Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.746 del 19/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27997/15 R.G. proposto da:

F.F., Z.A., Z.F. e Z.G., rappresentati e difesi, come da mandato a margine del ricorso, dall’avv. Elido Guerrini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Chiara Pacifici, in Roma, via Vallisneri, n. 11;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente domiciliata;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Toscana n. 791/13/15 depositata in data 29 aprile 2015;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 ottobre 2020 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate notificava agli eredi di B.G.L., F.F., Z.A., Z.F. e Z.G., l’avviso di accertamento con il quale procedeva al recupero di maggiore IRPEF, per l’anno 2004, sul rilievo che non fossero deducibili, ai sensi del t.u.i.r., art. 10, comma 1, lett. a), i canoni di concessione versati in favore del Comune di ***** in relazione a fabbricati insistenti su aree di proprietà dello stesso Comune, perchè non costituenti oneri gravanti sui redditi degli immobili, ma oneri strettamente correlati alla superficie degli stessi.

2. Proposto ricorso dai contribuenti, la Commissione tributaria provinciale di Lucca lo accoglieva, motivando che il canone pagato al Comune di Viareggio costituiva onere reale scaturente da un provvedimento della Pubblica Amministrazione.

3. La sentenza di primo grado veniva impugnata dall’Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria regionale che accoglieva l’appello.

Osservava che il canone corrisposto per la concessione del diritto di superficie sul suolo comunale su cui insistevano immobili di proprietà privata non rientrava nell’ipotesi disciplinata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. a), perchè tale canone non corrispondeva a un onere reale gravante direttamente sul reddito dell’immobile, ma costituiva la controprestazione monetaria di un rapporto sinallagmatico derivante dall’utilizzo della superficie del terreno di proprietà del Comune di Viareggio per mantenere immobili di proprietà privata, ossia costituiva il prezzo corrisposto dal proprietario per ottenere il godimento del suolo pubblico; si trattava di un onere economico basato su un rapporto di natura personale derivante dall’atto di concessione e rapportato quindi alla superficie occupata e non alla rendita derivante dalla titolarità degli immobili.

Affermava, altresì, che gli oneri deducibili costituivano un’eccezione alla regola della imponibilità del reddito prodotto, sicchè le ipotesi regolate dal citato art. 10, erano tassative e non ammettevano estensioni in via analogica; le argomentazioni su cui poggiava la sentenza di primo grado non tenevano conto che al provvedimento autoritativo, adottato nell’esercizio di un potere pubblico e volto alla concessione dell’utilizzo di un bene o allo svolgimento di un servizio pubblico in luogo dell’Amministrazione concedente, si correlava sempre l’atto prettamente negoziale (un disciplinare, un capitolato da cui derivavano diritti e obblighi reciproci).

Riteneva irrilevante la circostanza che il canone fosse stato imposto ed inconferente il confronto con i contributi dovuti per i consorzi di bonifica.

4. Ricorrono per la cassazione della sentenza d’appello i contribuenti, affidandosi a tre motivi. L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, e degli artt. 952 e 953 c.c..

Precisano che la loro dante causa era contitolare di fabbricati insistenti su aree di proprietà del Comune di *****, tutti regolarmente dichiarati nel modello unico 2005 – redditi 2004 -, per i quali erano stati indicati i canoni di concessione comunale per complessivi Euro 11.505,00; tale ultimo importo era stato ripreso a tassazione perchè non ritenuto onere gravante sui redditi degli immobili, e come tale non deducibile.

Nel corso del giudizio di merito avevano fatto rilevare che si trattava di canone gravante su diritto reale di superficie, e non di una controprestazione monetaria di un rapporto sinallagmatico derivante dall’utilizzo della superficie di terreno di proprietà del Comune, sicchè esso rientrava nel concetto di “canone” di cui al t.u.i.r., art. 10, comma 1, lett. a), che si riferiva a livelli, censi e ad “altri oneri gravanti sul reddito dell’immobile”, tra i quali era compreso il canone di enfiteusi ed il canone del diritto di superficie.

Ad avviso dei ricorrenti, il canone di concessione doveva essere configurato come corrispettivo del diritto di superficie a termine, attribuito col contratto di concessione dal Comune, cioè del diritto di mantenere sul suolo comunale una costruzione di proprietà del concessionario (cd. proprietà superficiaria); tale canone, da corrispondere per il mantenimento dei diritti sull’immobile, era, pertanto, richiesto dal Comune e versato dal contribuente a fronte di un diritto di natura reale.

La natura non personale di tale diritto si desumeva, nel caso di specie, dall’esame delle varie norme che disciplinavano il rapporto concessorio intercorso con il Comune di *****, considerato che il Capitolato prevedeva: a) al momento della cessazione del rapporto concessorio (e quindi del diritto di superficie), il passaggio della proprietà dei manufatti al Comune dietro corresponsione di un indennizzo, ossia l’accessione automatica a favore del proprietario del fondo; b) la facoltà per il concessionario di costituire ipoteche sull’immobile; c) in caso di cessazione della concessione, l’accessione automatica dell’immobile e non anche l’obbligo di demolizione in capo al concessionario; d) in caso di trasferimento dell’immobile, il rilascio di una nuova concessione in favore del terzo acquirente, con conseguente subentro di quest’ultimo a tutti gli effetti nella concessione del dante causa fino alla scadenza della stessa.

