già riconosciuti devono richiedere l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche entro due anni dall’entrata in vigore delle presenti norme”.
2.7. E’ pacifico tra le parti che l’Istituto ricorrente avesse già la personalità giuridica di ente ecclesiastico, in quanto era stato “riconosciuto” prima della modifica del Concordato. L’Istituto ha, poi, chiesto l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche e l’iscrizione è avvenuta il 12 giugno 1987.
2.8. Per comprendere appieno la questione è opportuno richiamare il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 73, comma 1, lett. c, dedicato ai soggetti passivi per l’imposta sul reddito delle società, ove si prevede che, oltre alle società e agli enti pubblici e privati che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, “sono soggetti all’imposta sul reddito delle società: … Gli enti pubblici e privati diversi dalle società, … che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale…”.
Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 143, comma 1 (reddito complessivo), dedicato agli “enti non commerciali residenti”, e quindi anche agli enti ecclesiastici, dispone che “il reddito complessivo degli enti non commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. c), è formato dei redditi fondiari, di capitale, d’impresa e diversi, ovunque prodotti e quale ne sia la destinazione, ad esclusione di quelli esenti dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva. Per i medesimi enti non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”.
Pertanto, il reddito degli enti non commerciali è computato come quello per le persone fisiche, avendo riguardo alle varie tipologie di reddito, fondiario, di capitale, di impresa e diversi.
All’art. 143, comma 2, si dispone che “il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni dell’art. 8”, e quindi sommando i redditi di ogni categoria che concorrono a formarlo e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e quelle derivanti dall’esercizio di arti e professioni.
Il comma 3, invece, indica i redditi che non possono essere presi in considerazione per il calcolo del reddito complessivo degli enti non commerciali (“non concorrono in ogni caso alla formazione del reddito degli enti non commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. c: a) i fondi pervenuti ai predetti enti a seguito di raccolte pubbliche effettuate occasionalmente, anche mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori, in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione; b)i contributi corrisposti da amministrazioni pubbliche ai predetti enti per lo svolgimento convenzionato o in regime di accreditamento… di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali degli enti stessi”.
Se, dunque, gli enti, compresi quelli commerciali, come pure quelli dilettantistici, sono qualificati come “non commerciali”, non si può tenere conto, ai fini della determinazione del reddito complessivo dei “contributi corrisposti da Amministrazioni pubbliche ai detti enti”, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 143, comma 3, lett. b.
2.9. L’art. 144, poi, indica le modalità di computo del reddito complessivo degli enti non commerciali, ivi compresi, come detto gli enti ecclesiastici riconosciuti dallo Stato, prevedendo che “i redditi e le perdite che concorrono a formare il reddito complessivo degli enti non commerciali sono determinati distintamente per ciascuna categoria in base al risultato complessivo di tutti i cespiti che vi rientrano”.
Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 144, comma 2, dispone, poi, per gli enti non commerciali, quindi anche per gli enti ecclesiastici, che esercitano, però, anche attività commerciale, ma non come oggetto principale ed esclusivo della propria specifica attività, che “per l’attività commerciale esercitata gli enti non commerciali hanno l’obbligo di tenere la contabilità separata”.
3.Ovviamente la qualifica di ente non commerciale può essere perduta, come prevede espressamente il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 1, per il quale “indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta”.
Si chiariscono, poi, al comma 2 i parametri da considerare per la perdita della qualifica di ente non commerciale (“ai fini della qualificazione commerciale dell’ente si tiene conto anche dei seguenti parametri: a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività; b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; d)prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese”.
Per l’art. 149, comma 3 “il mutamento di qualifica opera a partire dal periodo d’imposta in cui vengono meno le condizioni che legittimano le agevolazioni e comporta l’obbligo di comprendere tutti i beni facenti parte del patrimonio dell’ente nell’inventario di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 15”.
