LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –
Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11270/16 R.G. proposto da:
FLAMINIA 90 S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Massimo Marini, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Ximenes, n. 10;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente domiciliata;
– resistente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 5776/28/15 depositata in data 4 novembre 2015;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 ottobre 2020 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.
RILEVATO
che:
1. La società Flaminia 90 s.r.l. in liquidazione proponeva appello avverso la sentenza con la quale la Commissione tributaria provinciale di Roma aveva respinto il ricorso dalla stessa proposto avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione, ai fini IRES e IRAP, maggior reddito imponibile conseguito nell’anno d’imposta 2006, nonchè, ai fini I.V.A., costi non detraibili.
2. In particolare l’Amministrazione finanziaria aveva effettuato i seguenti rilievi: a) con riguardo alla alienazione di un immobile di proprietà della società, aveva ritenuto indeducibili costi pluriennali dell’importo di Euro 863.841,20 dovuti a spese incrementative non documentate; b) recuperato nella base imponibile IRES – a titolo di plusvalenza – l’importo di Euro 5.979.892,00, indicato come costi pluriennali per “lavori incrementali”, privi di documentazione giustificativa; c) recuperato nella base imponibile IRAP l’importo di Euro 16.863.841,00 a titolo di plusvalenza non dichiarata; d) aveva disconosciuto la cessione pro soluto di un credito di Euro 9.110.772,61, effettuata per Euro 100.000,00, sul presupposto che si trattasse di operazione non supportata da valida giustificazione economica e, quindi, con finalità elusiva; e) aveva escluso la deducibilità di ulteriori costi.
3. La Commissione regionale del Lazio, con la sentenza in questa sede impugnata, rigettava il gravame, dichiarando legittimo l’atto impugnato.
Osservava, in relazione ai rilievi concernenti l’alienazione dell’immobile, che era infondata la eccezione di intempestività del recupero a tassazione, atteso che l’ufficio finanziario, in conformità al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, aveva notificato l’accertamento in data 3 novembre 2011, procedendo al recupero dei costi indebitamente portati in detrazione, nei termini riferibili al periodo d’imposta 2006, nel quale si era realizzato il fatto generatore del presupposto d’imposta (plusvalenza a seguito di vendita dell’immobile), con la conseguenza che non era pertinente il riferimento della contribuente alle date in cui erano stati sostenuti detti costi. Riteneva, pertanto, corretto sia il disconoscimento dei costi per un valore di Euro 8.428.305,40, superiore a quello risultante dal libro cespiti, voce “fabbricati” (pari ad Euro 7.564.464,20), quanto il recupero a tassazione della differenza (Euro 863.841,20).
Considerava, altresì, corretta la quantificazione della plusvalenza, ai fini IRES, in difetto di prova documentale della spesa per “lavori incrementali”, nonchè la plusvalenza determinata ai fini Irap, alla stregua del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 3, sommando al valore della plusvalenza indicato nel conto economico del bilancio al 31 dicembre 2006 (Euro 10.020.108,00) gli importi di Euro 863.841,20 e di Euro 5.979.892,00 ripresi a tassazione, escludendo, sotto tale profilo, la presunta carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.
Con riguardo al rilievo attinente alla cessione di credito, rilevava che nell’anno 2006 la contribuente aveva ceduto pro soluto all’avv. Massimo Marini, per il prezzo di Euro 100.000,00, un credito dell’importo nominale di Euro 9.110.772,61, vantato nei confronti della società ORI s.r.l., ed aveva portato in detrazione la differenza, iscrivendola nel conto “oneri diversi di gestione” del bilancio; l’Ufficio aveva dimostrato che l’operazione era priva di valida ragione economica, atteso che l’importo ottenuto dalla cessione, di cui peraltro non era stata offerta prova, pari a circa I’l per cento del credito, aveva consentito alla società di abbattere l’imponibile in misura pari alla perdita, conseguendo un risparmio fiscale. Confermava, infine, la indeducibilità dei costi disconosciuti dall’Amministrazione finanziaria.