2. Con il secondo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61, e art. 118 c.p.c., perchè la C.T.R., dopo avere sommariamente riportato i fatti di causa, non ha esaminato la questione di diritto prospettata.

3. Con il terzo motivo censurano la decisione impugnata per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti, lamentando che i giudici di appello hanno omesso di valutare le deduzioni difensive esposte nell’atto di costituzione in giudizio.

4. Il secondo motivo, che deve essere esaminato con priorità poichè concerne un error in procedendo, è infondato.

4.1. Il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; infatti, il giudice ha l’obbligo “di specificare le ragioni del suo convincimento” e l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità, dovendo considerarsi come non esistenti le decisioni di carattere giurisdizionale prive di motivazione (in termini, Cass., sez. 5, 3/02/2017, n. 2876; v. anche Cass., Sez. U., 5/08/2016, n. 16599; Cass., Sez. U, 3/11/2016, n. 22232; Cass., sez. U, 24/03/2017, n. 7667, nonchè la giurisprudenza ivi richiamata).

4.2. La sanzione di nullità colpisce dunque non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., Sez. U., 7/04/2014, n. 8053), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. sez. 3, 25/02/2014, n. 4448), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass., Sez. U., 3/11/2016, n. 22232 e la giurisprudenza ivi richiamata).

4.3. La motivazione, dunque, è solo apparente – e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo – quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U, 3/11/2016, n. 22232; conf. Cass., Sez. 6-5, 15/06/2017, n. 14927).

4.4. Nel caso in esame, la Corte territoriale, nell’accogliere l’appello dell’Amministrazione finanziaria, ha concisamente esposto le ragioni dell’inapplicabilità del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. a), sottolineando che il canone corrisposto non grava direttamente sul reddito dell’immobile, ma costituisce piuttosto controprestazione monetaria di un rapporto di natura personale, derivante dall’atto concessorio, in forza del quale i ricorrenti utilizzano il terreno di proprietà del Comune di ***** per mantenervi immobili di loro proprietà, rendendo in tal modo una motivazione che non può considerarsi apparente nei termini sopra illustrati, in quanto esplicita, sia pure con molte lacune, le ragioni del decisum.

5. Il primo ed il terzo motivo, strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono fondati nei limiti che di seguito si espongono.

5.1. I giudici regionali, tralasciando di esaminare in concreto la fattispecie in esame e operando un’analisi astratta di essa, hanno affermato, con tono apodittico, che “Il canone corrisposto per la concessione del diritto di superficie sul suolo comunale su cui insistono immobili di proprietà privata non rientra in alcun modo nell’ipotesi delineata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. a), perchè tale canone non corrisponde per la sua funzione giuridica a un onere reale gravante direttamente sul reddito dell’immobile (come accade per esempio in occasione dei canoni o livelli corrisposti dall’enfiteuta al concedente), ma è la controprestazione monetaria di un rapporto sinallagmatico derivante dall’utilizzo della superficie del terreno di proprietà del Comune di ***** per mantenere immobili di proprietà privata, ossia costituisce il prezzo corrisposto dal proprietario per ottenere il godimento del suolo pubblico da cui gli immobili di proprietà privata traggono un beneficio non potendo diversamente gli stessi insistere sull’area comunale senza un titolo che li legittimi. Si tratta di un onere economico basato su un rapporto di natura personale derivante dall’atto di concessione e rapportato quindi alla superficie occupata e non alla rendita derivante dalla titolarità degli immobili che la determinano; pertanto, tale onere non è imputabile al reddito che producono in base alla legge gli immobili, ma al titolare degli immobili perchè espressione della sua capacità contributiva. Come correttamente sostiene l’Ufficio appellante, gli oneri deducibili costituiscono un’eccezione alla regola della imponibilità del reddito prodotti; ne consegue che le ipotesi regolate dal citato art. 10, sono tassative e non ammettono alcuna estensione in via analogica…”.

5.2. Le argomentazioni poste a supporto della decisione difettano di una puntuale verifica degli elementi sintomatici del diritto nascente dal rapporto concessorio, indispensabile ai fini della individuazione della natura del canone corrisposto dai contribuenti al Comune di Viareggio, e, dunque, ai fini dell’applicabilità o meno alla fattispecie in esame del D.P.R. n. 917 del 198, art. 10, comma 1, lett. a).

5.3. Questa Corte, considerato che la natura demaniale di un bene non è di ostacolo nè alla costituzione in favore di privati, mediante concessione, di diritti reali o personali che abbiano ad oggetto la fruizione del bene medesimo, nè alla circolazione tra privati di tali diritti, ritiene che la realizzazione di un manufatto da parte del concessionario di un’area demaniale, al quale il provvedimento amministrativo attribuisca un diritto di edificare e di mantenere manufatti sull’area oggetto di concessione, fa sorgere in capo al concessionario stesso una vera e propria proprietà superficiaria, sia pure di natura temporanea, soggetta ad una particolare regolazione in ordine al momento della sua cessazione o estinzione.