La norma cardine per gli enti ecclesiastici è però quella di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 4, in base alla quale “le disposizioni di cui ai commi uno e due non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche”. 3.1.Di qui due tesi contrapposte. Per la prima gli enti ecclesiastici non possono mai perdere la qualifica di “enti non commerciali”, neppure quando svolgono attività commerciale prevalente, in base ai parametri di cui alla norma suddetta. Vi sarebbe una implicita conferma dalla relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 460 del 1997, sicchè gli enti ecclesiastici potrebbero essere definiti come enti commerciali “di diritto”. Il riconoscimento civile come ente ecclesiastico presuppone sempre che il medesimo abbia ad oggetto esclusivo o principale un’attività di religione o di culto che non può mai essere commerciale; sicchè il legislatore ha giudicato superfluo aggiungere un controllo fiscale sull’effettiva natura non commerciale dei soggetti che lo hanno tenuto. Tuttavia, si rileva che tali argomentazioni valgono per alcuni enti ecclesiastici, ma non per tutti, sicchè è improprio ricavare dall’art. 149 Tuir, comma 4, la prova della non commercialità legale dell’intera categoria degli enti ecclesiastici.
In dottrina, si è ritenuto che gli enti ecclesiastici non possono mai perdere la loro connotazione di enti non commerciali, in quanto quasi tutte le attività commerciali svolte da tali enti, altro non sono che le attività nelle quali, dalla loro fondazione, si svolge l’apostolato delle singole congregazioni e che, pertanto, anche se svolta in forma organizzata, non modificano lo “spirito originale di missione religiosa” e, correttamente, non provoca per il nostro ordinamento tributario la perdita della qualifica di ente non commerciale. Il vantaggio fiscale spetterebbe, dunque, gli enti ecclesiastici indipendentemente dal tipo di attività e da come questa sia svolta per conseguire lo scopo sociale. Si tratterebbe, insomma, di una praesumptio iuris ac de iure di non commercialità della attività degli enti ecclesiastici.
3.2. Per il secondo orientamento, cui aderisce l’Istituto ricorrente e che è maggiormente condivisibile, è quello per cui il comma 4 dell’art. 149 Tuir, in realtà, detta solo la regola che non è sufficiente svolgere attività prevalente per un solo esercizio per perdere la qualifica di “ente non commerciale”, per gli enti ecclesiastici, ma occorre che nel corso dei vari anni di attività l’ente ecclesiastico abbia in realtà svolto in prevalenza attività commerciale. L’art. 149, comma 4, quindi attiene solo al “singolo esercizio” di attività ed impedisce che l’ente ecclesiastico perda la qualifica di “ente non commerciale” se lo “sforamento” dai parametri avvenga in un “singolo esercizio”, ma se tale “sforamento” avviene in più esercizi, allora, la natura di “ente non commerciale” può venire meno.
In tal modo il legislatore non ha inteso attribuire ope legis a tali enti la qualifica di enti non commerciali, dovendosi, comunque, applicare i criteri dell’art. 73, sicchè gli enti ecclesiastici sono non commerciali fintanto che il loro oggetto principale, almeno sotto il profilo qualitativo, continui ad essere costituito da un’attività non commerciale. Si prescinde, dunque, in sostanza, per gli enti ecclesiastici dalla verifica delle dichiarazioni statutarie, atteso che in base al documento conclusivo della commissione paritetica italo-vaticana (pubblicato nel S.O. n. 210 alla Gazzetta Ufficiale del 15 ottobre 1997, n. 241, circolare n. 168/E del 1998), a tali enti ” non sono… applicabili…le norme, dettate dal codice civile in tema di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private. Non può dunque a richiedersi ad essi, ad esempio, la costituzione per atto pubblico, il possesso in ogni caso dello statuto, nè la conformità del medesimo, ove l’ente ne sia dotato, alle prescrizioni riguardanti le persone giuridiche private”.
