LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20524-2016 proposto da:
B.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato GIOVAN CANDIDO DI GIOIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SANDRO BONELLI;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONELLA PATTERI, SERGIO PREDEN, LUIGI CALIULO;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/07/2016 R.G.N. 750/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello di Firenze, ha dichiarato inammissibile l’appello di B.R. avverso la sentenza del Tribunale di Pistoia che lo aveva condannato a ripetere all’Inps la somma di Euro 125.252,50 a titolo d’indebito accertato con provvedimento del 9 luglio 2012, con cui l’ente aveva proceduto al ricalcolo della pensione di anzianità dallo stesso percepita in relazione al periodo maggio 2006 – dicembre 2009, sussistendo l’intento doloso in capo al percettore alla luce della stessa normativa invocata dal ricorrente, ovverossia la L. n. 88 del 1989, art. 52;
il giudizio d’appello si è concluso con la declaratoria d’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., avendo la Corte territoriale accertato che lo stesso non aveva una ragionevole probabilità di essere accolto per l’inesistenza delle condizioni invocate dal pensionato al fine di sostenere l’irripetibilità dell’indebito da parte dell’Inps;
la sentenza impugnata attesta che il B. aveva percepito il trattamento pensionistico in parola omettendo di comunicare all’Istituto di essere stato rioccupato presso la medesima società “Formificio Romagnolo s.p.a.” con la quale il rapporto di lavoro era cessato il *****; che tale comportamento configurava la fattispecie del dolo omissivo del percettore, per la quale, è sufficiente la consapevolezza dell’insussistenza del diritto, senza che sia necessario un positivo e fraudolento comportamento da parte dell’assicurato;
la cassazione della sentenza è domandata da B.R. sulla base di otto motivi, illustrati da successiva memoria;
l’Inps ha depositato controricorso.
CONSIDERATO
che:
col primo motivo parte ricorrente denuncia “Nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione degli artt. 24,111 Cost., art. 6 CEDU, e artt. 101.2, 112 c.p.c., mancata indicazione di questioni rilevabili d’ufficio – decisione della terza via”;
lamenta che la Corte d’appello non abbia censurato la pronuncia del Tribunale per aver erroneamente ritenuto d’ufficio che l’obbligo di provare i fatti costitutivi del diritto ai ratei di pensione di cui si domandava la restituzione fosse posto a carico del ricorrente, omettendo il contraddittorio delle parti sulla questione controversa;
col secondo motivo lamenta “Nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e cioè dell’art. 1186 c.c., della L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 52, e della L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 13, – Onere probatorio – Limiti e vizio di motivazione”; ritiene che avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina della non ripetibilità dei pagamenti erogati per errore sia ai fini della corretta individuazione del petitum che ai fini della distribuzione degli oneri probatori;
col terzo motivo deduce “Nullità della sentenza per violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., – Nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., – errato apprezzamento degli esiti delle prove documentali – vizio di motivazione”;
lamenta che se fosse stata corretta la valutazione delle prove documentali offerte dalla difesa del ricorrente l’esito del giudizio sarebbe stato a lui favorevole;
col quarto motivo contesta “Nullità della sentenza per violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., – Nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. per altro profilo – onere della prova dell’assenza del dolo dell’assicurato assolto con la produzione documentale relativa alla comunicazione ex D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 97, della nuova assunzione del B. – conoscenza ex lege dell’Inps – Errata e omessa valutazione della prova documentale”;
la prova documentale che non sarebbe stata oggetto di apprezzamento da parte del giudice, riguarda la tempestiva comunicazione, da parte della società datrice, del licenziamento del ricorrente al Centro per l’Impiego di ***** Terme in data *****, che avrebbe fatto venir meno l’addebito di omessa comunicazione della cessazione dell’attività lavorativa a carico del pensionato;