Con la sentenza n. 22757 del 3 dicembre 2004, che ha poi trovato conferma nei principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 3692 del 2009 – posto che la previsione normativa contenuta nell’art. 952 c.c., che qualifica la superficie “il diritto reale di fare o mantenere al di sopra del suolo una costruzione che spetta in proprietà al superficiario (concessionario) ovvero il diritto di proprietà su una costruzione già esistente distinto dalla proprietà del suolo”, costruisce tale diritto quale mezzo per attribuire la proprietà del manufatto separandola dalla proprietà del suolo, in deroga al principio dell’accessione previsto nell’art. 934 c.c. – questa Corte ha affermato (in fattispecie in cui la contribuente sosteneva di non essere tenuta al pagamento dell’I.C.I. perchè non era nè proprietaria, nè titolare di alcun diritto reale sull’immobile) che l’assegnazione di un’area per la costruzione costituisce provvedimento qualificabile in termini di concessione ad aedificandum e che la parte che sostenga che tale concessione attribuisce al concessionario un diritto di natura non reale, diverso, quindi, da quello di superficie, ma avente carattere personale, che possa essere fatto valere nei confronti del solo concedente, ed avente la sua fonte in un contratto atipico (ammesso ex art. 1322 c.c.), invocando questa configurazione giuridica, è tenuta a dedurre chiari indici rivelatori (Cass., sez. 1, 29/01/1998, n. 4402; Cass., sez. 2, 29/05/2001, n. 7300), tra i quali assume rilievo decisivo la destinazione dell’opera costruita dal concessionario al momento della cessazione del rapporto (Cass., sez. 5, 20/11/2009, n. 24498).

Pertanto, al fine di stabilire se una concessione amministrativa ad aedificandum sia costitutiva di un diritto reale di superficie, ovvero di un diritto avente natura meramente obbligatoria, assume particolare rilievo la destinazione che la concessione attribuisca all’opera costruita al momento della cessazione del rapporto concessorio, perchè se essa torna nella disponibilità del concedente, si è in presenza di un rapporto obbligatorio, mentre se essa passa in proprietà del concessionario, il diritto in virtù del quale questi l’ha realizzata ha sicuramente la natura reale del diritto di superficie (Cass., sez. 5, 30/06/2010, n. 15479; Cass., sez. 5, 20/11/2009, n. 24498; Cass., sez. 5, 27/07/2016, n. 15636).

Parimenti rilevante è la previsione della facoltà, per il concessionario, di costituire ipoteca sulle opere costruite sul bene demaniale oggetto di concessione, dal momento che, di norma, salva l’ipotesi di cui all’art. 2822 c.c., comma 1, l’ipoteca volontaria può essere concessa soltanto dal proprietario del bene che ne forma l’oggetto, per cui la previsione di tale facoltà comprova che in favore del concessionario è stato costituito uno ius aedificandi e che la costruzione delle opere ha determinato l’acquisto della proprietà delle stesse in capo al concessionario (Cass., sez. 1, 29/01/1998, n. 4402).

5.4. La Commissione regionale non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, incorrendo in tal modo nel vizio di violazione di legge denunciato, avendo tralasciato di accertare, previo esame critico della documentazione prodotta, quale fosse la destinazione attribuita dal Capitolato del Comune di Viareggio all’opera costruita dal concessionario sul suolo demaniale al momento della cessazione del rapporto, pur trattandosi di fatto che segna il tratto distintivo fra il diritto personale di godimento ed il diritto di superficie.

Ha, in particolare, omesso di prendere in considerazione tutti gli indici rivelatori invocati dai contribuenti a supporto della diversa configurazione giuridica della fattispecie, e richiamati anche in questa sede, previsti dal Capitolato – indispensabili per stabilire se la concessione amministrativa attribuiva al concessionario un diritto di natura reale (sia pure di natura temporanea) o, piuttosto, un diritto di natura non reale, diverso perciò da quello di superficie, avente carattere personale – e dai quali inferire la natura del canone, e precisamente che: a) il corrispettivo è determinato ad anno e non a mese; b) il concessionario ha facoltà di costituire ipoteche sugli immobili insistenti sull’area comunale; c) in caso di cessazione della concessione, l’immobile viene acquisito, dietro pagamento di un indennizzo, dal Comune; d) in caso di trasferimento dell’immobile, viene rilasciata una nuova concessione in capo al terzo acquirente, che subentra nella posizione del dante causa.

Alla stregua delle considerazioni svolte, la sentenza va, dunque, cassata con rinvio alla competente Commissione tributaria perchè, uniformandosi ai superiori principi, proceda al riesame della fattispecie.

6. In conclusione, rigettato il secondo motivo del ricorso, vanno accolti gli altri motivi nei limiti di cui in motivazione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione.

P.Q.M.

rigetta il secondo motivo di ricorso; accoglie i restanti motivi nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il nella Camera di consiglio, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021

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