LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3207/2017 proposto da:
S.E., B.M., elettivamente domiciliati in San Donato Milanese (MI) via Bruxelles 2H, presso lo studio dell’avv.to PAOLO SORLINI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
C.C., D.G., elettivamente domiciliate in Lodi, via XX settembre n. 12, presso lo studio dell’avv.to VINCENZO NEGRI, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2702/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 29/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2021 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Lodi nella causa promossa da D.G. e C.C. nei confronti di B.M. ed S.E., respinta l’eccezione pregiudiziale di carenza di giurisdizione sollevata dei convenuti, accoglieva la domanda risolutoria di parte attrice, dichiarando la risoluzione del contratto del 27 maggio 2009 per grave inadempimento dei convenuti, e per l’effetto li condannava alla restituzione della somma di Euro 15.000. Il Tribunale respingeva la domanda riconvenzionale di questi ultimi, così come le ulteriori domande proposte dagli attori.
2. B.M. ed S.E. proponevano appello avverso la suddetta sentenza.
3. D.G. e C.C. resistevano, formulando anche appello incidentale con richiesta di restituzione dell’ulteriore somma di Euro 9372.
4. La Corte d’Appello ricostruiva la vicenda oggetto del giudizio, evidenziando che D.G. e C.C. avevano stipulato un contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto un appartamento sito in ***** di proprietà di B.M. ed S.E., nonché di un box autorimessa. Il prezzo della vendita era stato convenuto in Euro 220.000, di cui 15.000 a titolo di caparra confirmatoria e 205.000 al momento del definitivo.
Gli acquirenti D. e C. più volte avevano sollecitato la stipula del definitivo ma i promittenti venditori non si erano presentati all’appuntamento presso il notaio. Gli attori, pertanto, in un primo momento chiedevano ex art. 2932 c.c., la pronuncia sostitutiva del definitivo, e successivamente, nelle more del giudizio, costretti al rilascio dell’immobile, chiedevano la risoluzione del contratto.
La Corte d’Appello di Milano rigettava sia l’appello principale che quella incidentale. Quanto al primo motivo, relativo alla carenza di giurisdizione fondata sull’esistenza di una clausola arbitrale nel preliminare sottoscritto dalle parti, la Corte d’Appello evidenziava che la clausola arbitrale era limitata alle controversie aventi ad oggetto l’interpretazione della scrittura mentre nella specie, come aveva già evidenziato il giudice di prime cure, la causa verteva sull’esecuzione del contratto. Inoltre, i promittenti venditori convenuti in giudizio avevano proposto domanda riconvenzionale di risarcimento del danno dimostrando così di aver rinunciato all’eccezione formulata.
Quanto al motivo relativo all’inadempimento degli attori la Corte d’appello evidenziava che nonostante l’infelice formulazione della clausola riguardante il pagamento di Euro 205.000, dal suo tenore letterale si deduceva che, detratta la caparra iniziale da pagarsi al momento del rogito, il residuo prezzo dell’immobile doveva calcolarsi in base ai versamenti mensili e questi, qualora versati, sarebbero stati computati a titolo di ulteriore caparra e poi imputati al saldo.
L’appartamento oggetto del preliminare era già in uso ai promissari acquirenti, in quanto D.G. era dipendente della Banca Popolare di Lodi che gli aveva messo a disposizione l’appartamento e che era titolare del contratto di locazione. Secondo la Corte d’Appello doveva confermarsi quanto statuito dal Tribunale circa il fatto che la banca datrice di lavoro e conduttrice formale dell’immobile, nonostante l’invito degli appellati a non pagare più somme, aveva comunque sempre regolarmente versato la somma di Euro 937,27 ai ricorrenti. In tal senso, la Corte d’Appello citava le dichiarazioni della teste F., sicché, anche volendo seguire l’interpretazione in virtù della quale i canoni dovevano essere imputati a caparra da pagarsi mensilmente fino alla stipula del definitivo, l’inadempimento della banca si era ridotto solo a due mesi.
Successivamente la banca aveva continuato a trattenere le somme dovute sullo stipendio del dipendente e a versarle al promittente venditore.
