Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.1047 del 14/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25377/2016 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, nel suo domicilio in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

V.G., rappresentata e difesa dagli avvocati professori Victor Uckmar, Giuseppe Corasaniti e Guglielmo Fransoni, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla via Crescenzio n. 2;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per le Marche, n. 219/03/16 pronunciata il 08 marzo 2016 e depositata il 05 aprile 2016, non notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 novembre 2021 dal Cons. Marcello M. Fracanzani;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Locatelli Giuseppe che ha chiesto il rigetto del ricorso;

nessuno comparso per le parti, non essendo stata proposta istanza di discussione.

FATTI DI CAUSA

La parte contribuente è stata azionista della Banca Popolare di Ancona, opponendosi – assieme ad altri piccoli azionisti – all’emissione di prestito obbligazionario con conversione in azioni riservato a Banche Popolari Unite, motivando sulla violazione del diritto di opzione riservato ai soci e denunciando la surrettizia operazione tesa a far passare Banca Popolare di Ancona sotto il controllo di Banche Popolari Unite, in ragione dell’enorme quantità di azioni che sarebbe arrivata a detenere. Nel corso del giudizio teso a far dichiarare la nullità delle deliberazioni societarie assunte, dopo una vittoria in primo grado dei piccoli azionisti, si giungeva ad una transazione, prevedendo l’abbandono di ogni lite a fronte della corresponsione di una somma, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno degli attori – appellati.

In vista delle somme da ricevere, si proponeva interpello circa il loro regime fiscale, ritenendole in prima battuta totalmente esenti, in quanto sostanziale restituzione di capitale societario e, in subordine, soggette a tassazione separata al 12,5%, quali rinuncia al diritto di opzione (cessione a titolo oneroso di partecipazioni non qualificate). Per contro, l’Ufficio, affermava trattarsi di somme ricevute quale corrispettivo per l’assunzione di obblighi di fare, non fare o tollerare, attraendoli al regime del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l). Donde la contribuente richiedeva la differenza dell’eccedenza sulla tassazione separata all’aliquota del 12,5% ed impugnava il silenzio rifiuto, con esito negativo in primo grado, riformato in appello, ove la CTR apprezzava in parte le sue ragioni.

Ricorre dunque l’Avvocatura generale dello Stato, affidandosi ad unico motivo, cui replica la contribuente con tempestivo controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Viene proposto un unico motivo di ricorso.

1. Con l’unico motivo si prospetta censura art. 360 c.p.c., ex n. 3, per violazione e falsa applicazione D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l) e l-bis) nella sostanza contestandosi trattarsi di somme ricevute per cessione di diritto di partecipazione, all’opposto doversi individuare la causa negoziale nella transazione, come assunzione di obblighi di fare, non fare, tollerare.

1.1 In via pregiudiziale, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità opposta dalla difesa privata al motivo di ricorso, in quanto teso a richiedere una rivalutazione complessiva nel merito dell’accordo transattivo. Al contrario, viene qui chiesto di verificare la corretta applicazione della norma da parte del giudice di secondo grado. Il motivo è quindi ammissibile e può essere scrutinato.

1.2 Il motivo è comunque infondato. Occorre indagare cosa sia stato “remunerato” con l’atto transattivo sottoscritto fra la contribuente e l’Istituto di credito. Ponendo fine alla lite insorta, la parte contribuente ha rinunciato a far valere il suo diritto di opzione, cioè una parte significativa dei diritti connessi al suo status di socio della Banca Popolare di Ancona. Un tanto è avvalorato da tre elementi: a) dalla circostanza che proprio la lesione di quel diritto aveva indotto la parte contribuente a muover lite alla Banca; b) dalla circostanza che con l’abbandono della lite in appello (vittoriosa avendola vista il primo grado) la parte contribuente rinunciava a far valere il suo diritto di opzione, lasciando libera Banche Popolari Unite di sottoscrivere per l’intero il prestito obbligazionario convertito forzatamente in azioni; c) dalla circostanza che il risarcimento accordato fosse commisurato per ciascun socio alla sua partecipazione societaria, quindi proporzionato al diritto di opzione rinunciato, non ad un obbligo capitarlo di fare, non fare (o permettere, secondo la dicitura del D.P.R. n. 917 del 1986, che si distingue dagli art. 1965 e ss. c.c.).

