LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –
Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –
Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al numero 7625 del ruolo generale dell’anno 2010, proposto da:
s.p.a. San Domenico Vetraria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dagli avvocati Luigi Albisinni e Achille Buonafede, presso lo studio dei quali in Roma, alla via Zanardelli, n. 20, elettivamente si domicilia;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate e Ministero dell’economia e delle finanze, in persona rispettivamente del direttore pro tempore e del ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si domiciliano;
– controricorrenti –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata in data 28 luglio 2009, n. 339/1/09;
udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 10 novembre 2020 dal consigliere Dott.ssa Perrino Angelina-Maria;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. De Augustinis Umberto, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del primo motivo di ricorso e il rigetto dei restanti;
udito per l’Agenzia l’avvocato dello Stato Davide Giovanni Pintus.
FATTI DI CAUSA
Si legge nella narrativa della sentenza impugnata che una verifica parziale ai fini iva consentì di accertare che un dirigente della s.p.a. Avir, società controllante la s.p.a. San Domenico Vetraria, era stato distaccato presso la controllata con l’incarico di direttore di uno degli stabilimenti di questa e che le relative voci di costo erano state addebitate alla distaccataria. La s.p.a. San Domenico Vetraria aveva ricevuto dunque dalla propria controllante fatture recanti importi corrispondenti a quelli sostenuti per i costi del dirigente distaccato e, nel rimborsarli, aveva applicato l’iva, ai fini del successivo esercizio del relativo diritto di detrazione.
Di contro, l’Agenzia sostenne che i rimborsi non afferissero a prestazioni di servizi tra controllante e controllata, perchè il mero prestito di personale è da ritenere fuori campo iva, in base alla L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 8, comma 35; sicchè recuperò l’iva che la contribuente aveva a quel titolo detratto.
L’Agenzia rilevò inoltre che la contribuente aveva ceduto rifiuti d’imballaggio di vetro e di rottami di vetro, ma senza assoggettare le operazioni all’iva; di modo che recuperò anche la relativa iva non assolta.
La società impugnò il conseguente avviso di accertamento, senza successo nè in primo, nè in secondo grado.
In particolare, quanto al primo aspetto, la Commissione tributaria regionale della Campania ha ritenuto applicabile il richiamato dalla L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, di modo che, mancando la prova che il dipendente distaccato ricevesse una maggiorazione di somme o esercitasse funzioni diverse da quelle già svolte presso la distaccante, ha escluso l’imponibilità del distacco e, quindi, l’assoggettabilità a iva delle somme oggetto dei rimborsi.
Quanto al secondo rilievo, il giudice d’appello ha qualificato le cessioni dei rifiuti d’imballaggio di vetro come prestazioni di servizi disciplinate dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, punto 127-sexiesdecies della tabella A), parte III, allegata; sicchè le ha ritenute assoggettabili a iva con l’applicazione dell’aliquota del 10%.
Contro questa sentenza propone ricorso la s.p.a. San Domenico Vetraria per ottenerne la cassazione, che affida a quattro motivi, cui l’Agenzia e il Ministero reagiscono con controricorso.
Il giudizio proviene da adunanza camerale e, in esito alla pubblica udienza successiva, è stato sollecitato il contraddittorio sui profili di possibile frizione della L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, col diritto unionale; le parti, in risposta, hanno depositato memorie.
Con la successiva ordinanza interlocutoria n. 2385/19 questa Corte ha quindi chiesto alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione volta a verificare se gli artt. 2 e 6 della sesta direttiva, nonchè il principio di neutralità fiscale debbano essere interpretati nel senso che ostano a una legislazione nazionale in base alla quale non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale della controllante a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo da parte della controllata. In seguito alla pubblicazione in data 11 marzo 2020 della relativa sentenza della Corte di giustizia (nella causa C-94/19), è stata rifissata la pubblica udienza, in prossimità della quale la società ha depositato ulteriore memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, privo di legittimazione sostanziale e processuale.
Si compensano le relative voci di spesa.
