LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. SARRACINO Antonella Filomena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso n. 25197/2016 proposto da:
T.G., (CF. *****), rappresentato e difeso, in virtù
di procura in calce al ricorso per cassazione, dall’avv.to Domenico Lo Polito, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv.to Antonio Florio, in Gallicano nel Lazio, via Pietro Nenni, 10.
– ricorrente –
contro
AZIENDA PROVINCIALE DI COSENZA, in persona del legale rappresentante p.t.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 493/2016 della Corte di Appello di Catanzaro depositata il 19/5/2016, R.G. n. 1796/2013;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25.11.2021 dal Dott. Antonella Filomena Sarracino.
RILEVATO
che:
La Corte di Appello di Catanzaro confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Cosenza aveva respinto la domanda di T.G. volta ad ottenere la reintegra nel posto di lavoro e la corresponsione delle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa, nonché quella formulata – in subordine –
di risarcimento del danno patito per aver fatto legittimo affidamento sulla correttezza della procedura di stabilizzazione in virtù della quale era stato assunto e, quindi, sulla stabilità della sua occupazione lavorativa.
Nel dettaglio, il lavoratore aveva qualificato come licenziamento la determina del 27.11.2009 n. 466 dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza (di seguito ASP) con la quale detto ente aveva risolto il contratto di lavoro con lui stipulato a seguito di procedura di stabilizzazione, in quanto, a seguito di un controllo operato dall’ufficio, era stata riscontrata la carenza del seguente presupposto richiesto per la stabilizzazione: “in servizio a tempo determinato presso l’Azienda che procede alla stabilizzazione, per come stabilito dalla L. n. 296 del 2006, comma 1, comma 529”; sosteneva il ricorrente l’illegittimità di tale determina, sul presupposto che la pubblica amministrazione, nel pubblico impiego privatizzato, non ha alcun potere autoritativo o di supremazia che consenta, in via di autotutela, di annullare un precedente contratto; deduceva di essere stato in servizio presso l’ASP di ***** dal 4.9.2006 al 3.1.2007 e di aver partecipato alla procedura di stabilizzazione dei lavoratori precari, secondo lo specifico bando allegato in atti, che prevedeva requisiti generali e specifici, tra i quali ultimi quelli di cui alla L. n. 296 del 2006, e alla L. n. 244 del 2007; di aver superato la selezione e di essere stato assunto con contratto a tempo indeterminato con la qualifica di autista di autombulanza, stipulato il 15.5.2009, con decorrenza 1.6.2009; di essere stato, infine, “licenziato” con la determina innanzi ricordata.
Rigettato il ricorso in primo grado, per non essere il ricorrente in possesso dei requisiti specifici previsti dal bando per la stabilizzazione, con conseguente legittimità del recesso dell’ASP, il lavoratore proponeva appello in cui censurava la decisione di primo grado ribadendo sia l’arbitrarietà del recesso sia il diritto al risarcimento, risarcimento che gli sarebbe spettato, quand’anche il recesso fosse stato considerato legittimo, in conseguenza dei danni da lui patiti in ragione dell’affidamento incolpevole sull’intervenuta stabilizzazione, che lo aveva indotto a rinunciare ad altre occasioni di lavoro specificamente indicate.
Nella resistenza dell’ASP, la Corte di Appello di Catanzaro confermava integralmente la decisione di primo grado evidenziando che anche la P.A. che agisce in regime di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego e, quindi, con le capacità e i poteri di datore privato, come specifica del T.U. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, può annullare il proprio provvedimento se in contrasto con norme imperative ed inderogabili e che tale determina non costituisce un “atto di imperio”, ma piuttosto un rifiuto di adempiere obbligazioni derivanti da un contratto nullo, fatti salvi gli effetti già prodotti dal contratto ai sensi dell’art. 2126 c.c., ma senza alcun diritto alla prosecuzione del rapporto affetto da radicale ed insanabile nullità; pertanto la Corte territoriale, non avendo T.G. i requisiti prescritti per la stabilizzazione, confermava la nullità del contratto a tempo indeterminato perché in contrasto con norme inderogabili.
