Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.537 del 14/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3678/2013 R.G. proposto da:

G.C. & C. s.n.c. in persona del suo legale rappresentante pro tempore, G.L., G.C., G.P. tutti rappresentati e difesi giusta delega in atti dall’avv. Francesco Piromalli (PEC francesco.piromalli.brescia.pecavvocati.it) con domicilio eletto in Roma, presso lo studio dell’avv. Vincenzo Sparano (PEC vincenzo.sparano.postacertificata.gov.it) Corso Vittorio Emanuele II, n. 154;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sez. staccata di Brescia n. 128/63/12 depositata il 12/06/2012 non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 15/09/2020 dal Consigliere Dott. Succio Roberto.

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di seconde cure ha respinto l’appello dei contribuenti e quindi confermato la pronuncia della CTP di Brescia che aveva sancito la legittimità degli atti impugnati, avvisi di accertamento per IVA ed IRAP 2005 quanto alla società e per IRPEF 2005 quanto ai soci persone fisiche;

– con tali atti, in sintesi, l’Erario rideterminava il reddito d’impresa della società (e quindi di conseguenza l’IRPEF dei soci della stessa) a seguito di accertamento di maggiori ricavi derivanti da cessioni di immobili;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione la contribuente società e con essa i soci con atto affidato a cinque motivi; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria.

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 e per omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per il giudizio o fatto controverso prospettato dal ricorrente, violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 5 e per violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la CTR motivato la propria sentenza senza rendere alcuna argomentazione valida specie a fronte dell’eccezione dei contribuenti di difetto di motivazione dei provvedimenti impositivi relativa alla mancata allegazione agli atti impugnati di documenti riguardanti altre compravendite immobiliari poste in essere da società concorrenti poste a confronto con quelle oggetto del controllo;

– il motivo è infondato;

– Il motivo in questione, ha, in realtà, natura mista in quanto, come si è anticipato, reca plurime censure che involgono diversi profili;

– peraltro, dall’esame del corpo dello stesso si comprende come la censura si appunti sul mancato esame, con omessa insufficiente e/o contraddittoria motivazione sul punto, del profilo relativo al difetto di motivazione degli avvisi di accertamento in quanto la sola indicazione degli estremi di registrazione presso l’Agenzia delle Entrate dell’atto relativo ad altro immobile preso a comparazione, poichè avente caratteri similari a quelli compravenduti, non sarebbe sufficiente a consentire sotto questo profilo la difesa dal contribuente; inoltre tal profilo non sarebbe stato affrontato dalla CTR che sii questo punto non si sarebbe pronunciata;

– quanto all’omessa pronuncia, la doglianza è infondata; la CTR invero si è implicitamente pronunciata sul profilo relativo al vizio motivazionale denunciato, e lo ha dimostrato nel corpo della sentenza che ha correttamente compreso il thema decidendum e ha esaminato le questioni di merito poste dalla pretesa dell’Amministrazione Finanziaria e dalle eccezioni difensive del contribuente;

– questi infatti ha spiegato ampie ed articolate difese nel merito, sostenendo l’infondatezza della pretesa direttagli, con ciò consentendo alla CTR di disporre di ogni elemento atto a valutare la legittimità dell’atto impugnato anche sotto il profilo del vizio motivazionale;

– questa Corte, in argomento, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3388 del 06/02/2019), ha di recente chiarito come gli atti impositivi aventi ad oggetto beni immobili, adottati a seguito di comparazione con beni simili, debbono ritenersi adeguatamente motivati, ove contengano la riproduzione del contenuto essenziale dell’atto utilizzato come parametro di riferimento, e cioè delle parti utili a far comprendere il parametro impiegato per la rettifica, essendo anche in questo modo adempiuto l’obbligo di allegare all’avviso l’atto tenuto in considerazione ai fini della comparazione; in questo senso l’indicazione degli estremi di registrazione degli atti pubblici in parola consente al contribuente di ottenerne copia e conoscerne anche più approfonditamente il contenuto;

