Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1133 del 14/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 34623/2019 R.G. proposto da:

ASSOCIAZIONE VILLA SANT’ANDREA, in persona del legale rappresentante p.t. M.M., rappresentata e difesa dagli Avv. Dario Sammartino, Carlo Vermiglio e Nunziello Anastasi, con domicilio eletto in Roma, via Pale-stro, n. 78, presso lo studio dell’Avv. Sebastiano Verga;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CATANIA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Santa Anna Mazzeo dell’Avvocatura municipale, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– controricorrente –

e AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CATANIA, in persona del Direttore generale p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Febo Battaglia, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 974/19, depositata il 2 maggio 2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 novembre 2021 dal Consigliere Dott. Mercolino Guido.

RILEVATO

che l’Associazione Villa Sant’Andrea, gestore di una casa di riposo per anziani non autosufficienti, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 2 maggio 2019, con cui la Corte d’appello di Catania ha rigettato il gravame da essa interposto avverso la sentenza emessa il 20 dicembre 2014 dal Tribunale di Catania, con cui era stata rigettata la domanda, proposta dall’appellante nei confronti del Comune e dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catania, di pagamento dell’integrazione del corrispettivo dovuta per le prestazioni di rilievo sanitario erogate in favore degli anziani con un’invalidità superiore al 74% ricoverati presso la predetta struttura;

che hanno resistito con controricorsi il Comune e l’ASP, che ha depositato anche memoria.

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L.R. Siciliana 6 maggio 1981, n. 87, art. 17, della L.R. 18 maggio 1996, n. 33, art. 59 e della L.R. 9 maggio 1986, n. 22, artt. 14 e 20, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto insufficiente, ai fini del riconoscimento dell’integrazione, la produzione di certificazioni dell’ASP attestanti il grado e la natura della condizione di non autosufficienza dei ricoverati, e per aver richiesto la prova delle particolari esigenze assistenziali di questi ultimi e della avvenuta erogazione delle prestazioni aggiuntive, senza tener conto della natura di tali prestazioni, non aventi un contenuto propriamente sanitario, ma costituenti specificazione di quelle sociali ordinariamente erogate dalle case di riposo in favore dei ricoverati non autosufficienti;

che il motivo è infondato;

che, a fondamento della decisione, la sentenza impugnata ha correttamente richiamato il principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rette di ricovero di persone anziane e non autosufficienti, secondo cui la L.R. n. 87 del 1981, art. 17, comma 2, dispone l’obbligo del comune di integrare i corrispettivi dovuti agli enti gestori di strutture residenziali esclusivamente in presenza di particolari esigenze assistenziali attestate dalla competente ausl, la cui autorizzazione costituisce condizione per il rimborso da parte del fondo sanitario regionale (cfr. Cass., Sez. III, 29/03/2018, n. 7787; 6/07/2006, n. 15350);

che tale principio, pur essendo stato enunciato in riferimento a controversie insorte tra comuni ed ausl per il rimborso degli importi pagati in favore degli enti gestori delle predette strutture, è riferibile anche a quelle riguardanti il pagamento degl’importi dovuti a questi ultimi a titolo d’integrazione prevista dalla predetta disposizione, dovendosi escludere che, come sostiene la ricorrente, il riconoscimento di tali importi sia subordinato esclusivamente alla prova del grado e della natura della condizione di non autosufficienza degli assistiti ricoverati;

che la citata L.R. n. 87 del 1981, art. 17, comma 2, nel consentire il riconoscimento delle predette integrazioni, in relazione a particolari esigenze assistenziali di singoli anziani per la loro condizione di non autosufficienza, fa esplicito riferimento alla necessità di “trattamenti differenziati” rispetto ai servizi ordinariamente resi dalle case di riposo ai sensi della medesima L.R. n. 87 del 1981, artt. 3 e 4, prevedendo che l’integrazione possa essere concessa non già in misura fissa ed uguale per tutti gli assistiti, bensì “proporzionalmente al grado d’invalidità e fino ad un massimo del 100%” della retta giornaliera;

che la L.R. n. 33 del 1996, art. 59, nel porre l’integrazione a carico del Fondo sanitario regionale, precisa che la stessa è “preordinata al rimborso degli oneri dell’attività socio-assistenziale di rilievo sanitario, in applicazione del D.P.C.M. 8 agosto 1985”, in tal modo escludendo la possibilità di ricollegarne il riconoscimento alla prestazione delle medesime attività ordinariamente svolte in favore dell’assistito non autosufficiente;

che tale differenziazione trova conferma nella disciplina dettata dal predetto D.P.C.M., il quale, nell’individuare il contenuto delle prestazioni di rilievo sanitario, le definisce come “le attività che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio-assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti” (art. 1), precisando da un lato che non vi rientrano “le attività direttamente ed esclusivamente socio-assistenziali, comunque estrinsecantisi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute del cittadino”, ed in particolare “i ricoveri in strutture protette extra-ospedaliere meramente sostitutivi, sia pure temporaneamente, dell’assistenza familiare” (art. 2), dall’altro che vi rientrano “i ricoveri in strutture protette, comunque denominate, sempre che le stesse svolgano le attività di cui all’art. 1” e che le prestazioni in esse erogate siano dirette, in via esclusiva o prevalente, tra l’altro, “alla cura degli anziani, limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio” (art. 6);

