Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.818 del 19/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1948/2020 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO N. 38, presso lo studio dell’avvocato MARCO LANZILAO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Siracusa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 448/2019 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 01/07/2019 R.G.N. 622/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/10/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA.

RILEVATO

Che:

1. la Corte di Appello di Caltanissetta, con sentenza pubblicata il 1 luglio 2019, ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da A.S., cittadino *****, avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale aveva, a sua volta, rigettato la domanda di protezione internazionale proposta dall’interessato, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria;

2. la Corte ha confermato – per quanto qui ancora interessa – l’assunto del primo giudice secondo cui, come già ritenuto dalla Commissione territoriale, il racconto dell’istante non era credibile, con un narrato “pieno di lacune e contraddizioni”, in relazione al preteso timore di subire violenza a causa di una testimonianza resa contro persone che avevano ucciso un connazionale; circa la richiesta protezione sussidiaria la Corte ha escluso che nel luogo di provenienza dell’appellante – “la parte nord est della provincia del Punjab pakistano” – fosse riscontrabile una situazione di violenza indiscriminata tale da creare una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile;

3. quanto al riconoscimento della protezione umanitaria, la Corte ha ritenuto che “il racconto dell’appellante non permette una compiuta verifica di tutti i requisiti enunciati nella sentenza n. 4455/2018 della Cassazione”, in particolare riguardo alle condizioni personali del richiedente che avevano determinato la partenza dal suo Paese ed al livello di integrazione nel tessuto sociale italiano, “elemento – secondo la Corte – di per sè solo non sufficiente e peraltro ancorato ad una attività lavorativa part-time ed a tempo determinato alle dipendenze della ditta Ricamificio Toscana Srl”;

4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con 6 motivi; il Ministero dell’Interno ha depositato “atto di costituzione” per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato al solo fine di una eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.

CONSIDERATO

Che:

1. il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata per “motivazione apparente” circa il mancato riconoscimento della protezione umanitaria ad opera della Corte territoriale;

la censura non merita accoglimento;

secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (sentt. nn. 8053 e 8054 del 2014), il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità è ridotto al “minimo costituzionale”, per cui “l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”;

nella specie la Corte territoriale ha confermato il giudizio di primo grado ed ha negato la protezione umanitaria sia sulla mancanza di credibilità del racconto del richiedente, che evidentemente impediva di ricostruire quali fossero le condizioni personali dell’istante presso il Paese di origine, sia sul mancato riscontro del livello di integrazione in Italia, per cui la motivazione non può essere giudicata “apparente” solo perchè non conforme alle attese del ricorrente;

2. il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, per avere i giudici del merito ritenuto non credibile il narrato del richiedente protezione;

la censura non è accoglibile perchè, qualora le dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale siano giudicate inattendibili secondo i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), ed in applicazione dei canoni di ragionevolezza e dei criteri generali di ordine presuntivo, l’accertamento così compiuto dal giudice di merito integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice cui esso è devoluto e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. ex multis Cass. n. 30105 del 2018; Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 29279 del 2019; Cass. n. 8020 del 2020);

nel caso, la Corte d’Appello ha confermato la valutazione già compiuta in prime cure dell’esame delle dichiarazioni del richiedente, ritenendole non credibili, sicchè la doglianza in esame, che non specifica i parametri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, che si assumono violati nello scrutinio dell’attendibilità del narrato, costituisce una mera contrapposizione alla valutazione che il giudice di merito ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 novellato, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. nn. 8053 e 8054 del 2014), peraltro precluso anche per la ricorrenza di una cd. “doppia conforme” (art. 348 ter c.p.c., u.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; tra le altre v. Cass. n. 23021 del 2014);

3. il terzo motivo denuncia omesso o errato esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del ricorrente, nonchè omessa cooperazione istruttoria; si eccepisce che “la Corte territoriale non ha chiarito se le dichiarazioni del ricorrente fossero o meno attendibili, mentre è certo che, esclusa l’inattendibilità di esse, occorreva verificare, mediante i poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata… fosse effettiva nel Paese nel quale si sarebbe dovuto disporre il rimpatrio”;

il gravame non può trovare accoglimento perchè si fonda su un presupposto palesemente errato, e cioè che la Corte non avrebbe “chiarito” se il richiedente protezione fosse o meno “credibile”, mentre, come ricordato nello storico della lite, il giudizio del Collegio di appello, conforme a quello di prime cure, è stato esplicito nel senso di negare attendibilità alla narrazione dell’istante, sicchè il diverso opinamento della difesa di questi si traduce solo in un diverso apprezzamento di merito;