Sul punto la Commissione Europea, chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza o meno di una ipotesi di “aiuti di Stato”, in presenza del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 149, comma 4, con decisione del 19 dicembre 2012, ha precisato, al paragrafo 152, che “per quanto riguarda gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, l’Italia ricorda che la circolare dell’agenzia delle entrate n. 124/E del 12 maggio 1998, ha chiarito che gli enti ecclesiastici possono beneficiare del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali soltanto se non hanno per oggetto principale l’esercizio di attività commerciali. In ogni caso, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono conservare la prevalenza dell’attività istituzionale di ispirazione eminentemente idealistica”; ed ha aggiunto che ” pertanto, l’art. 149 Tuir, comma 4, si limita a escludere l’applicazione di particolari parametri temporali e di commercialità di quell’art. 149, commi 1 e 2, agli enti ecclesiastici e alle associazioni sportive dilettantistiche, ma non esclude che tali enti possono perdere la qualifica di enti non commerciali”. Al paragrafo 158 nella Decisione si è aggiunto che “in realtà, tanto gli enti ecclesiastici quanto le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere la qualifica di ente non commerciale si svolgono attività prevalentemente economiche. Pertanto, anche gli enti ecclesiastici e le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere il beneficio del trattamento fiscale riservato agli enti non commerciali in genere. Non risulta pertanto sussistere quel sistema di qualifica permanente di ente non commerciale”.
3.3. Del resto a conclusioni analoghe è giunta questa Corte con riferimento alla possibilità di dimezzamento dell’aliquota Irpeg per gli enti ecclesiastici, con la valorizzazione o del tenore dello Statuto oppure della attività esercitata in concreto che non deve essere attività commerciale prevalente. Il D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, comma 1, lett. a), prevedeva, sino alla intervenuta abrogazione da parte della L. 30 dicembre 2018, n. 145, che “l’imposta sul reddito delle persone giuridiche è ridotta alla metà nei confronti dei seguenti soggetti: a) enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza… a condizione che abbiano personalità giuridica”.
Si è affermato, infatti, che, al fine del riconoscimento del beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota dell’Irpeg, ai sensi del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, lett. h, in favore degli enti equiparati a quelli di beneficenza o istruzione, non è sufficiente che essi siano sorti con tali enunciati fini, ma occorre altresì accertare, alla stregua del coordinamento con il D.P.R. n., n. 598 del 1973, artt. 1 e 2, l’attività in concreto esercitata dagli stessi (come descritta nell’atto costitutivo, con precisa indicazione dell’oggetto, ovvero, in difetto, come effettivamente svolta), non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, ed inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti, dovendo altrimenti essere classificata come attività diversa, soggetta all’ordinaria tassazione (Cass., sez. 6-5, 13 dicembre 2016, n. 25586; Cass., sez. 1,15 febbraio 1995, n. 1633; Cass., 29 marzo 1990, n. 2573). Il D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, in quanto norma agevolativa a carattere eccezionale può pertanto essere applicata solo a fronte dell’attività specificamente previste. Analogamente a quanto affermato in materia di Ici, dunque, lo svolgimento di attività di assistenza o di altre attività equiparate, senza le modalità di un’attività commerciale, costituisce requisito oggettivo necessario ai fini dell’agevolazione e va accertata in concreto, con criteri di rigorosità, e, dunque, verificando le caratteristiche della clientela ospitata, della durata dell’apertura della struttura e, soprattutto, dell’importo delle rette, che deve essere significativamente ridotto rispetto ai prezzi di mercato, onde evitare un’alterazione del regime di libera concorrenza e la trasformazione beneficio in un aiuto di Stato (Cass., n. 13970/2016). Lo svolgimento della attività commerciale per oggetto esclusivo o principale eliminava, in radice, il presupposto della agevolazione. La natura dell’attività in concreto esercitata (elemento oggettivo) prevale sul fine dichiarato (elemento soggettivo) anche se si tratti di un fini non di lucro, dal momento che lo scopo di ripartire, oppure no, utili ai partecipanti all’iniziativa commerciale costituisce un momento successivo alla produzione degli stessi, che non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività e non rileva ai fini tributari, essendo indifferente la definizione data gli utili eventualmente prodotti (Cass., 15 febbraio 1995, n. 1633).