Altresì, significativa è la Circolare dell’Amministrazione finanziaria 10 dicembre 2004, n. 52/E, al punto 2.2.5., ove attrae ai redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lett. c)-bis “la cessione di partecipazione, titolo o diritti che rappresentano una percentuale complessiva di diritti di voto ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio” e tale deve considerarsi anche (la rinuncia al) il diritto di opzione che è alla base della transazione stipulata con la Banca Popolare di Ancona e occasione delle somme percepite.

2. Sotto altro profilo, la tesi erariale prova troppo. Ed infatti, guardare agli obblighi di fare, non fare o tollerare come categoria autonoma e generale della transazione, significa accordare a quell’istituto una funzione novativa anche sotto il profilo fiscale, con la conseguenza che ogni operazione – più o meno fiscalmente onerosa ovvero di tassazione incerta – può essere oggetto di transazione su di una lite minacciata, al solo fine di far ricadere quanto corrisposto nella categoria generale e sussidiaria degli obblighi di fare, non fare o tollerare. In tal modo, sarebbe rimesso alla disponibilità delle parti uno strumento consensuale per il mutamento surrettizio del regime fiscale imposto dal legislatore nell’esercizio della sua riserva e in contrasto con il principio di capacità contributiva. Occorre, pertanto, guardare alla ragion d’essere (ratio) ed alla natura dei diritti dedotti in transazione per fondare su quelli (e non su questa) il regime fiscale appropriato (telos).

3. Per un corretto inquadramento fiscale, occorre tenere fermo il principio dell’autonomia contrattuale nel diritto civile, cui segue per trascinamento la qualificazione fiscale. Le parti possono infatti liberamente costruire un negozio o un fascio di obbligazioni, nel perseguimento di un fine lecito, donde all’Ufficio erariale spetta poi la sussunzione dei negozi atipici nelle fattispecie tipiche previste dall’ordinamento tributario che, quale articolazione del potere esecutivo, è retto dal principio di legalità e tipicità, con una particolare riserva di legge. La discrezionalità insita nell’esercizio del potere amministrativo dev’essere orientata dal principio di autonomia privata che lega il momento civile privatistico a quello tributario pubblicistico, scrutinando la causa e lo scopo perseguiti con l’operazione posta in essere dalle parti per ricavarne la più corretta qualificazione tributaria che è operazione di interpretazione ed applicazione della norma, la cui devianza è scrutinabile da questa Corte secondo il motivo n. 3 previsto dall’art. 360 c.p.c., su cui si regge anche il potere dell’Amministrazione finanziaria di disattendere gli atti privati che non abbiano scopo diverso dal mero risparmio fiscale.

In applicazione di questi principi nel caso in esame, la transazione dev’essere vista come frutto dell’autonomia negoziale privata allo scopo restitutorio o ripristinatorio del diritto societario pregiudicato dal prestito obbligazionario con conversione forzata e già oggetto di lite fra soci ed istituto di credito concedente il prestito obbligazionario, per la cui definizione le parti sono addivenute ad un accordo facendosi reciproche concessioni, mantenendo -peraltro- la misura della partecipazione societaria come metro per la quantificazione del tantundem.

A quest’impostazione applicativa si è correttamente attenuta la commissione d’appello, la cui sentenza qui impugnata è esente da censure.

Il ricorso è quindi infondato e dev’essere rigettato; le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio di legittimità in favore del contribuente, che liquida in Euro duemilatrecento/00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso nella misura forfettaria del 15%, Iva e cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022

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