Di conseguenza l’inadempimento al pagamento da parte degli appellati-acquirenti non integrava gli estremi dell’inadempimento grave o di non scarsa importanza. Gli acquirenti, peraltro, avevano manifestato la volontà di procedere all’acquisto dell’immobile in più occasioni, convocando i promittenti venditori dal notaio per la stipula del definitivo. Questi ultimi si erano espressamente rifiutati di addivenire alla stipula del contratto definitivo, vedi lettera del 19 novembre 2009, ed avevano stipulato con un altro soggetto un altro contratto preliminare di vendita ad un prezzo sensibilmente più alto. Era evidente che l’inadempimento dei promittenti venditori giustificava la domanda risolutoria degli attori che pacificamente poteva essere proposta in corso di causa da chi aveva chiesto l’esecuzione in forma specifica del preliminare.
Il giudice di primo grado aveva correttamente condannato gli appellanti a restituire la somma di Euro 15.000 versata a titolo di caparra confirmatoria applicando l’art. 1385 c.c., in caso di richiesta di risoluzione e non di recesso. La pronuncia di risoluzione per fatto e colpa degli appellanti giustificava la condanna degli stessi alla rifusione delle spese processuali. L’appello incidentale sulle somme ulteriori versate a titolo di caparra doveva rigettarsi in quanto le stesse trovavano titolo nel contratto di locazione e, in ogni caso, erano state imputate come acconto sul prezzo e non come caparra.
5. B.M. e S.E. hanno proposto ricorso per cassazione sulla scorta di tre motivi.
6. D.G. e C.C. hanno resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 808 c.c., per violazione delle norme sulla giurisdizione e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
La censura attiene alla statuizione della Corte d’Appello di rigetto dell’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario in virtù della clausola arbitrale inserita nel contratto preliminare. La motivazione del rigetto della Corte d’Appello sarebbe totalmente insufficiente, fondandosi solo sulla presunta diversità di oggetto della domanda attinente all’esecuzione del contratto e non alla sua interpretazione e alla giurisprudenza, peraltro citata erroneamente, secondo la quale in presenza della domanda riconvenzionale l’eccezione di incompetenza per la clausola compromissoria deve intendersi rinunciata.
I ricorrenti riportano il testo della clausola compromissoria prevista dal contratto che è del seguente tenore: ogni controversia in ordine all’interpretazione di detta scrittura verrà risolta da un arbitro nominato dal presidente del Tribunale di Lodi.
A parere dei ricorrenti non si può distinguere il momento dell’interpretazione da quello dell’esecuzione e, comunque, il momento di interpretazione nel caso di specie sarebbe assorbente rispetto a quello dell’esecuzione. Inoltre, l’interpretazione data dalla Corte d’Appello della clausola sarebbe in violazione dei canoni ermeneutici e dell’art. 808 quater, secondo cui la convenzione d’arbitrato deve interpretarsi nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie derivanti dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce.
1.2 Il primo motivo di ricorso è fondato e il suo accoglimento determina l’assorbimento dei restanti motivi.
Le Sezioni Unite hanno stabilito il principio secondo cui l’attività
degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla L. 5 gennaio 1994, n. 5 e dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza (Cass., sez. un., n. 24153/2013).
Nel caso di specie oggetto della controversia è la domanda di risoluzione per inadempimento dei promittenti venditori con conseguente diritto al risarcimento del danno. Tale domanda implica necessariamente l’interpretazione della clausola contrattuale avente ad oggetto le somme che i promissari acquirenti si sono obbligati a versare ai promittenti venditori per il godimento del bene promesso in vendita e, in particolare, se le stesse debbano essere computate anche a titolo aggiuntivo di caparra e di saldo prezzo.
D’altra parte, la stessa sentenza impugnata, contraddittoriamente con l’affermazione iniziale, fonda la sua decisione di risoluzione del contratto per inadempimento dei promittenti venditori sull’interpretazione della suddetta clausola contrattuale. Infatti, con riferimento all’inadempimento, la Corte d’Appello di Milano ha evidenziato che nonostante l’infelice formulazione della clausola riguardante il pagamento di Euro 205.000, dal suo tenore letterale si deduceva che, detratta la caparra iniziale da pagarsi al momento del rogito, il residuo prezzo dell’immobile doveva calcolarsi in base ai versamenti mensili e questi qualora versati sarebbero stati computati a titolo di ulteriore caparra e poi imputati al saldo.
