LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLASUTTO Daniela – Presidente –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2540/2017 proposto da:
M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GALLIA 184, presso lo studio dell’Avvocato NAZARIO NARGISO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
M.A. MARMI APRICENA S.R.L., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MAURIZIO BUFALINI 8, presso lo studio dell’Avvocato MATTEO DI PUMPO, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato ALFREDO CIRO MATARANTE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1495/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 19/07/2016 R.G.N. 893/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 17/09/2020 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.
RILEVATO
Che:
1. Previo ricorso al Tribunale di Lucera M.G. ne otteneva il decreto n. 166/2010 con il quale veniva ingiunto alla M.A. Marmi Apricena spa il pagamento della somma di Euro 36.777,53 a titolo di retribuzioni per il periodo febbraio 2010 – maggio 2010.
2. Proposta opposizione il Tribunale di Foggia (ex Lucera), con sentenza del 27.11.2013, revocava il provvedimento monitorio ritenendo infondata la pretesa del M. per la incompatibilità della carica di amministratore unico, rivestito da questi, con quella di lavoratore subordinato e perchè, in ogni caso, l’istruttoria svolta non aveva fornito elementi contrari a quelli emergenti dalla qualifica formale rivestita dal ricorrente.
3. La Corte di appello di Bari, con la pronuncia n. 1495 del 2016, rigettava il gravame proposto da M.G..
4. I giudici di seconde cure, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla società, perchè i motivi proposti apparivano idonei a contrastare la motivazione della gravata sentenza, rilevavano, da un lato, che incombeva a carico di M.G. l’onere di dimostrare che, nonostante la formale qualifica di amministratore della società, fosse stato in realtà un lavoratore subordinato e, dall’altro, che effettivamente dalle prove raccolte in primo grado era emerso che il M. non era stato sottoposto al potere gerarchico e disciplinare di alcuno ma, al contrario, all’interno dell’azienda aveva svolto un ruolo di predominanza sugli altri soci. Sottolineavano, infine, che l’univocità della prova testimoniale consentiva di superare i dati contraddittori che emergevano dall’esame dei documenti acquisiti agli atti.
5. Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione M.G. affidato a quattro motivi, cui resisteva con controricorso la M.A. Marmi Apricena srl, illustrato con memoria.
6. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.
CONSIDERATO
Che:
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo il ricorrente denunzia l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risultava dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti e ha carattere decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5: l’esistenza dal 2005 di un consiglio di amministrazione di fatto pienamente operante composto da tre soci e concretamente operante ( M.G., M.F. e M.M.). La Corte territoriale nulla avrebbe detto in merito ai poteri da tale organo esercitati sebbene dalle risultanze probatorie fosse emersa non solo la esistenza dello stesso, ma anche il suo regolare funzionamento.
3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ex art. 360 c.p.c., n. 3: in particolare dell’art. 2094 c.c. e dell’art. 4 del CCNL per i lavoratori dipendenti da aziende esercenti l’attività di escavazione e lavorazione dei materiali lapidei. Si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della sussistenza del vincolo di subordinazione, che caratterizzava l’attività del M.G., nonchè dei poteri gerarchici e direttive del consiglio di amministrazione esistente.
4. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro ex art. 360 c.p.c., n. 3: in particolare degli artt. 115,116 e 421 c.p.c., per avere la Corte territoriale, senza motivazione, dato prevalenza a tre testimonianze, peraltro erroneamente interpretate, rispetto ad altre quattro dichiarazioni acquisite e, soprattutto, alle scritture private riconosciute, senza provvedere di ufficio ad atti istruttori idonei a superare la situazione di incertezza.
5. Con il quarto motivo M.G. lamenta l’omesso esame di un fatto storico principale o secondario, la cui esistenza risultava dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti e ha carattere decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5: cioè che dalla data di assunzione (3.11.1988) sino al 22.9.2005, non aveva ricoperto alcuna carica sociale e, pertanto, almeno per tale periodo, era un semplice dipendente della società.
6. Preliminarmente osserva il Collegio che il primo e quarto motivo sono inammissibili.
7. Invero, attraverso gli stessi si lamentano i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nuova formulazione, relativamente a due circostanze di fatto, ritenute decisive, che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare e che invece non ha valutato.
