LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI IASI Camilla – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto a n. 18405/2015 R.G. proposto da:
Magazzini Fratelli L. s.r.l. e Centro Commerciale Bracchi s.a.s.
di L.E. & C., rappresentate e difese dall’Avv. Giuseppe Lepore, con domicilio eletto in Roma, via Polibio, n. 15, presso lo studio, giusta procura in calce al ricorso.
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 267/14/15 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 26/1/2015.
Udita la relazione svolta dal Consigliere Oronzo De Masi nella Camera di consiglio del 16 novembre 2021 tenuta mediante collegamento da remoto.
RITENUTO
che:
Magazzini Fratelli L. s.r.l. e Centro Commerciale Bracchi s.a.s. di L.E. & C., la quale aveva ceduto alla prima società, con atto registrato 27/1/2009, il ramo di azienda afferente all’attività di commercio al minuto di generi non alimentari, con relativa licenza n. 1855 rilasciata dal Comune di Colleferro, impugnavano l’avviso di rettifica e liquidazione del valore dell’avviamento, da Euro 42.000,00 ad Euro 753.939,00, determinato dall’Amministrazione finanziaria applicando D.P.R. n. 460 del 1996, ex art. 2, comma 4, la media dei ricavi dichiarati dall’azienda negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui era intervenuto il trasferimento (pari ad Euro 2.513.126,00) ed una redditività media del settore merceologico di appartenenza pari al 10 per cento, così accertando una maggiore imposta di registro di Euro 21.358,00, oltre sanzioni ed interessi.
Il ricorso delle contribuenti veniva accolto dal giudice di primo grado con decisione che, a seguito di gravame erariale, era riformata dal giudice di appello.
La CTR del Lazio, con la sentenza indicata in epigrafe, afferma che l’Ufficio, sulla base della documentazione offerta dal contribuente, ha correttamente rivalutato l’importo dell’avviamento commerciale dichiarato dalle parti contraenti, considerando la redditività media del settore merceologico di appartenenza (10 per cento), in assenza “di elementi utili per la quantificazione della percentuale di redditività necessaria per la determinazione del valore venale ai sensi del D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2”, dato in linea con la redditività globale dell’azienda (23 per cento) ricostruita a partire dal costo del venduto relativo all’anno 2008 (Euro 2. 604.089,00), essendo la media dei ricavi delle annualità 2006/2008 pari ad Euro 2.513.126,00, per cui il 10 per cento è pari ad Euro 251.313,00, che moltiplicato per 3, dà la somma di Euro 753,939,00, valore dell’avviamento che secondo l’Ufficio è maggiormente attendibile, in quanto “i ricavi dichiarati non erano congrui e adeguati a quanto previsto dagli studi di settore”.
Ricorrono per la cassazione della sentenza le società contribuenti, con quattro motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.; resite l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, perché la CTR ha applicato in modo errato il principio dell’onere della prova, gravante sull’Ufficio il quale, ove avanzi nei confronti del contribuente una pretesa impositiva, deve dimostrare, quantomeno in via indiziaria, la concreta sussistenza dei presupposti per l’applicazione del criterio prescelto, per cui l’accertata maggior valore dell’avviamento risulta, nel caso di specie, non corroborato da riferimenti specifici alla realtà aziendale considerata.
Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, e del D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, perché la CTR ha applicato in modo errato le richiamate disposizioni avendo l’Ufficio fatto uso di un mero metodo storico, ossia basato su risultati reddituali degli anni antecedenti la cessione dell’azienda, senza compiere alcuna attività istruttoria, come reso necessario dalla applicazione degli studi di settore, presenti nel caso di specie, in ordine a tutti gli elementi ricavabili dalle banche dati degli studi medesimi.
Con il terzo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, perché la CTR ha applicato in modo apodittico la percentuale di redditività (10 per cento), rispetto ai redditi conseguiti e al metodo valutativo utilizzato, senza considerare che, ad avviso del giudice di primo cure, il dato era “del tutto incongruente con la redditività media del triennio dell’impresa accertata”.
Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., perché la CTR non ha valutato le prove acquisite nel corso del processo e si è allineata alle determinazioni dell’Ufficio senza verificarne l’attendibilità.
La prima e la quarta censura, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente connesse, sono da disattendere.
La Corte, con orientamento ormai consolidato, ritiene sempre utilizzabile il criterio di calcolo del valore di avviamento che il legislatore aveva previsto per l’accertamento con adesione di cui al D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, ed ha stabilito che: “Ai fini del calcolo del valore di avviamento commerciale quale parte del corrispettivo di cessione d’azienda, per ia determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, secondo il disposto del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 51, e del D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460, art. 2, comma 4, quest’ultima avente la funzione di fungere da parametro mimino per il relativo calcolo, dovrà applicarsi la percentuale di redditività, nella misura ritenuta congrua dal giudice di merito, parametrata alla media dei ricavi, e non degli utili operativi, accertati, o in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi di imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, applicando di seguito il moltiplicatore previsto dal citato art. 2, comma 4.” (tra le altre, Cass. n. 7750 del 2019, Cass. n. 18941 del 2018, Cass. n. 7324 del 2014).
