LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19701/2020 R.G. proposto da:
CASA DI CURA SANTA MARIA S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t. S.E., e CASA DI CURA PRIVATA VILLA BIANCA SINT.
EL. S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.
G.P., rappresentate e difese dall’Avv. Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto in Roma, corso Rinascimento, n. 11;
– ricorrenti –
contro
REGIONE PUGLIA, in persona del Presidente della Giunta regionale p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Isabella Fornelli, con domicilio eletto in Roma, via Nizza, n. 53, presso lo studio dell’Avv. Fabio Caiaffa;
– controricorrente –
e MINISTERO DELLA SALUTE;
– intimato –
avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 3571/20, depositata il 5 giugno 2020.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 28 settembre 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 4 settembre 2013, n. 4423, il Consiglio di Stato accolse l’appello proposto dalla Casa di cura Santa Maria S.p.a. e dalla Casa di cura privata Villa Bianca Sint. El. S.r.l. avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia 2 aprile 2012, n. 623, annullando la Delib. 20 dicembre 2010, n. 2858, con cui, a seguito dell’aggiornamento del sistema di classificazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera (DRG) disposto dal D.M. 18 dicembre 2008, la Giunta regionale della Puglia aveva provveduto, ai sensi della L.R. 28 dicembre 2009, n. 34, art. 20, ma in ritardo rispetto al termine previsto dal comma 2, alla determinazione della metodologia e dei criteri per la definizione delle tariffe e del calcolo del valore dei ricoveri, disponendone l’applicabilità con decorrenza dal 1 gennaio 2010.
2. A tale decisione la Regione dette esecuzione con Delib. 23 dicembre 2013, n. 2519, disponendo l’utilizzazione, per il periodo compreso tra il 1 gennaio 2010 ed il 31 maggio 2013, delle tariffe precedentemente approvate con Delib. 23 febbraio 2010, n. 523, comprendenti la remunerazione delle endoprotesi e del relativo impianto, ed escludendo il rimborso delle prestazioni eccedenti i tetti di spesa assegnati.
2.1. A seguito di tale deliberazione, le ricorrenti promossero il giudizio di ottemperanza, lamentando l’elusione del giudicato, nella parte in cui aveva escluso la possibilità di estendere il nuovo sistema di remunerazione alle prestazioni già rese e definite.
2.2. Con sentenza del 21 luglio 2014, n. 3884, il Consiglio di Stato accolse il ricorso, dichiarando nulla la nuova Delibera, in quanto inidonea a remunerare in modo congruo, ragionevole ed equanime la prestazione, la protesi e l’impianto, nonché avente efficacia retroattiva, al pari di quella precedente, in contrasto con l’intangibilità dei tetti di spesa relativi all’anno 2010.
3. Fu quindi nominato un Commissario ad acta, il quale, con atto del 21 maggio 2015, dispose l’immediato pagamento dei corrispettivi dei ricoveri effettuati e contabilizzati per l’anno 2010 sulla base delle disposizioni vigenti anteriormente all’approvazione della Delib. n. 2858 del 2010, rimettendo invece alla Regione la determinazione delle tariffe da adottare per il periodo successivo.
3.1. Avverso tale provvedimento le Case di cura proposero reclamo ai sensi del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 114, comma 6, il quale fu accolto con sentenza del 18 dicembre 2015, n. 5767, con cui il Consiglio di Stato fornì chiarimenti per l’ottemperanza, affermando che il Commissario non poteva limitarsi ad individuare i parametri per la determinazione delle tariffe, ma doveva procedere egli stesso a tale determinazione, calcolando anche l’importo spettante a ciascuna casa di cura sulla base del numero delle prestazioni erogate nell’anno 2010; confermò inoltre che il giudicato si riferiva esclusivamente all’anno 2010, escludendo invece l’obbligo del Commissario di provvedere alla determinazione delle tariffe ed al calcolo dei corrispettivi anche per gli anni successivi, in ordine ai quali le indicazioni risultanti dalla sentenza n. 4423/13 dovevano ritenersi rivolte alla Regione.
