LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3746-2019 proposto da:
CORNICI PAGLIA DI C.E. E F.LLI SAS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIETRO DELLA VALLE 13, presso lo studio dell’avvocato LOREDANA LACOPO, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA DIBITONTO;
– ricorrente –
contro
FONDAZIONE ENASARCO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 52, presso lo studio dell’avvocato DAVIDE PIRROTTINA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4497/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GABRIELLA MARCHESE.
RILEVATO
CHE:
la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda dell’odierna ricorrente, di opposizione al verbale ispettivo della Fondazione Enasarco del *****; in accoglimento della domanda riconvenzionale della Fondazione, ha, invece, condannato la Cornici Paglia di C.E. e F.lli s.a.s. al pagamento “della somma di Euro 14565,54 oltre interessi e sanzioni (…) sulla somma di Euro 9.548,98 a far data dal 17 maggio 2013 e fino al soddisfo”;
secondo la Corte territoriale, le collaborazioni di lavoro oggetto di discussione si erano svolte con le caratteristiche tipiche del rapporto di agenzia e non del procacciamento di affari, così come indicato nel verbale ispettivo e riscontrato in giudizio, all’esito della valutazione di una pluralità di elementi convergenti e sintomatici della stabilità dei rapporti medesimi;
ha proposto ricorso per cassazione la società in epigrafe, con un unico e articolato motivo;
ha resistito, con controricorso, la Fondazione Enasarco;
la proposta del relatore è stata ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.
CONSIDERATO
CHE:
con un unico ed articolato motivo, parte ricorrente deduce la violazione nonchè la falsa applicazione degli artt. 1742 e 1748 c.c., relativi alla definizione degli elementi essenziali del rapporto di agenzia, e degli artt. 1362 e 1363 c.c., in tema di interpretazione del contratto, degli artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità delle prove e dell’art. 246 c.p.c., in tema di incapacità a testimoniare;
secondo la società ricorrente, la Corte di appello di Roma avrebbe tratto il convincimento della sussistenza di rapporti di agenzia sulla base di una serie di circostanze di fatto mentre avrebbe dovuto valorizzare altri (e, nella prospettazione della parte, più significativi) elementi di giudizio;
il motivo è inammissibile;
in modo evidente, il ricorso, attraverso la formale denuncia della violazione di plurime disposizioni di legge, di natura sostanziale e processuale, è inteso a sollecitare una rivisitazione del quadro probatorio e scherma dunque vizio di motivazione, non validamente censurato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5;
il vizio di violazione di legge è, infatti, argomentato esclusivamente attraverso l’imputazione alla Corte territoriale di non aver adeguatamente valutato le prove raccolte; in tal modo, parte ricorrente omette di considerare, da un lato, che “l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito” (tra le tante, Cass. n. 26110 del 2015) sindacabile nei limiti di cui all’art. 360, n. 5, tempo per tempo vigente, e, dall’altro, che “spetta, in via esclusiva, (al giudice di merito) il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge” (tra le moltissime, Cass. n. 19547 e n. 29404 del 2017);
è anche il caso di osservare:
– quanto alla denuncia di violazione delle norme sostanziali, che la qualificazione del rapporto compiuta dal giudice di merito è censurabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, soltanto in caso di violazione dei criteri astratti e generali fissati da questa Corte ai fini della individuazione della fattispecie concreta, mentre costituisce apprezzamento di fatto (come tale – si ripete – sindacabile nei ristretti limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., n. 5), l’accertamento degli elementi che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto, poichè reso attraverso la valutazione delle risultanze processuali (ex plurimis, Cass. n.14160 del 2014; in motiv., Cass. n. 8687 del 2018). Nella fattispecie in esame, la sentenza impugnata richiama correttamente gli orientamenti di questa Corte circa i caratteri distintivi dell’agenzia rispetto al procacciamento di affari, che, in estrema sintesi, sono da individuare nella continuità e stabilità dell’attività dell’agente e nella mancanza di vincolo di stabilità e nell’episodicità o occasionalità dell’attività di procacciatore di affari;
– quanto alla deduzione di violazione delle norme processuali, che, da un lato, è inappropriata la censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., poichè il motivo di ricorso non denuncia un errore di applicazione, da parte del giudice di merito, delle regole contenute in tali norme (rispettivamente, per aver utilizzato prove non acquisite in atti ovvero per aver valutato le prove secondo un criterio diverso da quello normativamente previsto) ma si limita, come già detto, ad esprimere un dissenso in relazione all’operata valutazione degli elementi di prova (Cass. n. 11892 del 2016) e, dall’altro, non è pertinente la deduzione di violazione dell’art. 246 c.p.c., poichè la Corte di merito non ha espresso un giudizio di incapacità dei testimoni ma piuttosto di inattendibilità degli stessi, in base ad una valutazione ad essa riservata, secondo le regole dell’ordinamento processuale;
in definitiva, alla stregua delle svolte argomentazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo; sussistono, altresì, i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico della ricorrente, se versato.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021
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