2.- Col primo motivo di ricorso, la società denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., perchè il giudice d’appello non ha dato conto di altra sentenza pronunciata dalla medesima Commissione (la n. 92/41/08 del 16 maggio 2008), depositata in data 5 giugno 2008 sui medesimi fatti e le identiche questioni di diritto.
Il motivo è inammissibile.
Come la stessa società riferisce, la sentenza invocata è stata pubblicata in data 5 giugno 2008, di modo che è divenuta cosa giudicata, in mancanza d’impugnazione (alla quale non si assume che fosse applicabile il termine breve), il 21 luglio 2009, ossia antecedentemente alla pubblicazione di quella d’appello, la quale risale al successivo 28 luglio.
Quando, allora, la contribuente ha evocato quella sentenza, ossia “con ricorso depositato in data 9.7.2008”, il giudicato non si era ancora formato, sicchè nessuna eccezione di giudicato essa ha proposto.
2.1.- Ne consegue l’applicabilità dell’art. 395 c.p.c., n. 5, che configura espressamente come motivo di revocazione l’ipotesi che la sentenza sia “contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione” (arg., tra varie, da Cass., sez. un., 20 ottobre 2010, n. 21493; 4 novembre 2015, n. 22406; 3 novembre 2016, n. 22177).
3.- Col secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la società si duole della violazione o falsa applicazione della L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1321 e 1322 c.c., con riguardo alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, e della correlativa omessa, o insufficiente o contraddittoria motivazione, là dove il giudice d’appello ha ravvisato, quanto al distacco del dipendente, una mera operazione di rimborso, in quanto tale non imponibile, trascurando perdipiù le particolari funzioni assegnate al dirigente e l’insussistenza di qualsivoglia danno per l’erario.
Il motivo è fondato, perchè la norma in questione, secondo la quale “non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo” va disapplicata, in base a quanto stabilito dalla Corte di giustizia, nella causa C-94/19 indicata in narrativa.
3.1.- Il distacco di personale, di per sè e nell’ambito dei rapporti tra controllante e controllata, è operazione economica, inerente all’esercizio dell’attività d’impresa, sia della controllante, sia della controllata, ed è tra l’altro contemplato tra le prestazioni di servizi dall’art. 9 della sesta direttiva, che si riferisce con formulazione generale alla “messa a disposizione di personale”.
La necessaria sussistenza di uno specifico interesse del datore di lavoro distaccante, che la giurisprudenza di questa Corte ha ravvisato in quello volto a garantire la maggiore funzionalità dell’organizzazione comune a controllante e controllata (Cass. 21 aprile 2016, n. 8068, nonchè, con riguardo proprio all’ipotesi di distacco di un dirigente, Cass. 3 luglio 2015, n. 13673), emerge dal D.Lgs. 10 settembre 2003, 276, art. 30, applicabile all’epoca dei fatti; e che tale interesse sussista e che abbia conformato quello dell’imprenditore distaccatario, il quale ha inserito il dirigente distaccato nella propria organizzazione produttiva, non è oggetto di contestazione nell’odierno giudizio.
3.2.- La Corte di giustizia, dunque, nel giudicare fondato il dubbio sollevato con la richiamata ordinanza n. 2385/19, ha stabilito che la prestazione di servizi, come definita dall’art. 2, punto 1, della sesta direttiva (che si specchia nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3) è da ritenere onerosa, e quindi imponibile, purchè sia ravvisabile nesso di corrispettività tra servizio reso e somma ricevuta, anche in mancanza di lucratività.
Irrilevante è, in particolare, l’importo del corrispettivo, ossia che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell’ambito della fornitura della sua prestazione.
3.3.- Occorre, tuttavia, verificare che il pagamento da parte della San Domenico Vetraria degli importi che ad essa sono stati fatturati dalla sua controllante costituisse una condizione affinchè quest’ultima distaccasse il dirigente, e che la controllata ha pagato tali importi solo come corrispettivo del distacco. E’ in tal caso, ha specificato la Corte di giustizia, che si deve concludere per l’esistenza di un nesso diretto tra le due prestazioni; laddove il giudice d’appello, incentrando la propria decisione sull’applicazione della L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, non ha svolto queste valutazioni.