4. La società contribuente ricorre per la cassazione della suddetta decisione, con sei motivi. L’Agenzia delle entrate ha depositato atto di costituzione al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per avere i giudici regionali ritenuto infondata l’eccezione di intempestività dei primi tre rilievi mossi con l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione.
Sostiene che non è condivisibile l’interpretazione offerta dalla C.T.R., in quanto doveva tenersi presente che le operazioni sottese alle evidenze contabili riprese a tassazione, essendo poste pluriennali, si erano svolte in un periodo antecedente (in particolare negli anni 2000 e 2001) ed erano state riportate negli esercizi successivi fino al 2006 oggetto di rettifica.
1.1. Il primo motivo è infondato.
1.2. Ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in materia di imposte sui redditi, ed ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, in materia di imposta sul valore aggiunto, gli avvisi di accertamento fino all’annualità d’imposta 2015 devono essere notificati a pena di decadenza entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e, nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Per quanto attiene ai termini di accertamento in materia di Irap, il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, stabilisce che per le attività di controllo, di accertamento e di riscossione e contenzioso in materia di Irap, “si applicano le disposizioni in materia di imposte sui redditi ad eccezione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi dal 4 al 7, artt. 44 e 45”.
1.3. L’Amministrazione finanziaria ha proceduto, previo disconoscimento della deducibilità di costi pluriennali, alla rideterminazione della plusvalenza derivante dalla cessione a titolo oneroso dell’immobile di proprietà della società (sito in Roma, via Vitorchiano), per cui, ai fini della tempestività del recupero a tassazione di tali costi, dovuti a spese incrementative del valore dell’immobile, si deve avere riguardo al momento in cui si è generato il presupposto impositivo, ossia alla vendita dell’immobile, pacificamente avvenuta in data 30 novembre 2006.
Al riguardo deve considerarsi che la plusvalenza, ai sensi dell’art. 68 del t.u.i.r., è data dalla differenza tra il corrispettivo percepito nel periodo di imposta ed il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo, che deve essere analiticamente documentato.
E’ ben vero che il prezzo di acquisto o il costo di costruzione deve essere incrementato dei “costi inerenti al bene”, sicchè sono a tal fine rilevanti le cd. “spese incrementative”, ossia quelle che determinano un aumento della consistenza economica del bene o che incidono sul suo valore (Cass., sez. 5, 23/08/2011, n. 17595). Va, tuttavia, rilevato che ai fini del rispetto dei termini per l’esercizio del potere accertativo da parte dell’Amministrazione finanziaria non si può far riferimento al momento in cui detti costi incrementativi sono stati contabilizzati (nel caso di specie, come evidenziato dalla contribuente a pag. 12 del ricorso, negli anni 2000 e 2001), ma piuttosto al momento in cui è avvenuta la vendita dell’immobile, che costituisce il presupposto dal quale scaturisce la plusvalenza.
Correttamente, pertanto, la Commissione regionale ha ritenuto che l’ufficio finanziario, osservando la previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, abbia tempestivamente proceduto, in data 3 novembre 2011, al recupero a tassazione dei costi ritenuti indebitamente portati in detrazione, avendo riguardo all’anno 2006 e non alle date in cui i singoli costi sono stati sostenuti dalla contribuente.
2. Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, assumendo che la decisione impugnata sarebbe contraria ai principi generali affermati nello Statuto del contribuente, il cui art. 10 stabilisce che “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”.
La Commissione regionale, secondo la prospettazione di parte ricorrente, affermando la legittimità della ripresa a tassazione concernente l’indeducibilità dei costi pluriennali ai fini della plusvalenza, ha disatteso l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi e, quindi, i principi di affidamento e collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente.
