LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12770/2016 R.G. proposto da:
M.F., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Paolo Gallo, con domicilio eletto in Roma, Piazza della Libertà n. 10, presso lo studio dell’avv. Francesco Capecci.
– ricorrente –
contro
E.A.S. – ENTE ACQUEDOTTI SICILIANI, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Galioto, con studio in Palermo alla Via Mariano Stabile n. 118/B.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 779/2015, pubblicata in data 25.5.2015.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del giorno 18.11.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.
FATTI DI CAUSA
L’avv. M.F. ha ottenuto l’ingiunzione di pagamento n. 333/2003 nei confronti dell’Ente Acquedotti Siciliani (da ora EAS) per l’importo di Euro 107.460,62, a titolo di compenso per il patrocinio svolto in favore dell’ente in cinque distinti procedimenti civili.
A fondamento della domanda il difensore ha esposto che l’EAS, con Delib. n. 490 del 2001, aveva provvisoriamente riconosciuto un compenso di Euro 350.000,00, versando anche un acconto, mentre, con successiva Delib. n. 436 del 2002, aveva liquidato l’importo finale pari ad Euro 213.696,89, restando debitore per il saldo.
L’EAS ha proposto opposizione, contestando la domanda e chiedendone il rigetto.
L’avv. M. si è costituito in giudizio, proponendo domanda di pagamento dei compensi per l’attività stragiudiziale e per il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, provocato dall’inadempimento.
Acquisita documentazione ed espletata c.t.u., il tribunale ha accolto parzialmente l’opposizione, revocando il decreto ingiuntivo e condannando l’EAS al pagamento di Euro 53.404,22, per le attività giudiziali e di Euro 39.974,00 per l’attività stragiudiziale, compensando le spese processuali, ad eccezione dei compensi del c.t.u., che ha posto a carico dell’avv. M..
La sentenza è stata impugnata da entrambe le parti.
All’esito, la Corte palermitana ha dichiarato inammissibili le domande di pagamento riguardanti l’attività stragiudiziale proposte con la comparsa di costituzione di primo grado, rilevando che il ricorrente si era costituito tardivamente, ed ha respinto anche la domanda monitoria, sostenendo che l’EAS avesse versato l’intera somma spettante al difensore per l’attività giudiziale.
Nel merito ha evidenziato che, date le contestazioni dell’opponente, la parcella non poteva considerarsi vincolante, dovendo l’avv. M. provare il conferimento del mandato professionale e lo svolgimento delle singole prestazioni, non potendosi attribuire alcun compenso per quelle rimaste indimostrate.
Nessun importo poteva inoltre riconoscersi – a titolo di compensi giudiziali – per la causa promossa dall’A.M.A.M. dinanzi al Tribunale di Messina, poiché al difensore non era stata conferita la rappresentanza in giudizio, ma solo un generico incarico di difesa.
Riguardo all’attività stragiudiziale, il giudice distrettuale ha dichiarato l’inammissibilità di tutte le contestazioni sollevate dall’appellante, poiché pertinenti alle domande introdotte tardivamente, ritenendole infondate anche nel merito, sul rilievo che le prestazioni poste in essere dall’Avv. M., quale componente della Commissione nominata dall’EAS con Delib. n. 791 del 1998, per l’esame del contenzioso con il Comune di Messina, erano connesse e complementari all’attività giudiziale, essendo finalizzate a transigere i processi pendenti.
La sentenza ha poi evidenziato che il ricorrente, essendo soccombente, non poteva dolersi della compensazione delle spese processuali di primo grado, né della condanna al pagamento dei compensi del c.t.u., essendo la consulenza finalizzata anche ad accertare la fondatezza della domanda monitoria e a quantificare il giusto compenso.
La cassazione della pronuncia è chiesta dall’avv. M.F. con ricorso in 10 motivi, cui resiste l’EAS con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 1988 c.c., l’omesso esame delle prove e l’omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della causa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5.