3.4. Analoghe considerazione sono state fatte per il pagamento dell’Ici e dell’Imu da parte degli enti ecclesiastici, con valutazione in ordine alla effettiva attività svolta e non all’oggetto dello statuto. Si è ritenuto che, in materia di ICI, l’esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 39, conv. in L. n. 248 del 2006, presuppone l’esistenza sia di un requisito soggettivo, costituito dalla natura non commerciale dell’ente, sia di un requisito oggettivo, ovvero che l’attività svolta nell’immobile rientri tra quelle previste dal medesimo art. 7, non assumendo rilevanza la successiva destinazione degli utili al perseguimento di fini sociali o religiose, che non fa venire meno il carattere commerciale dell’attività – in applicazione del principio, questa Corte ha escluso che l’attività recettiva svolta da un istituto religioso, attraverso una casa per ferie, dia diritto ad un’esenzione dall’ICI, ove non sia offerta gratuitamente o ad un prezzo simbolico (Cass., sez. 5, 15 marzo 2019, n. 7415; Cass., sez. 65, 3 maggio 2017, n. 10754, che ha escluso l’esenzione in un caso in cui veniva svolta un’attività didattica avente oggettivamente natura commerciale ovvero esercitata dietro pagamento di una retta che non si discostava nell’ammontare da quelle di mercato; Cass., sez. 5, 8 luglio 2015, n. 14226, che ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di merito che aveva riconosciuto l’esenzione dall’Ici ad una scuola paritaria di ispirazione religiosa, i cui utenti pagavano un corrispettivo, attribuendo erroneamente rilievo alla circostanza che la attività fosse in perdita).
4. Il giudice di appello, allora, è incorso nella invocata violazione di legge.
4.1. Occorre, però, anzitutto chiarire i termini della questione sottoposta al giudice. L’avviso di accertamento, infatti, relativo esclusivamente all’anno 2004, era relativo sia all’Ires che all’Irap. Quanto all’Ires si era tenuto conto delle asserite plusvalenze immobiliari per Euro 873.030,00, poi escluse dal giudice di primo grado, oltre al recupero a tassazione di canoni di locazione per appena Euro 1.224,00. Quanto all’Irap, si era tenuto conto delle plusvalenze immobiliari, poi ritenute inesistenti dal giudice di prime cure, del canone di locazione di Euro 1.224,00 e, soprattutto, dei contributi pubblici per Euro 1.921.077,00.
Va ancora evidenziato che l’Istituto aveva redatto due diversi bilanci: il primo, composto da stato patrimoniale e conto economico, riferibile a tutte le attività, quindi anche a quelle di carattere non commerciale, non rilevanti ai fini fiscali, con inclusione anche dei “contributi degli enti pubblici” per Euro 1.921.077,00, con un utile da bilancio di Euro 312.214,00; il secondo, composto dal solo conto economico, relativo esclusivamente alle movimentazioni relative all’attività scolastica, quindi produttiva ai fini fiscali di reddito di impresa, in cui non erano inseriti i contributi pubblici per Euro 1.921.077,00. L’utile “civilistico” di detta specifica attività scolastica era di Euro 83.084,00 che, al netto delle deduzioni spettanti per legge, aveva prodotto una perdita fiscale di Euro 22.535,00.
La dichiarazione dei redditi del 2004 era stata predisposta sulla scorta del secondo bilancio, relativo solo alla gestione scolastica, rilevante appunto ai fini fiscali.
Per l’Agenzia delle entrate, per quel che ancora qui rileva, i contributi pubblici, che si trovavano indicati nel primo bilancio, ma non nel secondo, costituivano componente positivo del reddito Ires, oltre che ai fini Irap. In realtà, dunque, l’Agenzia delle entrate aveva utilizzato per l’accertamento, non il secondo bilancio, riferibile alla specifica attività di gestione scolastica, senza l’indicazione dei contributi pubblici, ma il primo bilancio che indicava tutte le attività, comprese quelle esenti ai fini fiscali, come i contributi pubblici.