L’oggetto della domanda degli originari attori, pertanto, rientra pienamente nell’ambito delle controversie che le parti al momento della stipula del preliminare hanno devoluto alla competenza arbitrale. Come si è detto, infatti, la clausola compromissoria, demanda ad un arbitro nominato dal Presidente del Tribunale di Lodi ogni controversia in ordine all’interpretazione del contratto.
Anche la censura relativa alla seconda ratio decidendi della sentenza impugnata è fondata. La Corte d’Appello, infatti, ha ritenuto implicitamente rinunciata la volontà di avvalersi della clausola compromissoria avendo i convenuti proposto anche domanda riconvenzionale.
In proposito il Collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: In tema di arbitrato, nel caso di contestuale proposizione dell’eccezione di compromesso e di domanda riconvenzionale, la prima non può considerarsi rinunciata in ragione della formulazione della seconda, in quanto l’esame della domanda riconvenzionale è ontologicamente condizionato al mancato accoglimento dell’eccezione di compromesso, essendo la fondatezza di quest’ultima incompatibile con l’esame della domanda riconvenzionale (Sez. 1, Sent. n. 20139 del 2018).
Tale principio è stato ribadito anche di recente da Sez. 1, Ord. n. 19823 del 2020 secondo cui la condotta processuale della parte convenuta in un giudizio che, dopo aver proposto eccezione di arbitrato, non si limiti a formulare semplici difese ed a sollevare eccezioni in senso proprio, ma proponga una domanda riconvenzionale, non implica alcuna rinuncia all’eccezione formulata. Infatti, anche nel caso di contestuale proposizione dell’eccezione di compromesso e di domanda riconvenzionale, la prima non può considerarsi rinunciata in ragione della formulazione della seconda, in quanto l’esame della domanda riconvenzionale è ontologicamente condizionato al mancato accoglimento dell’eccezione di compromesso, essendo la fondatezza di quest’ultima incompatibile con l’esame della domanda riconvenzionale (Sez. 1, n. 20139 del 2018; Sez. 1, n. 12684 del 2007).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c..
La censura ha ad oggetto la statuizione della Corte d’Appello che ha ritenuto ingiustificato il recesso dei ricorrenti ex art. 1385 c.c., Secondo i ricorrenti, invece, vi era stato un inadempimento delle controparti, in quanto la banca non aveva più versato le somme che dovevano integrare la caparra confirmatoria. La Corte d’Appello avrebbe errato nella valutazione della testimonianza della teste F. che aveva detto che la banca aveva sempre pagato, anche con riferimento al periodo indicato, in quanto tale pagamento era avvenuto in un momento successivo. L’inadempimento dei ricorrenti, peraltro, non sarebbe stato grave e, dunque, non avrebbe potuto giustificare la risoluzione, mentre il recesso avrebbe dovuto ritenersi legittimo.
3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 1337 c.c..
La censura attiene alla qualificazione del comportamento dei ricorrenti come doloso con riferimento alla missiva del 16 giugno 2009 che era stata, invece, originata dal comportamento tenuto dalle controparti che avevano invitato la banca a non versare più le somme previste dal contratto. La Corte d’Appello avrebbe ribadito la sentenza di primo grado senza confrontarsi con le critiche espresse nel motivo di appello.
4. L’accoglimento del primo motivo di ricorso determina l’assorbimento dei restanti due.
5. La Corte accoglie il primo motivo, dichiara assorbiti i restanti due, cassa senza rinvio la sentenza impugnata in applicazione dell’art. 382 c.p.c., comma 3, ultimo inciso.
6. Le spese dell’intero giudizio, sia di merito che di legittimità, seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i restanti due, cassa senza rinvio la sentenza impugnata perché il giudizio non poteva essere proposto e condanna la controricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 3.000,00, quanto al giudizio di primo grado, in Euro 3.500,00, quanto al giudizio di appello, e in Euro 4100,00, più 200 per esborsi, quanto al giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022