A tanto conseguiva, secondo il giudice del gravame, il rigetto anche della domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, non essendo configurabile una responsabilità della P.A. ove l’invalidità del contratto derivi, come nella specie, da norme note alla generalità dei consociati e tali, pertanto, da escludere l’affidamento incolpevole.
Avverso tale sentenza T.G. propone ricorso per cassazione, ritualmente notificato, affidato a due motivi.
L’ASP di Cosenza è rimasta intimata.
CONSIDERATO
che:
1. Il primo motivo lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Nello specifico, il ricorrente assume che nell’atto di appello era chiaramente esplicitato che il ricorso in via cautelare ex art. 700 c.p.c., era stato rigettato dal Tribunale di Cosenza e lamenta che lo stesso magistrato che aveva deciso la domanda cautelare aveva, poi, presieduto il collegio investito dell’appello, mentre avrebbe dovuto astenersi ai sensi dell’art. 51 c.p.c., n. 4.
1.1. Il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità, è infondato.
1.2. E’ inammissibile in quanto la dedotta violazione dell’obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, – peraltro, come di qui a breve si dirà, insussistente nel caso specie – non potrebbe mai inficiare la sentenza emessa, trattandosi di vizio deducibile soltanto mediante istanza di ricusazione.
Infatti, secondo il costante insegnamento di questa S.C., cui si intende dare seguito, l’inosservanza dell’obbligo di astensione determina la nullità del provvedimento solo quando il componente dell’organo giudicante abbia un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella veste di parte dello stesso. Per converso, ogni altra ipotesi di violazione dell’art. 51 c.p.c., assume rilievo solo quale motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell’organo giudicante e sulla validità della decisione. Ne consegue che la mancata proposizione dell’istanza di ricusazione nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di far valere tale vizio in sede d’impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento (in tal senso, Cass. n. 565/2007, Rv. 59376501 e, fra le più recenti, anche Cass. n. 2270/2019, Rv. 65242701, quest’ultima specificamente riferita alla violazione dell’obbligo di astensione di cui all’ art. 51, c.p.c., n. 1).
1.3. Il motivo è altresì infondato in quanto l’obbligo di astensione di cui all’art. 51 c.p.c., n. 4, si configura nella sola ipotesi in cui il giudice abbia partecipato alla decisione di merito in un precedente grado del giudizio: ma nella nozione di “grado del giudizio” non può ricondursi la trattazione della controversia in sede cautelare.
Non è deducibile, infatti, come motivo di nullità della sentenza di appello la circostanza che uno dei componenti del collegio avesse già avuto modo di conoscere i fatti della controversia in sede cautelare, perché l’avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare ante causam neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 326/1997 e ordinanza n. 193/1998), un’ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell’incompatibilità, alla trattazione del merito di causa in un altro grado di giudizio (in tal senso si veda Cass. n. 27924/2018, Rv. 65112301).
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di legge in relazione agli artt. 1346,1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’erronea valutazione degli atti (così in ricorso), per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto il contratto di lavoro affetto da nullità per contrasto con norme imperative ed inderogabili, senza tuttavia indicarle.
Insiste – poi – il ricorrente nel qualificare l’atto di recesso datoriale come arbitrario e illegittimo, vieppiù collocandosi nell’alveo di un rapporto privatistico; deduce, in sostanza, l’intangibilità della procedura e della graduatoria concorsuale approvata in via definitiva, atti che avrebbero dovuto, al più, essere impugnati entro 60 giorni innanzi al TAR o entro 120 giorni con ricorso al Capo dello Stato.
Alla luce di tale dedotta intangibilità della procedura, perenti i termini di cui innanzi, lamenta la violazione dei principi di buona fede e affidamento, dell’art. 8 Cedu, e del procollo 1, art. 1, “Protezione della proprietà”, ritiene che si sia ingenerata la condizione di legittimo affidamento sulla stabilità del rapporto di lavoro, sicché, reiterando quanto già sostenuto in primo ed in secondo grado, insiste nel diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non, per essere stata la condotta tenuta dall’amministrazione nei suoi confronti colpevole e scorretta e comunque tale da aver ingenerato un suo legittimo affidamento. In sintesi, sostiene che la P.A. non può far ricadere sul lavoratore reclutato ed immesso in servizio le conseguenze negative delle sue valutazioni discrezionali.