Sostiene il ricorrente che l’EAS, con la Delib. n. 436 del 2002, aveva riconosciuto per le attività giudiziali l’importo di Euro 213.969,89, da cui andava dedotto l’acconto già versato.
L’atto impegnava l’ente ed integrava un riconoscimento del debito che rendeva superflua la prova delle singole attività svolte dal difensore.
Il motivo è per più aspetti inammissibile.
La censura – in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 – non riporta, se non che in modo del tutto generico, il contenuto degli atti deliberativi dell’EAS, i quali – essendo denunciata una violazione di legge sostanziale – non sono esaminabili direttamente da questa Corte.
Il motivo neppure indica se e in che fase la sussistenza di un riconoscimento del debito – che è profilo che attiene al merito – sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendo farsi osservare che di tale questione la sentenza non contiene alcuna menzione.
E’ pacifico che il ricorrente per cassazione che proponga una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, né indicata nelle conclusioni epigrafate, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 7048/2016; Cass. 8206/2016).
2. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 167 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.
Il giudice di merito, pur riconoscendo che il valore delle cause in cui era stato prestato il patrocinio era superiore a quello posto a base delle richieste monitorie, avrebbe liquidato un compenso notevolmente inferiore a quanto riconosciuto con Delib. n. 490 del 2002, e ciò benché l’EAS avesse chiesto di liquidare almeno il 50% delle somme richieste.
Non era – perciò – legittima alcuna riduzione in assenza di una specifica contestazione della parcella formulata nell’atto di opposizione Il motivo è infondato.
La censura riproduce in modo parziale le conclusioni assunte dall’ente convenuto nel giudizio di opposizione: l’avvenuta contestazione – sia pur generica – della pretesa appare correttamente apprezzata dalla Corte territoriale, trovando conferma nelle difese richiamate nel controricorso (cfr. pagg. 7-9), con cui l’EAS aveva contestato le singole attività svolte (pag. 3 dell’opposizione) e la spettanza degli importi elencati nella parcella (pagg. 6 dell’opposizione) anche nel prosieguo del giudizio, chiedendo di respingere in toto la domanda monitoria.
Non era necessaria una più analitica contestazione delle singole prestazioni: in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per il pagamento di diritti ed onorari di avvocato o procuratore, la contestazione comunque mossa dell’opponente circa la pretesa fatta valere dall’opposto sulla base della parcella corredata dal parere del Consiglio dell’Ordine può essere anche generica, risultando comunque idonea ad investire il giudice del potere – dovere di dar corso alla verifica della fondatezza della contestazione e, correlativamente, a determinare l’onere probatorio a carico del professionista in ordine all’attività svolta e alla corretta applicazione della tariffa (Cass. 11790/2019; Cass. 230/2016; Cass. 942/1995; Cass. 10150/2003; Cass. 14556/2005).
Peraltro, l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass. 27490/2019; Cass. 4249/2012).
3. Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
La sentenza nulla avrebbe statuito riguardo alla richiesta di liquidazione del compenso con riferimento alla causa di opposizione all’esecuzione della sentenza della Corte d’appello di Messina n. 16/96, benché il ricorrente, riproponendo la domanda, ne avesse chiesto l’accoglimento in appello, senza affatto rinunciare al relativo compenso.
Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, contestando alla Corte di merito di aver omesso di pronunciare sulla richiesta di rimborso della tassa di opinamento della parcella sottoposta all’esame del Consiglio dell’ordine degli avvocati.
I due motivi meritano di essere accolti.
Con riferimento alle prestazioni giudiziale espletate dal difensore, il tribunale aveva riconosciuto il compenso per quattro procedimenti giudiziari, senza nulla statuire per il quinto giudizio (ossia per l’opposizione all’esecuzione della sentenza di secondo grado n. 16/96) per il quale era stato ugualmente richiesto il compenso in fase monitoria) e senza nulla provvedere riguardo alla richiesta di rimborso della tassa di opinamento.