2.1. Il secondo motivo va dichiarato inammissibile.
2.2. La Commissione regionale, nel confermare il disconoscimento dei costi e la quantificazione della plusvalenza, in ragione dell’assenza di prova documentale della spesa per “lavori incrementali”, ha posto in rilievo che l’Amministrazione ha indicato nell’atto impositivo le ragioni per le quali ha proceduto al recupero a tassazione, accertando, pertanto, che l’atto impugnato sfugge alla censura di difetto di motivazione sollevata dalla parte contribuente.
Quest’ultima, intendendo lamentarsi in questa sede dell’erronea valutazione espressa dal giudice di merito, aveva l’onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di produrre l’avviso di accertamento – che è atto amministrativo e non processuale (Cass., sez. 3/12/2001, n. 15234; Cass., sez. 5, 6/11/2019, n. 28570) – o comunque di indicarne il contenuto, trascrivendolo nel ricorso, al fine di consentire a questa Corte di valutare l’eventuale fondatezza della doglianza.
La ricorrente non ha riportato la motivazione dell’atto di accertamento e, pertanto, il mezzo in esame è inammissibile per difetto di autosufficienza (Cass., sez. 5, 13/02/2015, n. 2928; Cass., sez. 5, 13/11/2018, n. 29093).
3. Con il terzo motivo, la contribuente censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 3, lamentando, con riferimento al rilievo attinente alla cessione di credito, che la Commissione regionale ha esposto una ricostruzione parziale dei fatti e ha trascurato di considerare la legittimità dell’imputazione, da parte della società, al conto “oneri diversi di gestione”, della differenza tra il valore nominale del credito ceduto ed il suo prezzo di cessione.
4. Con il quarto motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, rappresentando che l’operazione di cessione del credito presentava una valida ragione economica, posto che il socio di minoranza, per ragioni morali, si era prestato ad acquistare ad un prezzo significativo un credito palesemente prescritto, vantato nei confronti di una società che non possedeva beni e che era stata “abbandonata” dal socio di maggioranza, Lucio Sparvieri.
Ad avviso della ricorrente, la mancata riscossione del credito per circa venti anni costituiva fatto accertato e mai contestato, per cui l’Amministrazione non aveva assolto l’onere probatorio sulla stessa incombente di fornire prova del carattere elusivo della operazione.
5. Il terzo ed il quarto motivo, strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, si considerano aventi carattere abusivo e possono essere disconosciute dall’Amministrazione finanziaria quelle operazioni che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario, siano poste in essere al principale scopo di ottenere benefici fiscali contrastanti con la ratio delle norme che introducono il tributo o prevedono esenzioni o agevolazioni, con la conseguenza che il carattere abusivo è escluso soltanto dalla presenza di valide ragioni extra fiscali (Cass., sez. 5, 21/01/2011, n. 1372).
Si è, infatti, ritenuta formata una clausola generale antielusiva, di matrice comunitaria per quanto attiene ai cd. tributi armonizzati, a partire dalla sentenza in causa C-255, Halifax, e, per le imposte dirette, di matrice costituzionale, traendo origine dall’art. 53 Cost., con conseguente obbligo di applicazione d’ufficio anche nel giudizio di legittimità.
Le Sezioni Unite di questa Corte, proprio con riguardo alle imposte dirette, hanno affermato che “non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale” (Cass. Sez. U, 23/12/2008, n. 30057; in tema di cessione di quote e fusione per incorporazione, Cass., sez. 5, 30/11/2012, n. 21390; Cass., sez. 5, 15/01/2014, n. 653).
Si è, altresì, precisato che “il divieto di abuso del diritto, il cui fondamento si rinviene nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, non contrasta con il canone della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali da essa non derivanti, bensì nel disconoscimento degli effetti di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali, e comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretende di far discendere dall’operazione elusiva (Cass., sez. 5, 19/02/2014, n. 3938).
5.2. In punto di onere della prova, questa Corte ha affermato che “costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale” (Cass., sez. 5, 26/02/2014, n. 4603).