4. il quarto motivo denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, omesso esame delle fonti informative, contraddittorietà ed apparenza della motivazione; si critica il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, chiosando che “appare chiaro ed evidente che la condizione del paese di origine e della specifica zona di provenienza del ricorrente sia assolutamente pericolosa e tale condizione avrebbe dovuto essere valutata dalla Corte di Appello e che la decisione impugnata sia il frutto della omessa/errata/contraddittoria valutazione di suddetta condizione come descritta dalle attuali fonti di informazioni ufficiali sopra riportate”;

in disparte i profili di inammissibilità derivanti dalla richiesta di un sindacato sulla motivazione precluso a questa Corte per le ragioni innanzi espresse, la censura, comunque, non può trovare accoglimento atteso che la Corte territoriale, citando le fonti internazionali da cui ha tratto il convincimento, ha accertato in fatto che nella regione di provenienza del richiedente protezione non fosse in atto una situazione assimilabile a quella di un conflitto armato generatore di violenza indiscriminata; lo stabilire se tale accertamento sia corretto o meno è questione di fatto, come tale incensurabile in questa sede se non evidenziando l’omesso esame di un fatto decisivo o la manifesta irrazionalità della decisione, censure neanche prospettate dall’odierno ricorrente (di recente: Cass. n. 6897 del 2020); in realtà chi ricorre si limita a prospettare una diversa valutazione della situazione del Paese di provenienza, con una censura che attiene chiaramente ad una quaestio facti che non può essere riesaminata innanzi alla Corte di legittimità, perchè si esprime un mero dissenso valutativo delle risultanze di causa e si invoca, nella sostanza, un diverso apprezzamento di merito delle stesse (da ultimo, tra molte, v. Cass. n. 2563 del 2020);

.5. il quinto motivo, che denuncia violazione e falsa applicazione di plurime norme di legge oltre che difetto di motivazione e travisamento dei fatti, è inammissibile;

la formulazione della censura risulta del tutto astratta, risolvendosi in una mera elencazione di norme, senza l’osservanza del fondamentale principio secondo cui i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non articoli specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa, avendo il ricorrente l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del giudizio di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione di identificare la critica mossa ad una parte ben specificata della decisione espressa (v., da ultimo, Cass. n. 2959 del 2020; conf. Cass. n. 1479 del 2018); pertanto, se nel ricorso per cassazione si sostiene l’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo, si deve chiarire a pena di inammissibilità l’errore di diritto imputato al riguardo alla sentenza impugnata, in relazione alla concreta controversia (Cass. SS.UU. 21672 del 2013); in caso contrario, la censura – pur formalmente formulata come vizio di violazione di norme legge – nella sostanza si traduce in una inammissibile denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti, effettuata nell’esercizio di un sindacato non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione, peraltro nei ristretti limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, pure invocato da parte ricorrente, ma senza individuare il fatto storico decisivo di cui sarebbe stato omesso l’esame e trascurando completamente gli enunciati di Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 che hanno rigorosamente interpretato detta disposizione novellata nel 2012;

6. con il sesto motivo si critica la sentenza impugnata per avere negato la protezione umanitaria, lamentando omessa applicazione dell’art. 10 Cost., omesso esame delle condizioni personali per l’applicabilità della protezione umanitaria e della necessaria comparazione tra la condizione raggiunta in Italia e quella del paese di provenienza, omesso esame delle fonti relativamente alle condizioni socio/economiche del paese di provenienza;

il motivo è infondato;

le Sezioni unite di questa Corte (sent. n. 29459 del 2019) hanno condiviso l’orientamento che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale (inaugurato da Cass. n. 4455 del 2018, seguita, tra varie, da Cass. n. 11110 del 2019 e da Cass. n. 12082 del 2019), puntualizzando però che non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. n. 17072 del 2018); si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 9304 del 2019), tanto da indurre le Sezioni unite ad accogliere nell’occasione il ricorso proposto dal Ministero, in quanto la decisione del giudice d’appello si era fondata sul solo elemento, isolatamente considerato, della recente assunzione del richiedente alle dipendenze di un datore di lavoro italiano;

orbene, nella specie, la Corte territoriale ha esplicitamente argomentato che il racconto del richiedente non permetteva una verifica sia delle sue condizioni personali soggettive nel paese di provenienza, sia del reale livello di integrazione in Italia;

in ricorso non viene adeguatamente specificato nè quando nè come siano stati sottoposti all’attenzione del giudice di merito quegli elementi di fatto individualizzanti che consentissero di enucleare una condizione di vulnerabilità, tenuto conto che anche per la giurisprudenza unionale l’unico ad essere in possesso delle informazioni relative alla sua storia personale è proprio chi richiede la protezione che deve indicare gli elementi relativi all’età, all’estrazione sociale, ai rapporti familiari, ai luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, alle domande eventualmente già presentate (CGUE, 5 giugno 2014, causa C146/14); nel caso che ci occupa il ricorrente deduce formule generiche ed invoca una diversa valutazione in ordine alla situazione socio-politica del Pakistan, trascurando di considerare che – per i principi innanzi richiamati – il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza, perchè si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 9304 del 2019);

7. pertanto il ricorso deve essere respinto; nulla va liquidato per le spese in quanto il Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021

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