col quinto motivo denuncia “Nullità della sentenza per violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., – Nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per altro profilo – errato apprezzamento degli esiti delle prove documentali – onere della prova dell’assenza del dolo dell’assicurato assolto con altre produzioni documentali relative all’effettiva conoscenza dell’Inps della nova assunzione del B. – omessa errata valutazione delle prove documentali”; la stessa critica formulata nel quarto motivo si estende ad altre prove documentali, quali: la copia dell’estratto previdenziale dal quale si evince che l’Inps era a conoscenza del rapporto di lavoro in essere dal 1.05.2006 in poi; la copia della comunicazione Inps relativa al ricalcolo del trattamento pensionistico e conguagli per i quali l’Inps tiene conto anche del reddito da lavoro dipendente; il motivo conclude che l’errore in cui è incorso l’ente previdenziale non sarebbe addebitatile alla condotta fraudolenta del ricorrente;
col sesto motivo contesta “Nullità della sentenza per violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., – Nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per errato apprezzamento degli esiti delle prove documentali sulla decorrenza del termine annuale per le attività di verifica INPS”; sostiene che l’Istituto sarebbe decaduto dal termine di un anno dalla data di comunicazione di un rapporto di lavoro subordinato per verificare e/o chiedere la restituzione di quanto erroneamente erogato; che da quando la società datrice aveva adempiuto l’obbligo di comunicazione dell’assunzione del ricorrente al centro per l’impiego (2.05.2006) a quando l’Inps aveva emesso il provvedimento di ricalcolo della pensione (5.06.2012) era trascorso più di un anno;
col settimo motivo denuncia “Nullità della sentenza e/o del procedimento per omessa applicazione del principio generale di affidamento sulla pensione provvisoria ed irripetibilità degli indebiti”; il comportamento dell’Inps, che ha erogato la pensione dal 2006, agendo in sede di conguaglio soltanto nel 2012, avrebbe ingenerato un legittimo affidamento sul ricorrente quanto al proprio diritto al trattamento pensionistico in presenza dei requisiti di legge;
con l’ottavo e ultimo motivo deduce “Nullità dell’ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., e/o del procedimento per violazione degli artt. 24, 111, art. 6 CEDU, art. 101.2, 112 e 348 ter c.p.c., -mancata indicazione alle parti della questione d’inammissibilità dell’appello”; la Corte d’appello avrebbe assunto la decisione di inammissibilità senza aver sentito le parti prima ancora di procedere alla trattazione della controversia, in violazione del principio del contraddittorio e di un’effettiva tutela del diritto di difesa;
il primo motivo è inammissibile;
la sentenza impugnata si basa su una doppia ratio decidendi:
1) la questione del mancato raggiungimento della prova circa la spettanza delle somme risulta superflua ai fini della controversia, giacché l’indebito è stato definitivamente accertato, tanto che anche l’appellante ha riconosciuto in giudizio l’errore dell’Inps;
2) il comportamento dell’appellante risulta affetto da dolo omissivo: pertanto sussiste il diritto dell’Inps alla ripetizione dell’indebito;
questa seconda ratio decidendi, che individua l’aspetto dirimente della controversia e che, come vedremo, non è adeguatamente censurata dal ricorrente in questa sede, è da sola sufficiente a reggere la decisione gravata;
in base al principio di diritto affermato da questa Corte, quando una decisione di merito si fondi su distinte e autonome rationes decidendi, ognuna delle quali da sola sufficiente a sorreggerla, il ricorrente in sede di legittimità ha l’onere, a pena d’inammissibilità del ricorso, di impugnarle (fondatamente) tutte, non potendo altrimenti pervenirsi alla cassazione della sentenza. (Cass. n. 10815 del 2019 e Cass. n. 17182 del 2020);
i motivi dal secondo al settimo vanno esaminati congiuntamente poiché si appuntano, anche se sotto profili diversi, sui vari passaggi attraverso cui il giudizio di merito ha riscontrato nel comportamento omissivo dell’odierno ricorrente l’elemento soggettivo del dolo, idoneo a legittimare la richiesta di restituzione dell’indebito previdenziale; i motivi sono infondati;
la Corte d’appello ha affermato che, in costanza di un regime di incumulabilità tra pensione e retribuzione da lavoro subordinato, quale quello oggetto della controversia in esame, l’obbligo di comunicare l’eventuale ripresa del lavoro grava in capo al pensionato; ha quindi affermato che l’espletamento di tale incombente da parte della società datrice al Centro per l’impiego non esonerava lo stesso dall’effettuare a propria comunicazione all’Inps;