4.2. Il giudice di appello, dunque, alla stregua delle risultanze agli atti, ha ritenuto, condividendo il ragionamento del primo giudice, la insussistenza delle qualifica in capo all’Istituto di “Ente Ecclesiastico non economico” (“cfr. pag. 2 della motivazione “Per quanto riguarda il mancato riconoscimento della qualifica di Ente non commerciale dell’Istituto Religioso, questo Collegio condivide sia sotto il profilo giuridico che normativo quanto deciso dai Giudici di primo grado, che non lo hanno ritenuto Ente Ecclesiastico non economico, stante quanto è dato rilevare dallo stesso Statuto dell’Istituto”).
E’ chiaro che il giudice tributario avrebbe potuto disconoscere la natura di ente non commerciale dell’ente ecclesiastico, sì da non consentire l’applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 143 e ss., destinati appunto proprio alla disciplina tributaria degli “enti non commerciali residenti”. Se, dunque, l’ente ecclesiastico non è ente non commerciale non potevano ad esso applicarsi queste disposizioni specifiche dettate proprio per gli “enti non commerciali”. Il giudice tributario non avrebbe, poi, potuto disconoscere all’Istituto la natura di “ente ecclesiastico”, in quanto in base al Concordato 1929 ed alle successive modifiche, la natura ecclesiastica dell’ente è riconosciuta solo dal diritto canonico, mentre lo Stato italiano può solo operare il “riconoscimento” dell’ente ecclesiastico nello Stato.
Del resto, lo stesso giudice di appello, subito dopo, all’inizio di pagina 3 della motivazione, riconosce all’Istituto la natura di “ente non commerciale” (“pur non escludendo il perseguimento da parte dell’Istituto anche di finalità di religione e di culto come suo oggetto e cioè la sua natura di Ente non commerciale”), pur avendo negato la natura di “Ente Ecclesiastico non economico”. Tanto è vero, che, proprio per la qualificazione dell’Istituto, quale “Ente non commerciale”, gli applica il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 143 (reddito complessivo degli enti non commerciali residenti). Afferma il giudice che il reddito si computa come accade per le persone fisiche, con la differenziazione tra tutte le ipotesi reddituali (fondiarie, da impresa, di capitali, diversi), proprio per evitare pericolose “contaminazioni” tra i diversi tipi di reddito. Specifica che però l’Istituto, che resta un ente non commerciale, pur non essendo “ente Ecclesiastico non economico”, avrebbe dovuto tenere una contabilità separata con specifico riferimento alla porzione di attività commerciale costituita dalla gestione scolastica.
4.3. Pertanto, una prima violazione di legge si rinviene nell’avere ritenuto esistente una attività commerciale prevalente, tale da poter eliminare all’ente ecclesiastico la natura di “ente non commerciale” o di “Ente Ecclesiastico non economico”.
Infatti, l’avviso di accertamento è riferito solo alla annualità 2004, mentre per tutte le altre annualità non vi sono stati rilievi (anni 2001, 2002, 2003 e 2005). L’art. 149 Tuir, comma 4, però, come detto prevede che lo svolgimento di attività commerciale prevalente per un esercizio che fa perdere la qualifica di ente non commerciale a tutti gli enti, non trova applicazione agli enti ecclesiastici.
Pertanto, essendo stato preso in esame un solo anno, non poteva l’Istituto perdere la natura di “ente non commerciale”.
4.4. La seconda violazione di legge si innesta sulla necessità di contabilità separata ai sensi dell’art. 144 Tuir, comma 2. Ebbene, è pacifico, perchè lo ammette lo stesso giudice di appello, confermando quanto detto dall’Istituto, che questi ha predisposto due bilanci separati, il primo completo di stato patrimoniale e conto economico, relativo a tutti i redditi, compresi quelli esenti, il secondo relativo solo alla porzione di attività commerciale inerenti la gestione della attività scolastica, di cui tra l’altro si ignora l’importo delle rette pagate e delle spese sostenute.
