LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –
Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24135-2016 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente-
contro
LA FORNACE SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MERULANA 234, presso lo studio dell’avvocato CRISTINA DELLA VALLE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO CARRARA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1600/2016 della COMM. TRIB. REG. della Lombardia depositata il 17/03/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/10/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PIRARI.
Per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, n. 1600/16, depositata in data il 17/03/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 ottobre 2020 dal Relatore Dott.ssa Valeria Pirari.
RILEVATO
che:
1. In data 18/09/2013, il Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate di Milano rigettò l’interpello di disapplicazione della disciplina sulle c.d. società di comodo di cui alla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, avanzata dalla società La Fornace s.r.l..
Impugnato il provvedimento dalla società, la Commissione tributaria provinciale di Milano, dopo avere affermato la propria competenza a decidere la controversia, accolse il ricorso con sentenza che fu confermata dalla Commissione tributaria regionale, adita dall’Agenzia delle Entrate, con la sentenza descritta in epigrafe.
2. Contro questa sentenza, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidandolo a due motivi. La contribuente si è costituita in giudizio con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere la C.T.R., come prima ancora la C.T.P., rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione passiva della Direzione provinciale di ***** dell’Agenzia delle Entrate, benchè il provvedimento impugnato fosse stato emesso dalla Direzione regionale della Lombardia. Ad avviso dell’Ufficio, invece, sarebbe dovuta essere parte del processo, a mente del medesimo D.Lgs., art. 10, l’Ufficio del Ministero delle Finanze che aveva emanato l’atto, contrariamente a quanto invece sostenuto dalla C.T.R., che aveva confermato la sua legittimazione passiva sul presupposto che, pur essendo stato l’atto opposto emesso dalla Agenzia delle Entrate, Direzione della Lombardia, il contribuente avesse sede nella Provincia di Sondrio, sicchè la competenza spettava, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 4, alla Direzione provinciale di *****.
2. Col secondo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere la C.T.R. ritenuto impugnabile il provvedimento negativo reso dall’Agenzia delle entrate in esito all’istanza di interpello disapplicativo della disciplina delle società di comodo. Ad avviso della ricorrente, invece, il diniego in esame non ha natura di provvedimento impositivo, nè è immediatamente, ma solo potenzialmente, lesivo della posizione del contribuente, sia in ragione dei limitati poteri concessi al Direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, che, pur potendo chiedere ulteriore documentazione, non può compiere attività istruttoria e di controllo della veridicità e completezza della stessa, sia in ragione della sua efficacia, non essendo atto vincolante per gli Uffici cui è demandato il potere di accertamento, sì da non costituire espressione della pretesa tributaria dell’Ufficio e da non essere perciò, in quanto solo potenzialmente lesivo, immediatamente impugnabile, giacchè, argomentare diversamente, significherebbe dare ingresso ad un’azione di accertamento negativo preventivo, del tutto estranea al modello di giurisdizione tributaria.
3. La prima censura è infondata, sebbene per motivi diversi rispetto a quelli indicati nella sentenza impugnata.
Questa Corte ha più volte affermato che “le articolazioni dell’Agenzia delle entrate all’interno delle varie aree urbane sono espressione di una distribuzione delle competenze a essa intrinseca, disposta con atti interni denominati decreti direttoriali la cui violazione, essendo essi privi d’efficacia in pregiudizio degli utenti, non comporta alcun vizio (Cass., sez. 5, 15/07/2009, n. 16436, e Cass., sez. 5, 25/09/2013, n. 22000). Il formante giurisprudenziale, del resto, è nel senso che, per ogni Agenzia fiscale, la legittimazione a stare in giudizio nei gradi di merito dei processi tributari è riconosciuta in via concorrente anche agli uffici periferici, senza che ciò muti la titolarità e la riferibilità finale degli effetti del potere impositivo che rimane sempre in capo all’Agenzia fiscale quale unitario soggetto di diritto. Infatti, siccome gli uffici periferici non hanno autonoma soggettività rispetto all’Agenzia fiscale nella cui struttura sono organicamente inseriti, le sentenze emesse nelle controversie tributarie producono i loro effetti direttamente nella sfera giuridica della Agenzia fiscale e non dell’Ufficio periferico presente in giudizio. Dunque, tutto ciò che riguarda l’articolazione organizzativa interna dell’Agenzia fiscale (es. strutture e competenze; successione, soppressione, accorpamento o scissione, redistribuzione territoriale) deve ritenersi processualmente irrilevante, essendo sempre e comunque riferibile l’attività difensiva all’Agenzia fiscale, quale persona giuridica di diritto pubblico, giammai al singolo ufficio periferico, le cui vicende organizzative restano del tutto indifferenti” (Cass., sez. 5, 25/09/2013, n. 22000, cit.; Cass., sez. 5, 20/03/2015, nn. 5634, 5635, 5636 e 5637; Cass. sez. 5, 21/01/2015, n. 1230)”.