– e ancora (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 24417 del 05/10/2018) si è ritenuto che l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di allegare al relativo avviso gli atti indicati nello stesso deve essere inteso in relazione alla finalità “integrativa” delle ragioni che giustificano l’emanazione dell’atto impositivo ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, sicchè detto obbligo riguarda i soli atti che non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale nell’avviso stesso, con esclusione, peraltro, di quelli cui l’Ufficio abbia fatto comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva;

– dalla lettura della sentenza impugnata si evince come il rimando ad altri atti di compravendita non sia stato affatto determinante ai fini motivazionali, nè ai fini probatori, in quanto la motivazione della pretesa e la prova della sussistenza dei presupposti della stessa si è fondata su plurimi altri elementi (i valori OMI, gli importi dei mutui stipulati dagli acquirenti, la collocazione degli immobili vicini a zona di pregio, non ultimo i prelievi bancari in più compravendite operati dagli acquirenti in prossimità dell’operazione di acquisto); conseguentemente il rimando operato dall’Ufficio agli atti “altri” risulta del tutto marginale ai fini di sorreggere dal punto di vista motivazionale i provvedimenti impositivi e conseguentemente la censura difetta, in questo senso, anche di decisività;

– nel concreto, poi, i contribuenti hanno avuto piena conoscenza delle ragioni della pretesa di maggiori imposte e ne dà atto la sentenza impugnata (pag. 5 prima riga) di guisa che, in ogni caso, il vizio motivazionale risulta sanato dalla avvenuta e valorosa difesa nel merito svolta da costoro;

– il secondo motivo denuncia violazione di legge ed omessa motivazione circa un punto decisivo o fatto controverso, violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 5 anche in relazione all’art. 112 c.p.c. per avere il giudice dell’appello omesso di pronunciarsi in ordine alla inapplicabilità nella specie dei presupposti e del metodo accertativo utilizzato dall’Ufficio e per ulteriore violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 23-bis; sotto questo ultimo profilo la CTR avrebbe errato nel ritenere non inibito l’accertamento poichè il prezzo dichiarato era superiore alla valutazione automatica, non integrando le quotazioni OMI “atto o documento” idoneo ai fini della norma richiamata a consentire detto recupero;

– il motivo è infondato;

– va premesso che questa Corte ha già statuito (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 23379 del 19/09/2019) come in tema di IVA, in caso di cessione di beni immobili, ai fini della determinazione della base imponibile, il D.L. n. 41 del 1995, art. 15, conv. in L. n. 85 del 1995 (applicabile “ratione temporis”) deve essere interpretato nel senso che qualora il corrispettivo indicato nell’atto di compravendita sia inferiore al valore catastale, può essere emesso avviso di rettifica sulla base di elementi di natura documentale ovvero se lo scostamento tra corrispettivo dichiarato e valore di mercato integra una presunzione grave, precisa e concordante;

– ma è altrettanto vero che, come si evince dall’inciso contenuto nella stessa disposizione di legge – “salvo che da un atto o un documento risultasse un corrispettivo di valore superiore a quello dichiarato dal contribuente” – è fatta salva comunque la possibilità per l’Ufficio di controllare la veridicità del corrispettivo dichiarato, avvalendosi dei mezzi istruttori dei quali esso è ordinariamente munito;

– e invero, proprio nella pronuncia sopra citata questa Corte ha rilevato come ai sensi del quarto e del t.u.i.r., art. 52, comma 5, a decorrere dal 10 luglio 1986, il potere di rettifica dei valori dichiarati negli atti era impedito qualora gli stessi fossero risultati pari o superiori a quel minimum determinato dalla capitalizzazione delle rendite catastali