Pertanto, è la stessa Agenzia, come pure il giudice di appello, ad ammettere l’esistenza della contabilità separata come pure la possibilità di lettura della stessa da parte dell’Ufficio. Si legge, infatti, in motivazione che “tuttavia, pur in assenza di contabilità separata, l’ufficio è entrato nel merito delle singole riprese fiscali, ai fini di determinarne l’imponibilità o meno, premettendo, innanzitutto, che parte ricorrente aveva riconosciuto l’esistenza di attività commerciale con la perdita fiscale di Euro 22.595,00, per la gestione delle scuole, con la tenuta da parte dell’istituto di una specifica contabilità ai fini delle II.DD. Ed Iva e che nel questionario affermava di non avere una contabilità analitica, ma di entrate ed uscite”. Insomma, è lo stesso giudice di appello a riconoscere l’esistenza di una contabilità costituita da “entrate e uscite”, e che è riuscito ad “entrare nel merito delle riprese fiscali”.
Sulla base di queste premesse, il giudice di appello, proprio per l’assenza della contabilità separata, e per lo svolgimento di una attività commerciale di gestione della attività scolastica ha escluso l’applicazione della esenzione da tassazione di cui all’art. 143 Tuir, comma 3, lett. b), in relazione ai contributi pubblici.
è evidente la violazione di legge, non soltanto per la ritenuta esistenza del conto economico, riportante “entrate” e “uscite” relative alla attività commerciale di gestione di attività scolastiche, ma anche perchè questa Corte ha ritenuto che il requisito della contabilità separata non richiede la predisposizione di due distinti e completi bilanci di esercizio.
4.5. Invero, per questa Corte (Cass., sez. 5, 14 luglio 2017, n. 17454) l’art. 144 Tuir, comma 2, relativo alla contabilità separata, prevede l’obbligo di tenuta della contabilità separata per l’attività commerciale eventualmente esercitata, all’evidente scopo di rendere più trasparente la contabilità commerciale degli enti non commerciali e di evitare ogni commistione con l’attività istituzionale, nonchè di facilitare la qualificazione dell’ente. Si è precisato che è stato previsto uno specifico regime contabile per gli enti non commerciali che esercitano anche attività di tipo commerciale (Cass., sez. 5, 3 luglio 2015, n. 13751). Nella contabilità separata vanno rilevati distintamente i “fatti amministrativi” relativi all’attività istituzionale dai fatti amministrativi relativi all’attività commerciale, conformemente all’intento del legislatore di mantenere separati gli ambiti delle due concorrenti attività e di rendere più trasparente la contabilità “commerciale” degli enti non commerciali. L’art. 144 Tuir, comma 6, poi, si limita a derogare a tale obbligo di denuncia nel caso di enti soggetti alle norme sulla contabilità pubblica, i quali restano esonerati da tale obbligo qualora osservino le modalità previste per la contabilità pubblica tenuta norma di legge.
Come si vede la giurisprudenza di legittimità non richiede, per il rispetto della contabilità separata, la predisposizione di due bilanci completi di conto economico e stato patrimoniale, ma solo la distinzione tra due diverse tipologie di “fatti amministrativi”, quelli collegati all’attività istituzionale e quelli relativi alla porzione di attività commerciale. Ciò che è accaduto nel caso di specie, come peraltro accertato con giudizio di fatto da parte del giudice di appello.
Da questo errore, poi, si sono verificati tutti gli ulteriori errori a catena, con riferimento alla indicazione dei “contributi pubblici” tra i redditi di impresa, trattandosi, invece, di redditi esenti ai sensi dell’art. 143 Tuir, comma 3, lett. b.
4.6. La stessa agenzia delle entrate, con la risoluzione numero 86/E del 13 marzo 2002, ha affermato che la tenuta di un unico impianto contabile e di un unico piano dei conti, strutturato in modo da poter individuare in ogni momento le voci destinate all’attività commerciale, non è di ostacolo all’eventuale attività di controllo esercitata dagli organi competenti. La tenuta di una contabilità separata non prevede, infatti, l’istituzione di un libro giornale e di un piano dei conti separato per ogni attività, essendo sufficiente un piano dei conti non troppo dettagliato nelle singole voci, che permetta di distinguere le diverse movimentazioni relative ad ogni attività.