Spetta, pertanto, all’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare perchè la forma giuridica impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa (Cass., sez. 5, 30/11/2012, n. 21390; Cass., sez. 5, 20/05/2016, n. 10458), mentre ricade sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.
Tale regime, che nell’ordinamento comunitario è imposto dal principio di proporzionalità (Corte Giust. 17 luglio 1997 in causa 28/95, A Leur Bloem), nel sistema nazionale costituisce diretta applicazione dei principi di libertà d’impresa e di iniziativa economica (art. 42 Cost.), oltre che del principio di piena tutela giurisdizionale del contribuente (art. 24 Cost.).
In sostanza, “il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass. Sez. U, 23/12/2008, n. 30055; Cass., sez. U, 23/12/2008, n. 30057; Corte Giust. UE, nei casi 3M Italia, Halifax, Part. Service), presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Cass., sez. 5, 30/11/2012, n. 21390) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass., sez. 5, 26/02/2014, n. 4604)” (Cass., sez. 5, 16/03/2016, n. 5155, in motivazione).
5.3. Anche il legislatore nazionale (L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 5), nel delegare al Governo l’attuazione della disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale ha indicato tra i principi e i criteri direttivi quelli di: “definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta” (Cass. Sez. U, n. 30055 del 2008 e 30057 del 2008, cit.; Corte Giustizia UE, 3M Italia); “garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale” (CGUE Part. Service); “considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva” (rectius “scopo essenziale”, Corte Giust. UE, Halifax e Part. Service).
Il carattere abusivo va, quindi, escluso quando sia individuabile una compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali (Cass., sez. 5, 4/04/2008, n. 8772; Cass., sez. 5, 21/04/2008, n. 10257), che non necessariamente si identificano in una redditività immediata dell’operazione (Cass., sez. 5, 30/11/2012, n. 21390), potendo consistere in esigenze di natura organizzativa e che determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente (Cass., sez. 5, 21/01/2011, n. 1372; Cass., sez. 5, 26/02/2014, n. 4604), per cui, in tema di prova, l’attenzione deve essere incentrata sulle modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonchè sulla loro mancata conformità a una normale logica di mercato (Cass., sez. 5, 21/01/2009, n. 1465; Cass., sez. 5, 24/07/2013, n. 17955).
5.4. All’attuazione di tali principi risponde anche l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente – che, pur non applicandosi ratione temporis nel caso di specie (D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5), rileva in chiave interpretativa nel definire una linea evolutiva già indiscutibilmente tracciata nell’ordinamento tributario dalla giurisprudenza e dalle fonti nazionali e comunitarie – laddove stabilisce che ” configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” (comma 1) e che “si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali (…) b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”, precisando che “sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato” (comma 2) e ribadendo che, ferma restando la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale (comma 4), non possono considerarsi abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo, che “rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3) (Cass., sez. 5, 16/03/2016, n. 5155; Cass., sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Cass., sez. 5, 5/12/2019, n. 31772, in motivazione; conf. Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 438 e n. 439, cit., in motivazione).
5.5. In tale contesto, questa Corte ha quindi chiarito che, in materia tributaria, la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in un uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale (Cass., sez. 5, 26/08/2015, n. 17175).
Si è, pertanto, escluso che la astratta configurabilità di un vantaggio fiscale possa essere sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poichè è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale (Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25758).
5.6. Posto ciò, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata e dal ricorso, la società contribuente ha ceduto pro soluto all’avv. Massimo Marini, a fronte del prezzo di Euro 100.000,00, un credito dell’importo nominale di Euro 9.110.772,61, da essa vantato nei confronti della società Ori s.r.l., portando in detrazione la differenza che è stata iscritta nel conto economico alla voce “oneri diversi di gestione”.
