LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –
Dott. PANDOLFI Catello – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al n. 8544-2015 R.G. proposto da:
V.N. rappresentato e difeso dall’avv. Gennaro Esposito con domicilio eletto in Somma Vesuviana via N. Indolfi n. 7;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato domiciliata in Roma via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
Avverso la decisione della Commissione tributaria regionale della Campania n. 8040/17/14 depositata il 22/09/2014;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16.07.2020 dal Consigliere Dott. Pandolfi Catello.
RILEVATO
che:
V.N., commerciante al dettaglio di abbigliamento e biancheria, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Commissione per la Campania n. 8040/ 17/2014 depositata il 22/09/2014.
La vicenda scaturisce dalla notifica dell’avviso di accertamento per l’anno 2007 in applicazione degli studi i settore. L’Ufficio deduceva il recupero d’imposta in quanto era emerso dalla verifica un maggior reddito d’impresa di Euro 82.033,00 con conseguente maggior imposte per IRPEF, addizionali e IRAP.
Il contribuente opponeva l’atto impositivo e la CTP di Napoli accoglieva parzialmente il ricorso. Lo stesso contribuente appellava tale decisione e l’Ufficio nel costituirsi proponeva a sua volta ricorso incidentale, che la CTR accoglieva, confermando l’avviso di accertamento.
Ricorre il contribuente deducendo un unico motivo per violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3 e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si è costituito l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
CONSIDERATO
che:
Il ricorrente lamenta che nel caso in esame l’Ufficio non avrebbe provveduto ad adeguare l’accertamento alla concreta realtà imprenditoriale, basandosi nella ricostruzione reddituale al solo scostamento tra la dichiarazione dei redditi e l’applicazione degli standard dello studio applicabile al settore in accertamento. Per contro, sarebbero state ignorate le deduzioni del contribuente rese nella fase del contraddittorio endoprocedimentale. In tale quadro anche il calcolo del maggior reddito sarebbe frutto della sola applicazione dei parametri prefissati, senza che la sentenza motivi sull’inattendibilità dei dati contabili dichiarati dal contribuente.
Su tale premessa riteneva che se la CTR avesse adeguatamente valutato le deduzioni da lui addotte sarebbe giunta a diversa decisione.
Orbene, dall’esame della sentenza impugnata le doglianze del contribuente non trovano conferma.
Giova ricordare che i termini dell’accertamento derivano dalla presunzione dell’Ufficio che la “perdita” dichiarata dal ricorrente, conseguente alla (asserita) distruzione di alcuni capi di abbigliamento per un importo di Euro 97.322,63, in realtà non fosse avvenuta e che la merce fosse stata, invece, oggetto di vendita.
Il giudice regionale, nel motivare, ha marcato la rilevanza della circostanza che l’asserita distruzione di merce, di notevole valore, non era stata provata, malgrado la particolare procedura da seguire nell’operazione di smaltimento, implicasse l’acquisizione di specifica documentazione, facilmente esibibile.
In altri termini, la Commissione d’appello ha applicato il principio che quanto affermato da una parte deve essere dalla stessa provato, rilevando che tale onere, in ispecie, non era stato assolto benchè si trattasse di dimostrare una circostanza assai rilevante nella ricostruzione reddituale sfavorevole al ricorrente, tanto da trasformare una perdita dichiarata di Euro 143,00 in una situazione di maggior reddito, addebitatagli, di Euro 38.033,00.
Il contribuente ha cioè mancato di superare le sfavorevoli presunzioni dell’Ufficio, capovolgendole sol che avesse dato conto dell’operazione di smaltimento che assumeva d’aver effettuato. Prova di certo in sè agevole per il necessario supporto documentale che l’operazione, se realmente eseguita nelle modalità previste, ineludibilmente esigeva e che sarebbe rimasta nella disponibilità dell’interessato.
Risulta poi parimenti infondata la censura che l’accertamento fosse basato sulla sola automatica applicazione dello studio di settore UMO5U. Ed infatti la sentenza impugnata ha enunciato, in esauriente sintesi, gli ulteriori profili che si aggiungevano, confermandoli, agli standard prefissati in astratto, ponendo in essere il necessario processo di adeguamento alla specifica situazione dell’impresa. Profili quali “la non congruità dei ricavi per ben sette anni, la non coerenza degli indici reiterati nel tempo, un ricarico del 18% sensibilmente inferiore al minimo del 29% indicati negli studi di settore, il margine operativo lordo per addetto non dipendente marcatamente inferiore al minimo dello studio..”
Insomma, il quadro che emerge dalla sentenza impugnata smentisce la violazione dell’obbligo di motivazione e del divieto di esclusiva applicazione degli studi di settore in assenza di altri elementi a sostegno dell’accertamento. Il ricorso è, pertanto, infondato. Alla soccombenza segue la condanna alle spese. Ricorrono l’presupposti per il versamento del c.d. doppio contributo.
PQM
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 oltre al pagamento delle spese prenotate a debito. Dà atto che sussistenza dei presupposti ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello fissato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021