2.1. Il secondo motivo è inammissibile là dove la – peraltro apodittica – doglianza di erronea valutazione degli atti, lamentata nella rubrica del secondo motivo (pag. 4), si scontra con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che richiede la deduzione dell’omesso esame di un fatto decisivo della controversia che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Per il resto, le censure relative a pretese violazioni o false applicazioni di norme di diritto (nello specifico, quelle sulla nullità di cui agli artt. 1346,1418, c.c.art. 1419 c.c., comma 2), sono infondate.
Le norme sulle procedure di stabilizzazione, come innanzi richiamate, sono imperative, essendo poste a tutela di interessi pubblicistici che trascendono la sfera giuridica dei contraenti.
D’altronde, che si sia in presenza di norme inderogabili si ricava, anche in assenza di una espressa qualificazione in tal senso, dalla valutazione degli interessi in gioco che, nel caso di specie, sicuramente sopravanzano quelli individuali, attenendo all’esigenza di garantire la prevedibilità e uniformità nel reclutamento da parte delle pubbliche amministrazioni anche quando esso avvenga a seguito di procedure di stabilizzazione, in ossequio alle regole di buon andamento ed imparzialità che costituiscono principi di rango costituzionale ineludibili. Tale affermazione si muove, del resto, nel consolidato percorso intrapreso dal giudice di legittimità, che ha ritenuto, quanto alle procedure concorsuali, che la successiva verifica della carenza dei requisiti di ammissione al concorso non può mai impedire alla P.A., tenuta al rispetto della legalità, di recedere dal rapporto di lavoro che risulti affetto nullità, facendo così valere l’assenza di un vincolo contrattuale per violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione, poste a tutela di interessi pubblici alla cui realizzazione deve essere costantemente orientata l’azione amministrativa (in tal senso, cfr. Cass. n. 4057/2021, Rv. 660534-02).
Sulla base di quanto detto, va condivisa la sentenza della Corte di appello che ha ritenuto la nullità del contratto di assunzione, essendo implicito (e qui precisandosi) che la ravvisata violazione di norme imperative va rinvenuta nella violazione della normativa sulla stabilizzazione e, nello specifico, nella incontestata violazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 529, per non godere il lavoratore dei requisiti necessari per la stabilizzazione (“in servizio a tempo determinato presso l’Azienda che procede alla stabilizzazione, per come stabilito dal della L. n. 296 del 2006, comma 529, art. 1).
La legittimità del recesso da parte della P.A., conseguente all’accertata nullità, se esonera dalla valutazione di tutte le altre considerazioni svolte in ricorso che hanno quale presupposto una diversa qualificazione dell’atto datoriale, non elide la necessità di valutare la richiesta di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, formulata dal ricorrente sull’assunto che esso competerebbe comunque quale danno consequenziale alla lesione dell’affidamento.
Parte ricorrente, infatti, prospetta che I’ASP non potrebbe comunque sottrarsi all’obbligo di risarcimento, stante l’affidamento ingenerato con il suo comportamento, contrario ai principi di correttezza e buona fede, e ciò quand’anche si considerasse legittimo il recesso.
L’assunto è infondato.
Va, infatti, esclusa la responsabilità della pubblica amministrazione tutte le volte in cui la nullità del contratto di impiego dipenda dalle violazioni di norme imperative concernenti i requisiti di validità delle assunzioni che si presumono conosciute dalla generalità dei cittadini, perché trattasi di circostanze o presupposti conosciuti o conoscibili mediante l’uso della normale diligenza (in tal senso, cfr. Cass. n. 2316/2020, Rv. 656769-03).
Tale affermazione di principio trova applicazione anche nel caso delle procedure di stabilizzazione, nelle quali l’ordinaria diligenza ben consente a tutti i cives (interessati a dette procedure), con l’utilizzo di una diligenza minima ed ordinaria, di apprezzare l’esistenza dei presupposti previsti, come in questo caso, dalla legge. Il che esclude qualsiasi legittimo affidamento.
Il ricorso va conseguentemente rigettato.
Nulla per le spese, non avendo parte intimata svolto attività difensiva.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso;
nulla per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quarter, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 25 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022
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