5.7. La Commissione regionale, valutate le produzioni documentali offerte, ha ritenuto l’operazione priva di valida ragione economica, sottolineando che: a) le società Flaminia ‘90 s.r.l. e la società Ori s.r.l. erano strettamente collegate, dato che D.N.L. era stato socio, e poi amministratore e liquidatore della prima, e legale rappresentante della seconda, mentre soci della Ori s.r.l. erano la Camer s.r.l. in liquidazione (di cui il D.N. era stato liquidatore), che deteneva il 51 per cento del capitale, e l’avv. Marini (socio al 49 per cento); b) nel corso degli anni erano stati effettuati solo due tentativi volti al recupero del credito, ossia una richiesta di pagamento in data 15 giugno 2005 ed un sollecito di pagamento con contestuale costituzione in mora del 18 gennaio 2006, riscontrati da una nota dell’avv. Marini datata 10 aprile 2006, con la quale comunicava l’esito negativo del suo intervento presso la debitrice Ori s.r.l. e la disponibilità ad acquistare il credito per un importo simbolico.
Ha, inoltre, rilevato, al di là dei frequenti contatti tra le due società e della incapacità di desumere dai tentativi di riscossione del credito l’inesigibilità del credito e l’insolvenza della debitrice, il difetto di prova scritta del versamento del prezzo di cessione, tanto che l’Ufficio ha pure contestato alla società Flaminia ‘90 s.r.l. la omessa dichiarazione del ricavo asseritamente conseguito dal prezzo di cessione del credito.
Dagli elementi indiziari sopra evidenziati, i giudici di appello hanno fatto discendere la natura elusiva dell’operazione, considerato che l’importo conseguito dalla cessione del credito, corrispondente a poco più dell’1 per cento del credito nominale, aveva consentito alla contribuente di abbattere l’imponibile in misura pari alla perdita di bilancio e di conseguire un risparmio fiscale, potendo la perdita di bilancio essere contrapposta alla plusvalenza derivante dalla vendita dell’immobile sito in via *****.
Le argomentazioni poste dai giudici di appello a fondamento del loro convincimento lasciano ritenere, diversamente da quanto prospettato da parte ricorrente, sussistente sia l’aggiramento di obblighi e divieti posti dall’ordinamento tributario, sia il perseguimento di un vantaggio fiscale, oltre che l’assenza di valide ragioni economiche a giustificazione dell’operazione, neppure allegate dalla contribuente.
La sentenza impugnata si pone, dunque, in linea con la giurisprudenza di questa Corte e si sottrae alle censure ad essa rivolte con i mezzi in esame, che, sotto le spoglie del vizio di violazione di legge, sono in realtà finalizzati ad ottenere un riesame del merito della controversia, precluso in sede di legittimità.
6. Con il quinto motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del t.u.i.r., censura la decisione impugnata nella parte in cui la C.T.R. ha affermato l’indetraibilità del costo portato dalla fattura n. ***** della CMC Service s.r.l., dell’importo di Euro 99.152,00, e dalle fatture emesse dallo Studio Cesarini per consulenza fiscale.
Sostiene, relativamente alla prima, che la fattura, ritenuta generica dai giudici di appello, riguarda costi sostenuti per la prestazione di elaborazione di dati contabili, si riferisce al periodo intercorrente tra il 2003 ed il 2006 ed è stata emessa nel dicembre 2006 quando, ultimata la prestazione, è stato possibile determinare l’esatto ammontare di essa; le altre fatture, oggetto di un contratto risolto in data 24 ottobre 2006, si riferiscono rispettivamente, una, al periodo intercorrente tra il 1999 ed il 2002 e, l’altra, al periodo che va dal 2003 al 2006.
La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, è stata assunta in violazione dell’art. 109 t.u.i.r., comma 1, che dispone che le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni, e dello stesso art. 109, comma 2, che fissa il momento in cui si considerano conseguiti i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi e quello in cui si considerano sostenute le spese per l’acquisizione di beni e servizi.