8. Le doglianze, però, come formulate, incontrano il limite di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., che, in ipotesi di cd. “doppia conforme” (ravvisabile nel caso di specie atteso che la sentenza della Corte di appello di Bari ha respinto il gravame confermando la pronuncia di primo grado), non consente la proposizione di un motivo quale quello di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si tratta, infatti, di questioni di fatto prese in considerazioni nel contesto decisionale della gravata sentenza, decisa in modo conforme a quella di primo grado, per mancanza di prova in ordine ad elementi contrari rispetto a quelli della qualifica rivestita, come sarà in seguito precisato (Cass. n. 29222 del 2019).
9. La disposizione di cui all’art. 348 ter.c. c.p.c., u.c., è applicabile, D.L. n. 83 del 2012, ex art. 54 comma 2, conv. in L. n. 134 del 2012, atteso che il ricorso in appello è del 16.4.2014 e la impugnata sentenza è stata pubblicata il 19.7.2016 (Cass. n. 24909 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
10. Il secondo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.
11. Sono infondate le dedotte violazioni di legge perchè la Corte territoriale si è attenuta al principio di legittimità (tra le altre Cass. n. 6827 del 1999 e Cass. n. 24972 del 2013) secondo cui la qualità di socio di una società di capitali (nella specie una società a responsabilità limitata) non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro con la società stessa purchè colui che intenda fare valere il rapporto di lavoro subordinato ne provi in modo certo l’elemento tipico qualificante e, cioè, il requisito della subordinazione, il quale deve essere inteso come il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, caratterizzato dalla emanazione di ordini specifici oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e di controllo della esecuzione delle prestazioni lavorative.
12. Analogo principio è stato affermato, sempre in sede di legittimità, con riguardo alla qualifica di amministratore di una società di capitali (Cass. n. 19596 del 2016, Cass. n. 24972 del 2013).
13. Sono inammissibili, invece, le censure in ordine all’avvenuto accertamento della compatibilità dei diritti e dei doveri nascenti da un rapporto subordinato con le funzioni di amministratore perchè tale accertamento costituisce un accertamento di fatto insindacabile in cassazione se sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 3887 del 2001; Cass. n. 1238 del 2011).
14. Nel caso de quo i giudici di seconde cure, in ossequio agli orientamenti sopra esposti, facendo corretta applicazione delle regole sull’onere della prova, hanno accertato che il M.G. non solo non era sottoposto al potere gerarchico e disciplinare di alcuno ma, al contrario, all’interno dell’azienda svolgeva un ruolo di predominanza sugli altri soci.
15. Anche il terzo motivo non è fondato.
16. In tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
17. Inoltre, l’attivazione dei poteri istruttori di ufficio, da parte del giudice, oltre ad una sollecitazione della parte (che nel caso in esame non è stato indicato quando sia stata effettuata e in che termini) richiede una situazione di “semiplena probatio” tale da integrare una lacuna istruttoria (Cass. n. 29006 del 2008; Cass. n. 6013 del 2009) che richieda di essere colmato.
18. Nella fattispecie, invece, la Corte territoriale, nel contrasto delle risultanze istruttorie, ha ritenuto la prova testimoniale raccolta in senso favorevole al datore di lavoro univoca e idonea a superare tutti gli altri elementi probatori, anche di natura documentale. Ha, pertanto, svolto un accertamento di merito, espressione del principio del libero convincimento del giudice. Del resto, in tema di valutazione delle prove, nel nostro ordinamento non esiste una gerarchia di efficacia delle stesse per cui i risultati di talune devono necessariamente prevalere nei confronti delle altre, essendo ciò rimesso al prudente apprezzamento del giudice (Cass. n. 9245 del 2007).
19. La Corte di appello ha, quindi, ritenuto attendibili e credibili alcune deposizioni rispetto alle altre, ponendo alla base di tale valutazione l’univocità delle risultanze orali ritenute prevalenti rispetto ad altri elementi, di talchè l’articolazione delle censure, come formulate, si risolve in sostanza nella richiesta di riesame dell’accertamento operato dalla Corte territoriale, in fatto, che non è deferibile al giudice di legittimità cui spetta solo la facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica e formale delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. n. 27197 del 2011; Cass. n. 6694 del 2009).
20. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
21. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
22. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 17 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021
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