– che si otteneva moltiplicando per specifici coefficienti fissi di legge il valore catastale – con l’unico limite dato dall’eventuale individuazione, da parte dell’Ufficio, di corrispettivi non dichiarati. Per le cessioni di immobili soggette ad I.V.A., il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 15 aveva esteso (per i fabbricati classificati o classificabili nei gruppi A, B e C) il principio della non rettificabilità del corrispettivo dichiarato, ove determinato in base ai parametri automatici previsti per l’imposta di registro, salvo che da atto o documento il corrispettivo risultasse di maggiore ammontare. Il D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 2 (cd. decreto Visco-Bersani), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2006 (decreto in vigore dal 4 luglio 2006), ha inserito nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3 (ai fini dell’I.V.A.) una disposizione in base alla quale “per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova di cui al precedente periodo s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al comma 2 sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’art. 14 del presente decreto”. Lo stesso del citato D.L. n. 223 del 2006 art. 35, comma 3, ha inoltre inserito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) (ai fini delle imposte sui redditi) una disposizione analoga alla precedente ed in base alla quale “per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova (…) si intende integrata anche se l’infedeltà dei ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni determinato ai sensi del testo unico delle imposte sui redditi, art. 9, comma 3”. Dello stesso art. 35, comma 4 ha, inoltre, espressamente abrogato il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 15. Per D.L. n. 223 del 2006 ha, quindi, introdotto presunzioni legali relative che consentivano all’ente impositore di rettificare la dichiarazione del contribuente sulla base esclusivamente del solo scostamento tra il corrispettivo dichiarato per le cessioni di beni immobili ed il valore normale degli stessi, determinato (in forza della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 307 – legge finanziaria 2007 – e del provvedimento direttoriale del 27 luglio 2007, emesso in attuazione di tale legge e con il quale erano indicati i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati ai sensi del D. n. 633 del 1972, art. 14 e del testo unico delle imposte sui redditi, art. 9, comma 3) secondo i valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare (O.M.I.) presso l’Agenzia del Territorio e i coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell’immobile, integrati da altre informazioni in possesso degli uffici tributari. Quanto all’applicazione di tal disciplina nel tempo, la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, in vigore dal 10 gennaio 2008, ha stabilito che le presunzioni legali (basate sul valore normale) si applicano soltanto per gli atti formati decorrere dal 4 luglio 2006, mentre per gli atti formati anteriormente, valgono “agli effetti tributari, come presunzioni semplici”. Successivamente la Commissione Europea, nell’ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575, ha rilevato l’incompatibilità – in relazione all’I.V.A., ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette – delle disposizioni introdotte dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35 con l’art. 73 della Direttiva comunitaria 2006/112/CE, secondo cui la base imponibile I.V.A. “comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni”. In considerazione di tale parere, la L. n. 88 del 2009 (legge comunitaria del 2008) con l’art. 24, commi 4, lett. f), e comma 5, è nuovamente intervenuta sull’art. 39 citato, stabilendo all’art. 39, comma 1, lett. d): “per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica:(…) d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonchè dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32. L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”, nonchè sul D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3 prevedendo: “l’Ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui all’art. 51, comma 2, n. 2), 3) e 4), dagli elenchi allegati alle dichiarazioni nonchè da altri atti e documenti in suo possesso”;

– questa Corte ha, quindi, ripetutamente affermato che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione dell’art. 39 cit. ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo – stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea – ha eliminato la presunzione relativa di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi introdotta dall’art. 35 cit., così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”, l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass. n. 9474 del 2017; Cass. n. 26487 del 2016; n. 24054 del 2014; Cass. n. 11439 del 2018; n. 2155 del 25/1/2019);