Dalla lettura della sentenza di appello si evince che l’appellante aveva – in via principale – chiesto la conferma del decreto ingiuntivo e, solo in via gradata, aveva elencato gli importi oggetto delle domande riproposte in appello (cfr. pag. 2), concernenti solo le prime quattro cause civili elencate in ricorso (cfr. pag. 2).
Era tuttavia sufficiente la riproposizione della domanda nei termini inizialmente formulati, non occorrendo uno specifico motivo di appello volto a sollevare il vizio di omessa pronuncia sulle restanti domande non definite, stante l’assenza di qualsivoglia motivazione sulla quale costruire la doglianza.
Tale soluzione, consentendo al giudice di appello di decidere sulla domanda non considerata in primo grado, risponde anche ad esigenze di economia e concentrazione processuale, posto che la parte conserverebbe comunque la facoltà di riproporre l’azione in un separato giudizio (Cass. 4388/2016; Cass. 6529/2017).
In definitiva, avendo il ricorrente richiesto – in via principale l’accoglimento delle richieste formulate in sede monitoria, su cui il tribunale non aveva integralmente provveduto, la Corte d’appello era tenuta a pronunciare anche sulla domande non definite in primo grado, nonostante l’assenza di una specifica censura.
4. Il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendo che, per il giudizio di cassazione avverso la sentenza n. 16/1966, il valore posto a fondamento della liquidazione – pari ad Euro 1.139.902,05 – doveva essere maggiorato con l’applicazione degli accessori del credito (rivalutazione ed interessi), che legittimamente potevano esser richiesti in appello, essendo ammissibile la reiterazione della medesima domanda anche in cassazione.
Il motivo è inammissibile.
L’esame della censura non consente di stabilire dove e in che termini la richiesta degli interessi e dei danni maturati dopo la sentenza di primo grado fosse stata introdotta nel gravame e nello stesso giudizio di legittimità (data l’assoluta genericità del richiamo agli atti di tale giudizio), né oggetto della causa fosse un debito di valore o di valuta e se – in tale ultima ipotesi – la domanda degli accessori fosse stata proposta già in primo grado, solo in tal caso potendosi ammettere la richiesta di estendere in appello la condanna anche ai danni e agli interessi successivi ai sensi dell’art. 345 c.p.c. (Cass. 5333/1979; Cass. 8717/1996; Cass. s.u. 1955/1996).
In nessun caso la domanda poteva – invece – essere formulata direttamente in cassazione.
La censura – quindi – si rivela carente del requisito di specificità imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
5. Il sesto motivo denuncia la violazione della disposizioni del D.M. n. 55 del 2014, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la causa promossa dall’Azienda Municipalizzata dell’acquedotto di Messina nei confronti della EAS – nella quale l’avv. M. aveva esercitato il patrocinio, si presentava di straordinaria importanza, avendo comportato anche l’esame di una questione di costituzionalità. La sua soluzione positiva poteva determinare un effetto a cascata su una pluralità di altre controversie, dovendosi tener conto di tali connotazione della lite e liquidare un compenso notevolmente più elevato di quello invece riconosciuto già in primo grado.
Anche tale motivo è inammissibile.
Le ragioni che hanno condotto la Corte a disconoscere che la causa presentasse profili di particolare complessità, tale da giustificare la liquidazione del compenso massimo – o eventuali raddoppi o incrementi – si rinvengono già nella sentenza di primo grado e risultano richiamate in quella di appello, consistendo nel fatto che il giudizio involgeva questioni comuni ad altri contenziosi affidati al medesimo difensore (cfr. sentenza pag. 10).
La stessa questione di costituzionalità della normativa regionale applicabile al caso concreto era stata già risolta con precedenti pronunce (cfr. sentenza pag. 11).
Il relativo apprezzamento – basata sulla serialità del contenzioso e sulla rilevanza e complessità delle questioni esaminate – risulta incensurabile, essendo indubbio che la valutazione della complessità della causa, della gravosità dell’impegno, dei risultati ottenuti e della rilevanza degli interessi coinvolti sia affidata al giudice di merito, con possibilità di sindacare solo eventuali vizi di motivazione.