Peraltro, sia pure in materia doganale, questa Corte ha altresì avuto modo di affermare il principio, estensibile anche al caso in esame, secondo cui “in relazione agli atti emessi dalla Direzione regionale dell’Agenzia delle dogane sussiste la legittimazione processuale della Direzione provinciale in quanto ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso, svolgendo esso ai sensi del Reg. di amministrazione approvato con Delib. n. 1 del 2000 – le funzioni operative dell’Agenzia delle dogane ed assicurando la gestione del contenzioso per i diritti doganali, verificandosi, altrimenti, un’abnorme distorsione del sistema, poichè la Direzione regionale sarebbe la sola legittimata nel processo in relazione a tutti i provvedimenti dalla medesima emessi, determinandosi l’accentramento delle controversie presso la Commissione Provinciale di primo grado della Regione nella quale ha sede la Direzione regionale” (Cass., sez. 5, 23/07/2019, n. 19795).
Nella specie, il provvedimento impugnato è stato emesso dal Direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate di Milano, mentre il giudizio è stato, nei gradi di merito, incardinato nei confronti della Agenzia delle Entrate di Sondrio, la quale, in quanto mera articolazione territoriale dell’Agenzia delle Entrate, non produce alcuna conseguenza processuale, atteso che gli effetti delle sentenze emesse si riverberano direttamente nella sfera dell’Agenzia fiscale e non dell’Ufficio periferico.
Per quanto detto, il motivo è infondato.
4. La seconda censura è parimenti infondata.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui “In tema di contenzioso tributario, la natura tassativa dell’elencazione egli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, non preclude al contribuente la facoltà di impugnare anche quelli che, esplicitandone le concrete ragioni fattuali e giuridiche, portino a sua conoscenza una ben individuata pretesa tributaria, senza che però il suo mancato esercizio determini la non impugnabilità della medesima pretesa successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dal citato art. 19" (in tal senso 21/01/2020, n. 1230), essendo possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448” (Cass. n. 13963 del 5 giugno 2017; n. 11929 del 28 maggio 2014), e dovendo, perciò, intendersi la tassatività riferita non ai singoli provvedimenti nominativamente indicati ma alle categorie a cui questi ultimi sono astrattamente riconducibili, nelle quali vanno ricompresi gli atti atipici o con nomen iuris diversi da quelli indicati, che però producono gli stessi effetti giuridici, ed anche gli atti prodromici degli atti impositivi (vedi Cass., Sez. 5, 30/01/2020, n. 2144; Cass., sez. U, 19/06/2015, n. 12759; Cass., Sez. 5, 23/03/2016, n. 5723; Cass. Sez. 6 – 5, 01/07/2015, n. 13548; Cass., Sez. 6 – 5, 11/12/2019, n. 32425; Cass., sez. 6 – 5, 02/11/2017, n. 26129). A questi fini, non rileva, infatti, l’efficacia vincolante dell’atto, ma il fatto che l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario (in tal senso, Cass., sez. 6 – 5, 15/02/2018, n. 3775, in tema di diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 37 bis, comma 8), come nell’ipotesi, in esame, di parere fornito dal Direttore regionale sull’istanza, avanzata dal contribuente, di disapplicazione della disciplina delle società di comodo.
A questo riguardo, questa Corte (Cass., sez. 5, 21/01/2020, n. 1230), pronunciandosi su un caso analogo a quello di specie, ha evidenziato come “la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, esplicitando concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19”, sorga, “in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia”, allorquando diviene attuale “l’interesse ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico)” (Cass., sez. 5, 5 ottobre 2012, n. 17010).
Trattandosi di mera facoltà e non di obbligo, la mancata impugnazione, da parte del contribuente, di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 cit., non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento, nè, in ogni caso, la non impugnabilità (ossia la cristallizzazione) di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dal citato art. 19 (in termini, Cass., sez. 5, 08/10/2007, n. 21045; Cass., sez. U, 11/5/2009, n. 10672; Cass., sez. 5, 18/11/2008 n. 27385; Cass., sez. 5, 15/6/2010 n. 14373; Cass., sez. 5, 7/4/2011, n. 8033; Cass., sez. 5 18/5/2011, n. 10987; Cass., sez. 5, 22/7/2011, n. 16100)”.
4.1 Alla luce di quanto detto, deve perciò ritenersi che il giudice di merito, richiamando la sentenza di questa Corte n. 17010 del 2012, sopra citata, e ribadendo la non tassatività degli atti impugnabili ex art. 19, abbia fatto corretta applicazione dei principi sopra ribaditi, sicchè la censura proposta sul punto deve essere disattesa.
5. Per quanto detto, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
L’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass., sez. 6-L, 29/1/2016, n. 1778; Cass., sez. 5, 14/5/2020, n. 8914).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento, in favore della contribuente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021