– esclusa, pertanto, la retroattività delle nuove disposizioni del D.L. n. 223 del 2006 riguardanti l’accertamento della base imponibile (D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 23-ter) e l’ampliamento dei poteri di controllo degli uffici finanziari (D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 24) – non invocabili, pertanto, nella fattispecie in esame che concerne atti di compravendita stipulati nel 2005 – va quindi verificato se, nel caso di specie, in ragione dell’operatività della cd. valutazione automatica catastale, che precludeva il potere di rettifica del valore dichiarato, l’Ufficio abbia violato il disposto del citato art. 15, vigente all’epoca dei fatti. Lo stesso tenore letterale della disposizione di legge lascia ritenere che con il D.L. n. 41 del 1995, art. 15 non si è inteso derogare al disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13, secondo il quale la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali. Ciò comporta che, con riferimento agli atti stipulati in data antecedente al 4 luglio 2006, relativamente all’accertamento ai fini IVA, è precluso il potere di rettifica del corrispettivo delle cessioni di fabbricati, qualora questo risulti di ammontare non inferiore al valore dichiarato e determinato con il criterio di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4. Peraltro, l’inciso contenuto nella stessa disposizione di legge – “salvo che da un atto o un documento risultasse un corrispettivo di valore superiore a quello dichiarato dal contribuente” – porta a non escludere che gli Uffici abbiano comunque manutenuta la possibilità di controllare la veridicità del corrispettivo dichiarato, avvalendosi dei mezzi istruttori previsti in materia di imposte sui redditi, ma, in tali casi, le prove richieste per effettuare la rettifica ai fini IVA devono essere di natura documentale, e, quindi, non fondate su mere presunzioni estimative. La previsione di cui al D.L. n. 41 del 1995, art. 15 deve, quindi, essere interpretata nel senso che se il corrispettivo indicato nell’atto di compravendita è superiore al valore catastale, seppure inferiore al valore di mercato, è consentita una rettifica sia ai fini IVA sia ai fini dell’impostà reddituale connessa solo sulla base di atti e documenti che comprovino l’omessa fatturazione di una parte del prezzo; qualora, invece, il corrispettivo pattuito tra le parti ed indicato nell’atto di compravendita è inferiore al valore catastale, può essere emesso avviso di accertamento sulla base di elementi di natura documentale oppure, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, se lo scostamento tra corrispettivo dichiarato e valore di mercato configuri presunzione grave, precisa e concordante che consente di procedere ad accertamento;

– nel presente caso, l’accertamento presuntivo non poggia sulla mera divergenza tra valori normali e corrispettivi dichiarati negli atti di compravendita, ma si fonda, nel rispetto della espressa disposizione del D.L. n. 41 del 1995, art. 15, sulla difformità tra il prezzo dichiarato, pari o anche superiore al valore catastale, ed il maggiore importo del mutuo richiesto dagli acquirenti, oltre che sulla rilevanze degli accertamenti bancari relativi ai prelievi di somme da parte degli acquirenti in prossimità delle compravendite; tali elementi costituiscono prova di natura documentale che, evidenziando un corrispettivo maggiore, consentivano all’Ufficio di operare l’accertamento, fermo restando il valore di prova indiziaria di tali elementi, suscettibili di esser posti nel nulla dalla prova contraria dedotta e fornita dal contribuente;

– questa Corte, d’altro canto, è ferma nel ritenere che, ai fini dell’accertamento del maggior reddito d’impresa, lo scostamento tra l’importo dei mutui ed i minori prezzi indicati dal venditore è sufficiente a fondare la rettifica dei corrispettivi dichiarati, non comportando ciò alcuna violazione delle norme in materia di onere probatorio (Cass. n. 26485 del 21/12/2016; Cass. n. 7857 del. 20/4/2016; Cass. n. 14388 del 9/6/2017) e non potendosi escludere in materia di presunzioni semplici che l’accertamento trovi fondamento anche su un unico elemento presuntivo;

– il terzo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per omessa, illogica e/o contraddittoria motivazione ed erronea applicazione dei principi in materia di onere della prova con riguardo alla statuizione della CTR secondo cui l’Ufficio avrebbe fornito ulteriori elementi tali da costituire presunzioni gravi, precise e concordanti ai fini della prova della pretesa di maggior imposta;

– il motivo non ha fondamento;

– difatti esso prende le mosse da una considerazione corretta, confermata dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2155 del 25/01/2019) secondo la quale nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di beni immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5 (legge comunitaria 2008), che ha modificato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, conv. in L. n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purchè dotato dei requisiti di precisione e di gravità elemento che non può, tuttavia, essere costituito dai soli valori OMI, che devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di “presumptio de presumpto”;