Non ha inciso sulla quantificazione il fatto che l’avv. M. non fosse stato officiato della rappresentanza in giudizio, affidata ad altro legale, circostanza quest’ultima che ha comportato – del tutto legittimamente – il rigetto della richiesta di compensi per attività giudiziali che il ricorrente non aveva – in realtà – svolto, come correttamente posto in rilievo dal giudice distrettuale.
6. Il settimo motivo denuncia la violazione dell’art. 182 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deducendo che la domanda riconvenzionale di accertamento negativo proposta dall’EAS, diretta ad ottenere che la richiesta di compenso fosse respinta o ridotta in misura significativa, era stata introdotta con l’atto di opposizione, senza che l’ente avesse conferito apposito mandato e senza che fosse stata adottata una specifica deliberazione che autorizzasse la proposizione – sul punto- dell’appello incidentale.
La censura è infondata.
Le difese contenute nell’atto di opposizione si risolvevano nella negazione dei fatti costituiti della pretesa, non integrando il contenuto di una domanda giudiziale.
L’opposizione al decreto ingiuntivo si configura come atto introduttivo di un giudizio ordinario di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’ingiungente opposto, che ha la posizione sostanziale di attore, e delle eccezioni e delle difese fatte valere dall’opponente, che assume la veste sostanziale di convenuto. In tale giudizio incombe quindi al creditore, per la sua veste sostanziale di attore, ogni onere della prova dei fatti a sostegno della propria pretesa, e conseguentemente la contestazione di tali fatti da parte dell’opponente nel corso del giudizio non comporta di per sé la modificazione di alcuna domanda, né la formulazione di un’eccezione in senso sostanziale, ma integra una mera difesa deducibile anche nel corso del giudizio (Cass. 11417/1997; Cass. 4985/2001).
In ogni caso il mandato “ad litem”, anche quando sia conferito in calce alla copia notificata della citazione, attribuisce al difensore la facoltà di proporre tutte le difese che siano comunque ricollegabili con l’originario oggetto della causa, e, quindi, anche la domanda giudiziale, poiché anche quest’ultima resta sempre fondamentalmente connotata dalla funzione difensiva di reazione alla pretesa della controparte (Cass. 10168/2012, con riferimento alla proponibilità delle domande riconvenzionali).
Neppure per l’appello incidentale, occorreva una Delibera che esplicitamente ne autorizzasse la proposizione.
Il difensore dell’appellato – secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale, idonea a dare attuazione ai principi di economia processuale e di tutela del diritto di azione e di difesa della parte stabiliti dagli artt. 24 e 111 Cost. – può proporre appello incidentale in base alla procura regolarmente rilasciatagli: la facoltà di proporre tutte le domande ricollegabili all’interesse dell’assistito e riferibili all’originario oggetto della causa è attribuita al difensore direttamente dall’art. 84 citato codice di rito e non dalla volontà della parte che conferisca la procura, rappresentando tale conferimento non un’attribuzione di poteri, ma semplicemente una scelta ed una designazione (Cass. s.u. 19510/2010; Cass. 17883/2011; Cass. 9463/2013; Cass. 525/2014).
7. L’ottavo motivo deduce la violazione dell’art. 2 della tariffa stragiudiziale allegata al D.M. n. 55 del 2014, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, assumendo che l’attività svolta dal ricorrente per la partecipazione alla commissione nominata dall’EAS per l’esame del contenzioso e per un’eventuale transazione dei giudizi con il Comune di Messina era strettamente funzionale e connessa all’attività processuale, dovendo essere remunerata autonomamente, non trovando un adeguato compenso nelle voci tabellari relative all’attività giudiziale.
Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello, riformando la pronuncia del tribunale, ha dichiarato la tardività della costituzione del ricorrente nel giudizio di opposizione ed inammissibile anche la richiesta dei compensi per l’attività stragiudiziale, avendo la domanda monitoria ad oggetto solo il pagamento per l’attività giudiziale.