Anche la dottrina è giunta alla conclusione che il requisito della separazione contabile risulta integrato anche in presenza di una contabilità o un piano dei conti unico, che consenta, però, di distinguere i redditi relativi alle varie attività (da separare), tramite la definizione di modalità di imputazione delle voci di costo-ricavo e delle attività – passività, riconducibili alle diverse branche operative. In sostanza, è consentita una “contabilità separabile”.
Si è ritenuto in dottrina che per l’attività istituzionale degli enti ecclesiastici non è previsto, ai fini civilistici, alcun obbligo contabile in termini di rendicontazione. L’art. 20 c.c. stabilisce solo l’approvazione del bilancio tra le attività richieste. Non vi è neppure un obbligo in tenuta delle scritture contabili, richieste soltanto per le imprese ai sensi dell’art. 2214 c.c..
Pertanto, pur non essendo richiesti specifici obblighi in tal senso, risulta comunque necessaria, ai fini pratici, la tenuta di una contabilità anche “elementare”, non necessariamente con il metodo della partita doppia, oltre alla predisposizione di un rendiconto annuale, strumento di trasparenza e di controllo dell’intera gestione economica e finanziaria dell’ente. E’ chiaro che gli enti ecclesiastici di maggiori dimensioni possono ricorrere anche a mezzo della partita doppia, normalmente utilizzata nella contabilità ordinaria degli enti commerciali. In tal caso, al termine dell’esercizio, deve essere redatto il relativo bilancio, formato dal conto economico dallo stato patrimoniale. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 20, peraltro, ha previsto che in relazione alle attività commerciali eventualmente esercitate dagli enti non commerciali, sono obbligatorie le scritture contabili di cui al medesimo D.P.R. artt. 14-16-18, e che gli adempimenti contabili sono determinati dalle dimensioni del fatturato dell’attività commerciale.
Si prevede che la “separazione contabile”, in mancanza di espressa previsione, potrebbe avvenire mediante l’adozione di due sistemi contabili distinti, come per esempio un registro di prima nota per l’attività commerciale ed uno per l’attività istituzionale, oppure, nell’ambito delle complessive risultanze contabili, individuando appositi conti o sotto conti, che evidenzino la natura della posta contabile sottesa, di natura commerciale, istituzionale o promiscua. Pertanto, l’attività istituzionale diretta al fine di religione di culto dell’ente ecclesiastico non ha alcuna rilevanza tributaria e le operazioni non riferibili all’attività commerciale non vanno obbligatoriamente contabilizzate fini fiscali. Si è prospettata la ripartizione delle attività con riferimento alla redazione del bilancio, così che, da un lato, vi sarà un bilancio istituzionale, che riguarda unicamente la vita interna dell’ente e l’esercizio delle attività sue proprie di religione di culto, e dall’altro un bilancio fiscale-commerciale, relativo alle attività di tale natura eventualmente svolte.
Il bilancio, comunque, può essere redatto con qualsiasi metodo secondo qualsiasi schema, purchè conformi ai principi della tecnica contabile, non essendovi alcun obbligo di adeguarsi nella redazione del bilancio alle disposizioni concernenti gli schemi la forma previsti per il bilancio delle società di capitali.
4.7. Una conferma della correttezza della interpretazione di questa Corte, in relazione all’obbligo della contabilità separata, si ricava dalla nuova normativa in ordine codice del “Terzo Settore”, entrato in vigore nel 2017, in cui, per la prima volta, si precisa quale è il contenuto della contabilità separata che prevede l’utilizzo proprio del conto economico e dello stato patrimoniale. Alle tre categorie fiscali individuate dall’art. 73 Tuir, comma 1, e quindi le società, gli enti commerciali diversi dalle società e gli enti non commerciali, se ne sono aggiunte due nuove, ossia gli enti del terzo settore non commerciali, ex art. 79 CTS (codice terzo settore) e gli enti del terzo settore commerciali.