4. In data 17 marzo 2016, il Commissario provvide quindi a depositare una relazione riguardante gli atti posti in essere, avverso la quale la Regione propose a sua volta reclamo ai sensi dell’art. 114, comma 6, cit..
4.1. Con sentenza del 26 ottobre 2017, n. 4952, il Consiglio di Stato dichiarò la nullità della nota trasmessa dal Commissario, chiarendo che quest’ultimo non doveva provvedere direttamente alla liquidazione delle somme dovute, ma doveva limitarsi a fissare le relative tariffe ed a calcolare l’importo complessivo spettante a ciascuna casa di cura; precisò che l’inosservanza dell’iter previsto dal giudicato amministrativo comprendeva il profilo riguardante le modalità applicative delle leggi regionali 21 maggio 2002, n. 7 e 9 agosto 2006, n. 26 e della Delib. Giunta regionale 3 ottobre 2006, n. 1464 e l’inapplicabilità del c.d. piano di rientro, aggiungendo che al Commissario spettava anche il compito di disporre in ordine agli accessori monetari.
5. Tali principi furono ribaditi dalla successiva sentenza del 4 settembre 2018, n. 5180, con cui il Consiglio di Stato, su nuovo reclamo della Regione, dichiarò nulle le note emesse il 15 gennaio 2018 dal Commissario ad acta, rilevando che lo stesso si era limitato a richiamare le tariffe relative all’anno 2010 ed a recepire le autocertificazioni trasmesse dalle creditrici, senza procedere alla determinazione delle tariffe relative alle prestazioni non tariffate; ribadì in proposito che al Commissario spettava il compito di a) calcolare una tariffa certa da attribuire ad ogni DRG non coperto da precedenti remunerazioni, b) provvedere alla definizione dell’importo complessivo spettante a ciascuna casa di cura, e c) far luogo all’indicazione analitica del numero delle prestazioni effettivamente erogate nell’anno 2010, facendo riferimento esclusivamente ai ricoveri registrati nel Sistema Informativo regionale.
6. A tali adempimenti il Commissario ha provveduto con nota del 16 maggio 2019, avverso la quale le Case di cura hanno proposto a loro volta reclamo, rigettato dal Consiglio di Stato con sentenza del 5 giugno 2020.
Premesso che il Commissario si è correttamente attenuto alle indicazioni risultanti dalla sentenza n. 5180/18, individuando una tariffa attraverso l’aggiornamento delle modalità applicative delle norme richiamate, in misura idonea a remunerare contestualmente la prestazione, la protesi e l’impianto, ed applicando la tariffa relativa all’anno 2010 alle prestazioni effettivamente rese dalle Case di cura in quell’anno, nel rispetto dell’intangibilità del tetto di spesa all’epoca vigente, il Consiglio di Stato ha affermato che il dato dell’omnicomprensività della remunerazione non può essere rimesso in discussione, osservando che il Commissario ha individuato la misura congrua sulla base di un parametro obiettivo, conforme alle indicazioni fornite dall’ultima sentenza resa in sede di ottemperanza, e concludendo per l’inammissibilità delle argomentazioni svolte dalle reclamanti, in quanto riflettenti non già l’errata applicazione della predetta sentenza, ma profili di criticità di quest’ultima, in relazione al giudicato formatosi in sede di cognizione.
Quanto infine agli accessori del credito, ha rilevato che le reclamanti non hanno contestato l’affermazione della Regione, secondo cui non risultavano prestazioni erogate nell’anno 2010 e non rimborsate, ma si sono limitate a mettere in discussione la decorrenza degl’interessi, osservando che gli stessi non erano dovuti, in quanto il ritardo nel pagamento delle prestazioni era stato determinato da una causa non imputabile alla debitrice, trattandosi di debito non esigibile fino al momento della determinazione da parte del Commissario ad acta.