– nondimeno però le conclusioni assunte dal ricorrente risultano errate; in primo luogo in quanto in materia di presunzioni semplici non è escluso che l’accertamento trovi fondamento anche su un unico elemento presuntivo, purchè adeguatamente significativo; benchè all’art. 2729 c.c., comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3 e art. 39, comma 4, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 si esprimano al plurale, è possibile che giudice fondi il proprio convincimento anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass., sent. n. 656/2014; Cass. n. 19987/2018; n. 23153/2018)

– ma soprattutto, nel presente caso sussistono i già richiamati ulteriori plurimi e sostanziosi indizi (difformità tra il prezzo dichiarato, pari o anche superiore al valore catastale, ed il maggiore importo del mutuo richiesto dagli acquirenti; risultanze degli accertamenti bancari relativi ai prelievi di somme da parte degli acquirenti in prossimità delle compravendite); atti nel loro complesso a costituire idoneo coacervo presuntivo di prova della pretesa tributaria, a fronte della quale non risulta esser…stata data prova contraria;

– ciò chiarito in diritto, anche il profilo del motivo che contiene censura motivazionale risulta privo di fondamento;

– nel concreto, la CTR ha adeguatamente e correttamente motivato in ordine alle ragioni che l’hanno condotta a decisione; le doglianze riferite poi al mancato adeguato esame delle prove addotte dal contribuente risultano in concreto dirette a sollecitare questa Corte al riesame del meritus causae, operazione qui non consentita;

– il quarto motivo svolge analoga censura riferita al governo dei principi in materia di onere della prova con riferimento alla statuizione della CTR relativa al valore meramente indiziario della CTP versata in atti dal contribuente, opera di consulente da questi incaricato;

– il motivo è infondato;

– va premesso che anche nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, vige il principio del libero convincimento del giudice (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2193 del 06/02/2015) sicchè anche la perizia di parte può costituire fonte di convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della decisione a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente;

– nondimeno però (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9357 del 08/05/2015) il giudice non può considerare detto contributo peritale di parte di per sè sufficiente a supportare o a smentire l’atto impositivo, dovendo verificare la sua idoneità a superare le contestazioni dell’interessato ed a fornire la prova dei più alti valori pretesi ed essendo, altresì, tenuto ad esplicitare le ragioni del proprio convincimento;

– nel caso che ci occupa, la CTR ha correttamente ritenuto avente valore indiziario la perizia de qua, ed altrettanto correttamente in motivazione, sia pur implicitamente, ha ritenuto la stessa non suscettibile di modificare a favore del contribuente le risultanze del complessivo materiale probatorio;

– il quinto motivo si incentra sulla violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 6 per avere la CTR confermato la debenza delle sanzioni in difetto di consapevolezza e volontarietà delle violazioni contestate, in presenza di errore sul fatto determinato da difetto di colpa dei contribuenti che avrebbero confidato nella relazione peritale quanto ai valori dei beni ceduti;

– il motivo è infondato;

– invero, la condotta tenuta dai contribuenti non risulta invero contraria a legge in quanto viziata da colpa, ma ben diversamente è risultata provata la intenzionale sottrazione a imposizione di ricavi; non si tratta unicamente di decidere di valutazioni di beni, ma della sussistenza o meno di occultamento di materia imponibile;

– detta condotta costituisce comportamento certamente intenzionale,. quindi munito dell’elemento soggettivo del dolo, non potendo certo sostenersi che l’incasso di ricavi non fatturati sia stato operato con violazione di regole di diligenza, prudenza, perizia, quindi contro volontà dell’agente;

– in ogni caso, poi, questa Corte è ferma nel ritenere (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 12901 del 15/05/2019) che in tema di sanzioni amministrative. per violazioni tributarie, ai fini dell’esclusione di responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, grava sul contribuente ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 la prova dell’assenza assoluta di colpa, con conseguente esclusione della rilevabilità d’ufficio, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza; detta prova non risulta in concreto esser stata fornita, secondo l’accertamento operato dal giudice del merito qui non suscettibile di ulteriore censura ed esame;

– conseguentemente, il ricorso va respinto;

– le spese seguono la soccombenza;

– sussistono i presupposti processuali per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato.

PQM

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 5.600 oltre a spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

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