Poiché il D.Lgs. n. 218 del 1997, che ridisciplina l’accertamento con adesione, ha soppresso il D.P.R. n. 460 del 1996 senza, però, indicare però una metodologia di determinazione del valore di avviamento dell’azienda, le indicazioni espresse dal vecchio D.P.R. n. 460 del 1996, rimangono valide, per quanto riguarda i parametri di riferimento, lasciando al contribuente l’onere di dimostrare, ove lo ritenga, applicando parametri diversi da quelli previsti dal citato D.P.R. n. 460, un valore di avviamento inferiore a quello accertato.
Il contribuente, infatti, non può limitarsi alla semplice opposizione all’utilizzo di una metodologia di calcolo, senza dimostrare l’incoerenza del metodo utilizzato, contestando la valutazione degli elementi di fatto che sono alla base dei criteri utilizzati e quindi fornendo prova contraria rispetto ai valori determinati dall’Ufficio sulla base dell’accertamento presuntivo di cui al D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4 (Cass. n. 25143 del 2016, Cass. n. 16705 del 2007, Cass. n. 613 del 2006).
Ne’ le ricorrenti hanno dedotto che l’esistenza di studi di settore fosse fatto ostativo del ricorso al criterio della percentuale di reddittività applicata alla media dei ricavi degli ultimi tre anni avendo, piuttosto, evidenziato, nell’atto introduttivo del giudizio (ricorso per cassazione, pagine 2, 3 e 4) il carattere familiare dell’azienda ceduta, l’esiguità del reddito dichiarato ai fini fiscali nell’ultimo triennio da pare della società cedente, il carattere estremamente concorrenziale dell’attività ceduta in un Comune con meno di ventimila abitanti, il carattere non contingentato dell’attività stessa e la conseguente sproporzione dell’avviamento calcolato sulla base di formule matematiche.
Il criterio desumibile dalle norme dell’accertamento con adesione può essere legittimamente utilizzato, ai fini che qui interessano, per il fatto di essere stato delineato dal legislatore in una norma, il che di per sé costituisce una garanzia circa l’affidabilità di tale metodologia di valutazione e la sentenza impugnata dà conto dei dati impiegati per verificare la congruità del risultato raggiunto dall’accertamento dell’Ufficio, dati per di più forniti dalle stesse contribuenti, in funzione di prova indiziaria, a favore della Amministrazione finanziaria, dei valori minimi dell’avviamento commerciale, tant’e’ vero che quest’ultima può impiegare un parametro diverso soltanto esplicitandone la maggiore affidabilità specifica (Cass. n. 4931 del 2012).
Inoltre, “il riferimento alla redditività dichiarata dall’intera azienda pari al 23%” non può essere considerato disgiuntamente dalla circostanza, pacifica tra le parti in causa, “che il ramo d’azienda ceduto fatturava circa 67% dei ricavi totali”.
Quanto, poi, alla dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., la censura è inammissibile atteso che, come affermato di recente dalle Sezioni Unite (Sez. U. n. 20867 del 2020), da un lato, “In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.” e, dall’altro, “la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” (Cass. n. 16016 del 2021).
Si tratta di condizioni, a ben vedere, assenti nel caso di specie in cui le contribuenti non hanno neppure indicato il materiale probatorio, in tesi, idoneo a sorreggere una diversa decisione ove effettivamente esaminato.
La seconda e la terza censura, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente connesse, sono parimenti da disattendere.
Il caso in esame scaturisce dall’emissione di un avviso di rettifica e liquidazione, da parte dell’Agenzia delle entrate, con cui si rettifica il valore d’avviamento per una compravendita di ramo d’azienda utilizzando, nella propria ricostruzione, le disposizioni dettate dal più volte citato D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, che costituisce l’unica norma con cui il legislatore ha affrontato – esplicitamente – la questione circa le metodologie di determinazione dell’avviamento.
La Corte, in tema di determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, ha precisato che l’avviamento costituisce una qualità dell’azienda, si atteggia quale bene di essa, ricompreso nel trasferimento, e quindi da assoggettare all’imposta, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, comma 4, per cui “il valore di esso, in presenza di metodi tecnici diversi di valutazione, costituisce l’oggetto di un giudizio di fatto rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito ed immune da sindacato di legittimità se adeguatamente motivato.” (Cass. n. 2204 del 2006).
L’avviamento, come già detto, si calcola sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati e, comunque, nel caso in cui sussistano almeno una delle seguenti circostanze: a) l’attività sia stata iniziata entro i tre periodi d’imposta precedenti al trasferimento; b) l’attività non sia stata esercitata, nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento.
La CTR del Lazio, applicando il suesposto criterio di valutazione, ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e la decisione appare conforme ai principi di diritto in precedenza esposti, con riferimento anche alla distribuzione degli oneri probatori, profilo che il primo giudice, evidentemente, non aveva ben considerato.
La motivazione della sentenza di appello non è oggetto di censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e neppure lo potrebbe essere, trattandosi di norma alla quale è estranea qualsiasi forma di censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale istruttorio, contrapponendo ad esso una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione, da parte del giudice di legittimità, degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass. n. 20553 del 2021).
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
PQM
La Corte, rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022
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