Detta statuizione – che, come si dirà, è esente da vizi giuridici rende superfluo esaminare nel merito le richieste del difensore e stabilire se l’attività svolta dal ricorrente quale componente della Commissione appositamente costituita per l’esame del contenzioso e per l’eventuale transazione delle liti con l’amministrazione desse titolo ad un autonomo compenso. Compete comunque al giudice di merito stabilire se l’attività stragiudiziale sia complementare a quella giudiziale e se debba essere autonomamente retribuita, con apprezzamento che pertiene al merito.
8. Il nono motivo deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c., sostenendo che la sentenza, nel dichiarare la tardività della domanda riconvenzionale proposta dal difensore, abbia posto a base della decisioni questioni non sollevate con l’appello, ove la EAS si era limitata a contestare il non corretto computo del termine di costituzione, eccependo che il tribunale non aveva tenuto conto della sospensione feriale. Inoltre, quanto al versamento dell’acconto di Euro 104.112,54, negato dal tribunale, l’EAS aveva chiesto di ridurre il compenso al 50%, riconoscendo implicitamente il mancato pagamento del saldo e solo in appello aveva insistito per il rigetto integrale della richiesta di pagamento, assumendo di aver integralmente pagato il dovuto, proponendo una domanda nuova e perciò inammissibile.
Il motivo è infondato.
L’impugnazione era diretta a far dichiarare l’inammissibilità della domanda relativa alle attività stragiudiziali per effetto della costituzione tardiva dell’opposto nel giudizio di primo grado, in relazione alla data di comparizione fissata nell’atto di opposizione. La Corte d’appello era – quindi – investita dal riesame dell’intera questione, dovendo individuare d’ufficio la norma applicabile al caso concreto e perciò accertare se il rinvio della prima udienza fosse avvenuto ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., comma 4, essendo tale accertamento strettamente funzionale proprio all’accertamento della tardività della domanda.
L’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico.
Nel giudizio di secondo grado, il giudice può riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni giuridiche diverse da quelle svolte nei motivi d’impugnazione (Cass. 9202/2018; Cass. 8604/2017; Cass. 1377/2016).
E’ poi noto che ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (Cass. 12202/2017; Cass. 24783/2018; Cass. 10760/2018).
La richiesta di respingere integralmente la domanda monitoria, formulata in appello, si basava sull’assunto che il credito fosse stato integralmente soddisfatto con il versamento delle somme già incamerate dal difensore. Il pagamento del compenso era fatto rilevabile d’ufficio, deducibile anche in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c. (Cass. 9965/2015; Cass. 6350/2010), dovendo il giudice accertare l’avvenuta estinzione del debito, ove sia provata, anche in anche in assenza di una richiesta da parte del debitore.
Non poteva ravvisarsi alcuna mutatio libelli rispetto alla presunta domanda di accertamento negativo proposta con l’atto di opposizione, con il quale, come già precisato, erano state in realtà sollevate solo mere difese.
9. Il decimo motivo denuncia l’errato calcolo delle spese di lite e dei compensi di c.t.u., osservando che al consulente era stato riconosciuto un importo di Euro 11.451,84, incluso il compenso per la relazione integrativa, che però era stata chiesta dall’EAS. Il parziale accoglimento della domanda avanzata in sede monitoria non giustificava la condanna al pagamento delle spese di c.t.u., risultata utile solo per la pronuncia sull’opposizione proposta dall’EAS.
Il motivo è assorbito, dovendo il giudice del rinvio regolare nuovamente le spese in base all’esito finale della lite.
In conclusione, sono accolti il terzo e il quarto motivo di ricorso, sono respinti il primo, il secondo, il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo, il nono motivo ed è assorbito il decimo.
La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo e il quarto motivo di ricorso, respinge il primo, il secondo, il quinto, il sesto, il settimo, l’ottavo, il nono motivo ed è assorbito il decimo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 18 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022
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