Nella disciplina del terzo settore la qualifica di commercialità o meno dell’ente è diversa da quella tradizionalmente desumibile dal combinato disposto degli artt. 73 e 149 del Tuir. Nel terzo settore, invece, I’ETS è (o non commerciale) in base al solo criterio della prevalenza (o meno) delle entrate di natura commerciale, non rilevando il criterio formale fondato sulla disamina delle disposizioni statutarie, ex art. 79 CTS, comma 5.
Il D.Lgs. n. 117 del 2017, art. 13 (scritture contabili e bilancio) prevede che “gli enti del terzo settore devono redigere il bilancio di esercizio formato dallo stato patrimoniale, dal rendiconto gestionale, con l’indicazione dei proventi e degli oneri dell’ente, e dalla relazione di missione che illustra le poste di bilancio, l’andamento economico e gestionale dell’ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie”.
Il medesimo decreto legislativo (enti del terzo settore), art. 4, comma 4, dispone, poi, che “agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’art. 5, a condizione che per tali attività adottino un regolamento…”, con la precisazione che “per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’art. 13”.
4.7. Peraltro, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 20 (scritture contabili degli enti non commerciali) prevede che “le disposizioni degli artt. 14, 15, 16, 17, 18 si applicano relativamente alle attività commerciali eventualmente esercitate, anche agli enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”. Pertanto, vari sono i regimi contabili applicabili agli enti non commerciali per l’attività di impresa eventualmente esercitata, ciò in base all’entità dei volumi annui di ricavi realizzati. Pertanto, potrà essere utilizzato un regime di contabilità semplificata o di contabilità ordinaria o ancora di contabilità super semplificata.
5. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “nullità della sentenza e del procedimento. Violazione dell’art. 100 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Violazione di legge artt. 143.1, 143.3 lett. b TUIRn. 917 del 1986”, in quanto, una volta accertato che non vi era l’obbligo di istituire un libro giornale e un piano dei conti separato per ogni attività, l’esclusione dal reddito e, quindi, dalla tassazione della somma di Euro 1.921.077,00 relativa ai contributi, oltre che della somma di Euro 873.020, relativa alle plusvalenze, comporta un reddito dell’Istituto, nel 2004, di carattere negativo ai fini Ires.
5.1. Tale motivo è assorbito, in ragione dell’accoglimento dei primi due motivi di impugnazione, sicchè sarà il giudice di merito, dopo un nuovo esame dei fatti, emendato dagli errori di diritto commessi, a determinare l’effettivo reddito imponibile dell’Istituto.
6. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “nullità della sentenza; violazione dell’art. 329 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, in quanto il giudice di appello ha affermato che si sarebbe formata una preclusione per il fatto che il contribuente non avrebbe impugnato espressamente la variazione in aumento del reddito, ossia la “sintesi” dell’Ufficio. In realtà, l’avviso di accertamento contestava più voci di reddito (plusvalenze; imponibilità dei contributi pubblici; omessa dichiarazione del reddito di Euro 1.224,00 da locazione di immobile). L’Istituto ha, però, contestato tutti i redditi relativi all’accertamento, sicchè non può certo formarsi il giudicato sul complessivo “reddito imponibile”, essendo state contestate le singole voci che lo compongono.
6.1. Tale motivo è fondato.
Invero, l’Istituto ha contestato ogni singola voce del reddito accertato nei suoi confronti, sicchè non può certo essersi formato il giudicato in ordine al “reddito complessivo”, quale somma delle singole voci di reddito, tutte censurate dal contribuente.
La Commissione regionale, invece, erroneamente ha ritenuto che la “variazione in aumento” del reddito, non essendo stata contestata tale ripresa, era ineccepibile, sicchè “l’operato dell’Ufficio appare consolidato nella pretesa impositiva”.
7. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione distaccata di Palermo, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
PQM
Accoglie i motivi primo, secondo e quarto; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in ordine ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione distaccata di Palermo, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021
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