quanto alla sussistenza del dolo che legittima la pretesa restitutoria dell’Inps, escludendo di per sé un legittimo affidamento del pensionato che possa dichiararsi meritevole di tutela, la sentenza impugnata ha dato corretta attuazione al principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’elemento intenzionale s’identifica con la semplice consapevolezza dell’effettiva insussistenza del diritto, senza che sia richiesta la dimostrazione che il percettore ha tenuto comportamenti ingannevoli nei confronti dell’ente erogatore; in altri termini, il comportamento omissivo si configura in danno del pensionato anche nel caso di un errore posto in essere dal soggetto erogatore e pur se basato su sua negligenza;
di seguito si richiamano i principi di diritto affermati da questa Corte e rivolti a circoscrivere i confini dell’accertamento della sussistenza della volontà dolosa in capo al pensionato che abbia percepito indebitamente un trattamento previdenziale: “In tema di indebito previdenziale, il dolo dell’assicurato, che consente l’incondizionata ripetibilità delle somme indebitamente corrisposte, è sempre configurabile in presenza di dichiarazioni non conformi al vero, di fatti e comportamenti dell’interessato positivamente indirizzati ad indurre in errore l’ente erogatore, ingenerando una rappresentazione alterata della realtà tale da incidere sulla determinazione volitiva di esso e, quindi, sull’attribuzione della prestazione, senza che rilevi se in via amministrativa l’ente previdenziale abbia adottato provvedimenti che ne presuppongono l’assenza” (così Cass. n. 22081 del 2021); ed ancora: “In tema d’indebito previdenziale, il dolo dell’assicurato, idoneo ad escludere l’applicazione delle norme che limitano la ripetibilità delle somme non dovute, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2033 c.c., pur non potendo presumersi sulla base del semplice silenzio, che di per sé stesso, non ha valore di causa determinante in tutti i casi in cui l’erogazione indebita non sia imputabile al percipiente, è configurabile nelle ipotesi di omessa o incompleta segnalazione di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciute o conoscibili dall’ente competente.”(Cass. n. 8731 del 2019);
nel caso de quo sussiste, inoltre, un profilo d’inammissibilità a carico delle censure, ove è dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.;
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per denunciare la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre prospettare specificamente che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c., (Cass. n. 26769 del 2018);
il principio di diritto sopra richiamato va letto in correlazione con l’altro, secondo cui: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 de 2012, art. 54, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940 del 2017);
appare evidente dalla stessa prospettazione delle censure che il ricorrente non ha inteso contestare una violazione di norme sostanziali o processuali, ma sostenere che il provvedimento gravato abbia mancato di valutare elementi documentali da lui prodotti in giudizio, secondo la deduzione tipica del vizio di motivazione;
l’ottavo motivo è del pari infondato;
a proposito della dichiarazione d’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., la doglianza non inquadra correttamente il significato dell’espressione “sentite le parti” contenuta nel successivo art. 348 ter c.p.c.;
il legislatore, con l’introduzione di una peculiare causa di inammissibilità dell’appello per la ragionevole probabilità che esso non venga accolto, ha voluto attuare un “filtro di inammissibilità” prevedendo che prima di procedere alla trattazione, “sentite le parti”, il giudice possa pronunciarsi per l’inammissibilità dell’appello;
nel pronunciarsi sull’effettivo significato da attribuire all’obbligo di audizione delle parti sancito dalla predetta norma, questa Corte – nell’intento di valorizzare un contesto legislativo ispirato da un chiaro intento deflattivo – ha stabilito che l’obbligo si limita alla preliminare verifica della corretta instaurazione del contraddittorio (cfr., da ultimo, Cass. n. 12887 e n. 10409 del 2020);
in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dell’INPS, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 2.000,00 a titolo di compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’Adunanza Camerale, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022
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