LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23966/2019 proposto da:
J.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato LOREDANA LISO, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in BARI, VIA ABATE GIMMA 201;
– ricorrente –
contro
MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso il decreto n. 3407/2019 del TRIBUNALE di BARI depositato il 28/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/10/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
J.A. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ovvero, in subordine, dell’asilo costituzionale o della protezione umanitaria.
Sentito dalla Commissione, il ricorrente aveva riferito di essere cittadino ***** proveniente dalla provincia di *****; di essere stato attivista del partito di liberazione del movimento del ***** e di aver preso parte all’età di 19 anni a uno scontro tra ***** e ***** avvenuto dinanzi alla sua scuola, nel corso del quale erano morti molti ragazzi; i ribelli avevano dato fuoco al materiale didattico e ad alcune aule della scuola e la polizia aveva arrestato molti dei suoi amici. Riuscito a fuggire, veniva tuttavia ricercato dalla polizia anche a casa e, non trovandolo lì, aveva arrestato il padre, successivamente liberato. Precisava che il governo arrestava chiunque appartenesse ai due gruppi perchè avevano combattuto entrambi per la libertà e la democrazia del Paese.
Con Decreto n. 3407/2019, depositato in data 28.6.2019, il Tribunale di Bari rigettava il ricorso, ritenendo non sussistenti i presupposti della protezione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, atteso che non erano state neppure dedotte situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile. Anche la domanda di protezione sussidiaria non era stata accolta in quanto non erano state enunciate circostanze suscettibili di rientrare nel concetto di danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) e i fatti si erano verificati nel 2008, sicchè il timore rappresentato era inattuale. Con riferimento dell’art. 14 citato, lett. c), il Tribunale rilevava che dalle fonti internazionali aggiornate risultasse che il Paese di provenienza del ricorrente non vivesse una condizione di conflitto armato con violenza generalizzata. Infine, neppure la domanda di protezione umanitaria non poteva essere accolta in quanto nella fattispecie non risultava un’effettiva lesione di diritti fondamentali, nè era comprovata una specifica situazione denotante vulnerabilità del ricorrente. Quanto all’esperienza di prigionia in Libia il ricorrente non spiegava quale connessione vi fosse tra il suo transito in territorio libico e il contenuto della domanda di protezione internazionale.
Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione J.A. sulla base di due motivi. L’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta l'”Omesso esame di fatti decisivi/violazione D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b)”, giacchè i fatti narrati dal ricorrente, dalla fuga dal suo Paese per evitare una pena non proporzionata alla prigionia in Libia, dimostrano la sussistenza della minaccia di danno grave, in quanto tale minaccia può provenire anche da soggetti non statuali se lo Stato non possa o non voglia fornire protezione. Si lamenta la violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del Tribunale, che non disponeva l’audizione dell’istante, nonostante vi fosse la necessità di chiarire le dichiarazioni del medesimo.
1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce un “Vizio motivazionale: motivazione apparente/violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951; art. 10 Cost.; D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,7,14 e 17; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6”, in quanto il Giudice aveva il dovere istruttorio di verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica fosse effettivamente sussistente nel Paese in cui avrebbe dovuto essere rimpatriato; laddove il rigetto della domanda di protezione umanitaria non poteva essere frutto di automatismo conseguente al rigetto delle altre fonti di protezione.
2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i due motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.
2.1. – Essi sono inammissibili.
2.2. – In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. n. 8368 del 2020).
Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (nn. 26874/18 e 19443/11).
2.3. – Va rilevato che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa (come già detto), l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).
2.4. – Dal canto suo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non v’è specifica adeguata indicazione.
Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).
2.5. – Resta, in conclusione, da porre in evidenza come le censure, nel loro complesso, si risolvano nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).
Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 9275 del 2018); la qual cosa, nel caso di specie, è ampiamente dato riscontrare.
3. – Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto idonea attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi e per gli effetti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021