Il motivo va quindi accolto.
Ne risulta assorbito in parte qua il quarto motivo di ricorso, col quale la società si duole dell’aspetto sanzionatorio dipendente.
4.- Col terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la società lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74 e del suddetto D.P.R. n. 633 del 1972, punto 127-sexiesdecies della tabella A, parte III, allegata, con particolare riferimento al D.Lgs. n. 22 del 1997, all’art. 12 preleggi e alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, là dove il giudice d’appello non ha qualificato come cessioni esenti quelle di rifiuti di imballaggio di vetro e di rottami di vetro pronto al forno. Secondo la contribuente non è applicabile il citato punto 127-sexiesdecies, perchè l’applicazione dell’aliquota al 10% dell’iva da esso prevista concerne le sole prestazioni di servizi afferenti al ciclo pubblicistico di raccolta e di smaltimento dei rifiuti; esaurita la fase d’interesse pubblico, l’operazione di cessione dei rottami di vetro e dei rifiuti d’imballaggio di vetro riguarderebbe la fase privatistica del processo industriale, assumendo la configurazione di cessione di beni, da assoggettare al regime dell’inversione contabile domestica previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74.
Il motivo è infondato.
4.1.- Va premesso che, a differenza di quanto sostiene la contribuente, l’applicazione del regime d’inversione contabile non comporta affatto che l’operazione sia “esentata da tassazione IVA”, giacchè l’inversione contabile è uno strumento di assolvimento dell’iva relativa a un’operazione che è e resta imponibile (si veda, per tutte, Cass. 15 luglio 2015, n. 14767).
4.2.- Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, che comporta l’assolvimento dell’iva con aliquota ordinaria, si applica al commercio di rottami, mentre il D.P.R. n. 633 del 1972, punto 127-sexiesdecies della parte terza della Tabella A allegata disciplina la gestione di rifiuti, con applicazione dell’aliquota ridotta del 10 per cento.
4.3.- Ai fini della scelta del regime questa Corte (Cass. 5 ottobre 2016, n. 19886) ha valorizzato la destinazione del bene e nel farlo ha richiamato il D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, conv., con mod., con L. 8 agosto 2002, n. 178, nel testo vigente all’epoca dei fatti anche nel presente giudizio, che ha dettato l’interpretazione autentica della definizione di rifiuto contenuta nel D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 6, comma 1, lett. a).
Ciò che conta perchè si possa applicare il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, ha specificato la Corte, è che i materiali non siano rifiuti da smaltire o da recuperare, ma siano destinati ad essere riutilizzati nello stesso o in altro ciclo produttivo. In base all’art. 14, difatti, perchè un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica come rifiuto è necessario che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente, vuoi previo trattamento, ma senza necessità di un’operazione di recupero a norma dell’allegato II B della direttiva n. 75/442/Cee.
4.4.- Va sottolineato che questa nozione di rifiuto non è compatibile col diritto unionale.
La Corte di giustizia (con sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli) ha difatti stabilito che la definizione di rifiuto contenuta nell’art. 1, lett. a), comma 1, della direttiva n. 75/442/Cee non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionati negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l’intenzione o l’obbligo di destinarli a siffatte operazioni.
Sicchè rientra nella nozione unionale di rifiuto anche il materiale oggetto di qualsiasi operazione che si traduca nello smaltimento o nel recupero del rifiuto; in particolare, il residuo di un processo produttivo, cioè il prodotto che non è stato ricercato in quanto tale al fine di un utilizzo ulteriore, è un rifiuto.
Il rifiuto si origina quindi nel momento in cui il detentore ha valutato che da una determinata sostanza non possa (o non voglia) più ricavare alcuna utilità con la conseguente decisione di disfarsene.
E quanto ai residui di consumo o di produzione, perchè li si possa definire sottoprodotti commerciabili o riutilizzabili, occorre che siano rispettate alcune tassative condizioni: a) il riutilizzo del materiale non deve essere solo eventuale, ma certo; b) il riutilizzo deve avvenire senza la preliminare trasformazione del materiale; c) il riutilizzo deve avvenire nel corso dello stesso processo di produzione; d) il riutilizzo può avvenire anche in un processo successivo, rispetto a quello di provenienza, ma sempre senza trasformazioni preliminari; e) il riutilizzo deve avvenire, in ogni caso, senza arrecare danni all’ambiente.