7. Avverso la predetta sentenza le Case di cura hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, illustrato anche con memoria. La Regione ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria. Il Ministero della salute non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Premesso che il giudicato formatosi in sede di cognizione non può essere rimesso in discussione dalle decisioni adottate nel giudizio di ottemperanza, la cui difformità si traduce nell’esercizio di un potere giurisdizionale già esercitato e consumato, oltre che in uno stravolgimento delle norme di rito, le ricorrenti sostengono che la ritenuta legittimità del provvedimento adottato dal Commissario ad acta si pone in contrasto con la sentenza n. 4423/13, nella parte in cui aveva escluso la possibilità di modificare retroattivamente il sistema di remunerazione vigente nell’anno 2010. Aggiungono che tale esclusione era stata ribadita dalla sentenza n. 5180/18, la quale aveva confermato l’applicabilità della disciplina all’epoca vigente, richiamando la sentenza resa in sede di cognizione, nella parte in cui aveva ritenuto violato l’affidamento incolpevole degli operatori sanitari privati, in virtù della reformatio in pejus della predetta disciplina, intervenuta con efficacia retroattiva dopo l’erogazione delle prestazioni ed avente come conseguenza indiretta l’anticipata consumazione dei tetti di spesa precedentemente assegnati. Rilevano che l’intangibilità di questi ultimi era stata a sua volta confermata dalla sentenza n. 3884/14, mentre l’affermazione della necessità di calcolare una tariffa da attribuire ad ogni DRG non coperto da precedenti remunerazioni, contenuta nella sentenza n. 5180/18, atteneva ad altri profili della questione, non essendo riferibile all’anno 2010, per il quale tutti i DRG erano coperti dal precedente sistema di remunerazione.
1.1. Il ricorso è inammissibile.
Com’e’ noto, le decisioni rese dal Consiglio di Stato nel giudizio di ottemperanza non si sottraggono al sindacato spettante alle Sezioni Unite della Corte di cassazione in ordine all’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 8, il cui ambito dev’essere tuttavia individuato, in riferimento ai giudizi in esame, tenendo presente che in sede di ottemperanza è attribuita al Giudice amministrativo una giurisdizione estesa al merito (art. 134, lett. a), cod. proc. amm.), la quale gli consente di procedere, oltre che alla dichiarazione di nullità degli atti compiuti in violazione o in elusione del giudicato (art. 114, comma 4, lett. b), cod. proc. amm.), alla determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o di emanare lo stesso in luogo dell’Amministrazione (lett. a), o ancora di sostituirsi a quest’ultima nominando, ove occorra, un commissario ad acta (lett. d). In quest’ottica, si è affermato che, al fine d’individuare le fattispecie in cui il predetto sindacato è ammissibile, occorre avere riguardo al petitum sostanziale ed alla natura intrinseca della posizione dedotta in giudizio, distinguendo i casi in cui oggetto del ricorso è il modo in cui il potere di ottemperanza è stato esercitato da quelli in cui viene posta in discussione la stessa possibilità, in una determinata situazione, di far ricorso al giudizio di ottemperanza: si è infatti osservato che, mentre gli errori eventualmente imputati al Giudice amministrativo nell’individuazione degli effetti conformativi del giudicato, nella ricostruzione della successiva attività dell’Amministrazione e nell’apprezzamento della conformità della stessa agli obblighi derivanti dal giudicato attengono ai limiti interni della giurisdizione, la contestazione della possibilità di far ricorso al giudizio di ottemperanza, nella situazione considerata, implica la negazione della spettanza al Giudice amministrativo del relativo potere, con la peculiare estensione che lo caratterizza (cfr. Cass., Sez. Un., 17/09/2021, n. 25165; 20/12/2016, n. 26274; 6/09/2013, n. 20565). Si è pertanto concluso che, ove le censure mosse alla decisione adottata in sede di ottemperanza riguardino l’interpretazione del giudicato, l’accertamento del comportamento tenuto dall’Amministrazione e la valutazione di conformità di tale comportamento rispetto a quello che la stessa avrebbe dovuto tenere, gli errori nei quali il Giudice amministrativo sia eventualmente incorso attengono al rispetto dei limiti interni della giurisdizione, e non sono sindacabili da questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 18/06/2018, n. 16016; 30/05/2018, n. 13699; 24/04/2013, n. 10060).