6.1. La censura attinente alla prima fattura non può essere accolta.
6.2. La Commissione regionale ha accertato che il costo portato dalla fattura n. ***** riguarda in realtà prestazioni rese dalla CMC Service s.r.l. non soltanto nei confronti della Flaminia ‘90 s.r.l., ma anche nei confronti di altre trenta società dal 2003 al 2006, e che la causale sulla stessa apposta (“nostre competenze per il servizio di elaborazione dati prestato per vostro conto, come da contratto del 28 dicembre 1998 negli anni 2003, 2004, 2005 e 2006”), per la sua estrema genericità, non consente di scorporare il costo riferibile alla odierna ricorrente ed al periodo di imposta oggetto di verifica ed ha, di conseguenza, confermato il disconoscimento della detraibilità di detto costo per difetto dei requisiti dell’imputazione e dell’inerenza.
6.3. L’apprezzamento svolto dai giudici di appello, che hanno ritenuto non offerta la prova della inerenza e della imputazione del costo, non può ritenersi scalfito dalle generiche deduzioni svolte dalla contribuente con il mezzo in esame e risulta conforme all’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte.
Infatti, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, ora medesimo D.P.R., art. 109, comma 5, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili) ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo.
Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente (Cass., sez. 5, 21/11/2019, n. 30366; Cass., sez. 5, 17/07/2018, n. 18904; Cass., sez. 5, 11/01/2018, n. 450).
Nel caso in esame tale onere non è stato assolto.
6.4. Fondata risulta, invece, la doglianza fatta valere con riguardo alle altre due fatture emesse dallo Studio Cesarini, in ordine alle quali la C.T.R., aderendo alla tesi dell’Agenzia delle entrate, ammette la detrazione limitatamente all’anno 2006 e conferma il recupero a tassazione per gli altri periodi.
Dalla decisione impugnata si evince che le fatture in esame si riferiscono ad un contratto di consulenza in forza del quale lo Studio Cesarini ha svolto, in favore della contribuente, prestazioni di servizi negli anni compresi tra il 1999 ed il 2006, sino alla risoluzione intervenuta nel 2006.
Trattandosi di un rapporto unitario che si è svolto nel corso di più anni, in tema di imposte sui redditi, i costi relativi alle prestazioni di servizio sono, a norma del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 2, lett. b), di competenza dell’esercizio in cui le prestazioni medesime sono ultimate, senza che abbia rilevo alcuno il momento in cui viene emessa la relativa fattura o effettuato il pagamento (Cass., sez. 5, 23/12/2014, n. 27296).
Ne consegue, che, nel caso in esame, sebbene le fatture oggetto di contestazione si riferiscano rispettivamente, la prima, al periodo compreso tra il 1999 ed il 2002 e, la seconda, al periodo che va dal 2003 al 2006, ai fini della detraibilità dei costi deve aversi riguardo al momento in cui il contratto si è concluso (2006) e l’incarico è cessato, e non a quello in cui sono state emesse le singole fatture o a quello in cui è stato effettuato il pagamento delle singole prestazioni.
La sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei superiori principi e, pertanto, deve, sul punto, essere cassata.
7. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, per avere i giudici regionali ritenuto legittima la contestazione mossa dall’Ufficio finanziario con riguardo ai costi straordinari, contabilizzati in complessivi Euro 1.425.611,00, sebbene mancasse la motivazione della contestazione.
La censura è inammissibile per le ragioni già esposte al p. 2.1.), in difetto di trascrizione in ricorso del contenuto dell’avviso di accertamento.
8. In conclusione, vanno respinti il primo, il terzo e il quarto motivo, vanno dichiarati inammissibili il secondo ed il sesto motivo e va accolto, nei limiti di cui in motivazione, il quinto motivo; la sentenza deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla competente Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, per il riesame, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
rigetta il primo, il terzo ed il quarto motivo; accoglie il quinto motivo nei limiti di cui in motivazione e dichiara inammissibili il secondo ed il sesto motivo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021