Per conseguenza, solo i residui utilizzati senza trasformazione preliminare non costituiscono rifiuti (in termini, Corte giust. 11 settembre 2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome); mentre i materiali che non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione non perdono la caratteristica di rifiuti.
5.- Questa Corte ha dubitato di poter disapplicare il D.L. n. 138 del 2002, art. 14 alla luce della normativa unionale, come interpretata dalla Corte di giustizia, tanto che in relazione a questa norma ha promosso incidente di legittimità costituzionale (Cass. pen., ord. 24 novembre 2005/24 marzo 2006, n. 10328, Italiano).
5.1.- Nel caso in esame, peraltro, il materiale ceduto dalla società va qualificato come rifiuto senza necessità di valutare la possibilità di disapplicare la norma.
E ciò perchè il giudice d’appello, con accertamento di fatto che non è stato impugnato, ha acclarato che le cessioni sono avvenute nei confronti dei centri di trattamento e di recupero in seno all’iter procedimentale di gestione dei rifiuti d’imballaggio disciplinato dal D.Lgs. n. 22 del 1997.
Resta quindi esclusa la possibilità di applicare il regime previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74 per il commercio di rotta mi.
5.2.- In questo contesto, nessun rilievo riveste la circolare 12 maggio 2008, n. 43/E dell’Agenzia delle entrate invocata in ricorso, la quale, peraltro, pur sempre si riferisce a materiale qualificabile come rottame, e non già come rifiuto.
Il motivo va quindi respinto.
6.- Infondato è in relazione alla ripresa in questione il quarto motivo di ricorso, col quale la società denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 1 e 10, laddove il giudice d’appello per un verso non ha tenuto conto della condizione di obiettiva incertezza della normativa e, per altro verso, ha trascurato l’insussistenza di un danno per l’erario.
6.1.- Quanto al primo aspetto, basti il richiamo al consolidato orientamento di questa Corte (per tutte, cfr. Cass. 23 novembre 2016, n. 23845), secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, nè all’ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione.
Nessuna incertezza, nel senso indicato, è ravvisabile nel caso in esame, in cui il regime delle operazioni concernenti i rifiuti è chiaramente delineato dalle disposizioni dinanzi esaminate.
6.2.- E’ poi da escludere l’insussistenza di un danno per l’erario, in quanto nella prospettazione, sia pure infondata, di parte si pretende che l’operazione in questione vada esente da iva.
Questa prospettazione non consente di affermare che sia stata assolta l’iva dovuta e che sia stato esercitato tempestivamente il corrispondente diritto di detrazione (sulla necessità di rispettare il termine biennale di decadenza relativo anche nel caso di applicazione del regime d’inversione contabile, si veda, per tutte, Corte giust. 28 luglio 2016, causa C-332/15, Astone, punto 35).
Ne discendono l’inapplicabilità del principio ritraibile ancora dalla giurisprudenza unionale (Corte giust. 26 aprile 2017, causa C-564/15, Tibor Farkas) secondo cui, sul presupposto che il soggetto passivo aveva integralmente pagato quanto dovuto, ha ritenuto sproporzionata la sanzione che, nel caso al suo esame, era commisurata in misura pari, automaticamente, al cinquanta per cento dell’importo dell’imposta, nonchè, a monte, l’inapplicabilità del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 5 bis, invocato in ricorso (in termini, cfr. Cass. n. 14767/15, cit.).
7.- In conclusione, in accoglimento, nei limiti sopra indicati, del secondo motivo di ricorso, assorbito in parte qua il quarto, vc’, cassla sentenza impugnata in relazione al profilo accolto s rinvio, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Campania in diversa composizione.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e compensa le relative voci di spesa; accoglie, nei limiti in motivazione, il secondo motivo di ricorso, assorbito in parte qua il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al profilo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Campania in diversa composizione. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021