LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLASUTTO Daniela – Presidente –
Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18835/2016 proposto da:
BANCA MONTE PASCHI SIENA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AVENTINA 3/A, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO CASULLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ORONZO MAZZOTTA;
– ricorrente –
contro
V.E.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSIA WANDA MARIA MASSIONE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 283/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 22/03/2016 R.G.N. 602/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/09/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI.
RILEVATO
Che:
1. La Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Siena che aveva accolto l’opposizione proposta da V.A.E. avverso il decreto con il quale la datrice di lavoro, Monte dei Paschi di Siena s.p.a., aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 75.387,56 a titolo di penale in relazione all’inadempimento del patto di stabilità sottoscritto dalle parti.
2. Il giudice di appello ha osservato che, ferma la validità del patto di stabilità sottoscritto nel 2001 e modificato nel 2003 in base al quale in mancanza di giusta causa il lavoratore dimessosi avrebbe dovuto corrispondere alla Banca il corrispettivo di quattro mesi su sei di preavviso non lavorato, già dagli atti delle parti emergeva che già il trasferimento del V. si preannunciava demansionante sicchè non era necessario sperimentare le nuove mansioni assegnate prima di rassegnare le dimissioni per giusta causa. Si rileva nella sentenza che era provato che il V. proveniva da una filiale di ***** presso la quale era responsabile del Centro Private Banking dove aveva la gestione autonoma di investimenti milionari, poteri di firma e concessione di credito fino a 500.000,00 Euro e coordinamento di cinque dipendenti tra i quali anche quadri direttivi come lui. Si osserva poi che, per effetto del trasferimento, questi era stato inserito nello Staff che si occupava dello Sviluppo Commerciale con compiti di ricerca di nuove sedi per filiali della Banca (il cui costo dell’operazione singola si aggirava tra 300.000 ed 400.000 Euro, inferiore al limite di autorizzazione di credito di cui era in precedenza titolare) senza peraltro poteri decisori ed anzi con assoggettamento a direttive di una collega di pari livello.
3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. affidato a due motivi ai quali resiste con controricorso V.A.E.. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..
CONSIDERATO
Che:
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 1375,1460 e 2103 c.c., per avere la sentenza di appello valutato la sussistenza del demansionamento e della conseguente giusta causa di dimissioni sulla base della mera assegnazione del lavoratore ad un ufficio diverso prima ancora che, di fatto, le mansioni fossero mutate e senza possibilità, quindi, di verificarne l’effettività.
5. Con il secondo motivo poi è denunciata la violazione dell’art. 346 c.p.c., avendo la Corte di merito ritenuto che non fosse stata impugnata l’affermazione incidentale che il preavviso era ridotto sebbene la Banca avesse chiesto la conferma del decreto ingiuntivo relativo all’importo parametrato a dodici mensilità di retribuzione.
6. Il primo motivo di ricorso non può essere accolto.
6.1. La Corte territoriale, dopo aver preso atto del fatto che il contenuto del provvedimento di assegnazione alle nuove mansioni non era contestato e che del pari era incontroverso il contenuto di quelle in precedenza assegnate, ha accertato che le nuove mansioni attribuite al V. si preannunciavano demansionanti sin dalla loro descrizione nel provvedimento di destinazione al nuovo servizio. Sulla base di tale premessa il giudice di appello ha ritenuto irrilevanteiai fini del legittimo esercizio delle dimissioni sorrette da giusta causa, una sperimentazione in concreto delle mansioni dequalificanti assegnate.
6.2. Secondo la Banca ricorrente al fine di valutare l’esistenza del demansionamento sarebbe stato necessario che il lavoratore avesse sperimentato in concreto le nuove mansioni.
6.3. Ritiene tuttavia il Collegio che la potenzialità lesiva di un provvedimento di attribuzione di mansioni che si assumono essere inferiori deve essere calibrata con riguardo al contesto in cui tale demansionamento viene in rilievo.
6.4. Come è noto, non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrare un demansionamento e, nell’accertarne l’esistenza, occorre avere riguardo all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo rivestito nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa.
6.5. La disposizione contenuta nell’art. 2103 c.c. – nella formulazione vigente in epoca anteriore al D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – è tesa infatti a far salvo il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all’accrescimento del proprio corredo di nozioni, di esperienza e di perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto ed ad impedire, conseguentemente, che le nuove mansioni determinino una perdita delle potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per altro verso comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avendosi riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, nonchè alla posizione del dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro. Una violazione della lettera e della ratio dell’art. 2103 c.c., può quindi ipotizzarsi, in considerazione degli interessi sostanziali tutelati dal legislatore, allorquando la modifica qualitativa delle mansioni assegnate al dipendente determini in concreto un progressivo depauperamento del suo bagaglio culturale ed una perdita di quelle conoscenze ed esperienze richieste dal tipo di lavoro svolto, che finiscono per tradursi, in ultima analisi, in un graduale appannamento della professionalità ed in una sua più difficile futura utilizzazione. (cfr. Cass. 14/12/2018 n. 32546) 6.6. Va poi rammentato che la valutazione della idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c., si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 11/07/2005 n. 14496).
6.7. La sentenza impugnata si è attenuta ai principi sopra indicati calandoli, come dovuto, nella fattispecie particolare esaminata. Il giudice di appello nel prendere in esame l’incidenza immediata del provvedimento di assegnazione a mansioni diverse ha avuto ben presente che ciò che veniva in rilievo era l’idoneità della condotta datoriale ad integrare una giusta causa di dimissioni. In particolare ha accertato che il demansionamento era risultato in concreto già dallo stesso provvedimento di assegnazione di mansioni non corrispondenti al grado di professionalità raggiunto dal V..
In sostanza la Corte ha ritenuto provato che il lavoratore era stato privato di mansioni che avessero un livello di autonomia ed una rilevanza nell’ambito dell’organizzazione aziendale paragonabile a quelle in precedenza svolte. A tale convincimento il giudice di appello è pervenuto dopo aver ricostruito sia i compiti assegnati al lavoratore fino al trasferimento dal Centro Private al settore Sviluppo commerciale nell’ambito del quale gli erano stati già sulla carta assegnati compiti privi di quei poteri di autonomia decisionale in precedenza attribuitigli e carenti nella responsabilità delle attività svolte tanto che questi si sarebbe trovato a dover rispondere ad un suo pari grado.
6.8. Osserva il Collegio che la ricostruzione della Corte di merito risulta aderente alle emergenze istruttorie, coerente con i principi sopra affermati ed è stata effettuata con un concreto apprezzamento della non equivalenza delle mansioni già svolte in comparazione con quelle attribuite. Si tratta di una valutazione di circostanze di fatto che per quanto si è detto non è sindacabile in questa sede se non per mezzo della denuncia di un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo novellato e ratione temporis applicabile nel caso concreto. La valutazione della idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c., si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr. Cass. 11/07/2005 n. 14496) e le censure svolte nel ricorso non contengono alcuna allegazione utile sotto questo profilo ma, piuttosto, contrappongono al giudizio espresso dalla Corte di merito un diverso apprezzamento delle risultanze di causa, conforme alle aspettative della parte, sicchè per tale aspetto sono inammissibili.
7. La conferma sul punto della sentenza rende superfluo l’esame del secondo motivo di ricorso che attiene, nella sostanza, alla misura dell’indennità di preavviso azionata con il decreto ingiuntivo opposto.
8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previso per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 17 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021