L’applicazione dei predetti principi, costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità, consente di escludere, nella specie, che il vizio denunciato dalle ricorrenti sia riconducibile all’ambito del sindacato spettante a queste Sezioni Unite in sede di ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione: l’addebito mosso al Consiglio di Stato consiste infatti non già nell’aver provveduto in ordine all’ottemperanza in assenza dei relativi presupposti, ovvero nell’aver rifiutato di provvedervi in presenza degli stessi, ma nell’aver ritenuto legittimo il provvedimento a tal fine adottato dal Commissario ad acta, nonostante la difformità dello stesso rispetto alle indicazioni emergenti dalla sentenza pronunciata in sede di cognizione, e quindi, in ultima analisi, di aver erroneamente interpretato il giudicato di cui doveva assicurare l’attuazione. Sostanzialmente non diverso risultava d’altronde il tenore delle critiche mosse all’operato del Commissario ad acta, in ordine alle quali il Consiglio di Stato ha dato atto della conformità del provvedimento da quest’ultimo adottato alla precedente sentenza emessa in sede di ottemperanza, ritenendo preclusa la contestazione dell’interpretazione dalla stessa fornita del giudicato formatosi nel giudizio di cognizione. A tal fine, il Giudice amministrativo ha posto anzi a confronto il provvedimento non solo con la sentenza n. 5180/18, invocata dalle ricorrenti, ma anche con la precedente n. 4952/17, anch’essa pronunciata in sede di ottemperanza, rilevando che il Commissario aveva provveduto al calcolo della tariffa da applicare ai DRG non coperti da precedenti remunerazioni mediante l’aggiornamento delle modalità applicative della L.R. n. 7 del 2002 e L.R. n. 26 del 2006 e nel rispetto dell’intangibilità del tetto di spesa fissato per l’anno 2010, e ritenendo per un verso non arbitrario il criterio utilizzato, e per altro verso non contestabile l’omnicomprensività della remunerazione. In quanto riguardante l’idoneità dell’operato del Commissario ad acta a dare corretta attuazione al dictum della sentenza n. 4423/13, così come ricostruito nel giudizio di ottemperanza dalle sentenze n. 4952/17 e n. 5180/18, tale valutazione, al pari dell’interpretazione del giudicato fornita dalle precedenti sentenze, non può costituire oggetto di sindacato da parte di questa Corte, non comportando in alcun caso un travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, ma potendo al più tradursi in un error in judicando, incidente sul modo in cui la giurisdizione è stata in concreto esercitata, e quindi sottratto al controllo del Giudice di legittimità in sede di ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione. In questa prospettiva, la stessa insistenza delle ricorrenti sulla violazione dell’affidamento incolpevole da esse riposto in ordine all’operatività delle tariffe previgenti, del quale la sentenza n. 4423/13 aveva accertato la lesione per effetto congiunto dell’introduzione del nuovo regime tariffario alla fine dell’anno 2010 e della previsione dell’applicabilità dello stesso con decorrenza dall’inizio del medesimo anno, viene a configurarsi come un estremo tentativo di sollecitare un riesame dell’apprezzamento compiuto dal Giudice amministrativo, non consentito, in quanto attinente al rispetto da parte di quest’ultimo dei limiti interni della propria giurisdizione.
2. La spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022