che, alla stregua di tali precisazioni, non può condividersi la tesi sostenuta dalla ricorrente, anche attraverso il richiamo ad un precedente della giurisprudenza amministrativa, secondo cui il trattamento differenziato richiesto dalla L.R. n. 87 del 1981, art. 17, comma 2, ai fini della concessione dell’integrazione non postula necessariamente la sussistenza di patologie acute o subacute, in aggiunta al complessivo stato di non autosufficienza, potendo consistere anche nella diversa connotazione che le attività di assistenza ordinariamente elementari sono destinate ad assumere nel caso in cui il disabile sia affetto da un importante grado di non autosufficienza (cfr. Cons. giust. amm. Reg. Sic., 11/10/2018, n. 555);

che deve invece trattarsi di prestazioni specificamente correlate alla natura delle menomazioni da cui l’assistito risulti affetto (così come attestate, ai sensi della L.R. n. 33 del 1996, art. 59, comma 2, dalla certificazione sulla base della quale è stato emesso il provvedimento di autorizzazione al ricovero), in tal senso deponendo non solo il “rilievo sanitario” che deve necessariamente contraddistinguerle, ma anche il carattere strumentale rispetto all’attività sanitaria propriamente detta, la prescritta diversità dalla mera assistenza sostitutiva di quella familiare prestata presso strutture extraospedaliere e la preordinazione alla cura di stati morbosi, cioè di patologie tali da richiedere specifiche forme di assistenza, non rientranti tra quelle ordinariamente collegate al difetto di autosufficienza dell’anziano;

che, diversamente opinando, non si comprenderebbe infatti il motivo per cui la legge richiede, ai fini del riconoscimento dell’integrazione, l’attestazione non solo del grado di non autosufficienza, ma anche della natura della stessa, cioè del tipo di menomazione e della causa da cui dipende, né il motivo per cui l’integrazione non è prevista in misura pari al corrispettivo delle prestazioni di rilievo sanitario rese dalla struttura, ma in proporzione al grado di non autosufficienza dell’assistito e comunque non superiore al 100% della retta giornaliera;

che il predetto criterio di proporzionalità non può ritenersi d’altronde soddisfatto dalla mera fissazione di una percentuale minima di non autosufficienza, al di sotto della quale l’integrazione non è riconosciuta, come si evince dall’art. 16 dello schema di convenzione per la gestione delle case di riposo per anziani approvato con decreto del Presidente della Regione siciliana 4 giugno 1996, n. 158, il quale, oltre a richiedere una condizione di non autosufficienza non inferiore al 74%, dispone che l’integrazione dev’essere proporzionata al grado di non autosufficienza e non deve eccedere il limite massimo del 100% della retta giornaliera;

che deve pertanto condividersi il richiamo della sentenza impugnata alla affermazione, contenuta in un precedente di questa Corte anch’esso relativo ad una controversia concernente il rimborso degl’importi corrisposti dal Comune a titolo d’integrazione, secondo cui l’immediata notifica del ricovero alla ausl, prescritta dalla L.R. n. 33 del 1996, art. 59, trova giustificazione “in funzione dei compiti di valutazione dei relativi presupposti – riferiti a particolari esigenze di singoli anziani -, nonché delle condizioni e del grado di non autosufficienza – che non necessariamente coincide col grado d’invalidità civile -, compiti che sono rimessi alle attribuzioni dell’Azienda sanitaria, competente a stabilire la necessità di interventi sanitari di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica dell’anziano in modo da discriminare tale componente da quella propria assistenziale, anche ai fini della ripartizione dei relativi costi” (cfr. Cass., Sez. I, 13/04/2017, n. 9565);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 189,323,345 e 346 c.p.c. e dell’art. 2721 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibile il motivo di gravame concernente la mancata ammissione della prova testimoniale dedotta a sostegno dell’avvenuta erogazione delle prestazioni, a causa della mancata reiterazione della relativa istanza all’udienza di precisazione delle conclusioni, senza considerare che la sentenza di primo grado si era ugualmente pronunciata al riguardo;

che il motivo è infondato;

che l’impugnazione della decisione di primo grado, nella parte in cui ha pronunciato sul merito delle istanze istruttorie formulate dalle parti, comportando la riapertura del dibattito processuale in ordine alle stesse, consente infatti di escludere la formazione di un giudicato implicito in ordine alla loro ammissibilità, idoneo ad impedire il rilievo di eventuali preclusioni da parte del giudice del gravame, il quale, nuovamente investito dell’intera questione concernente l’ammissione delle prove dedotte, può ben rilevarne l’inammissibilità, non dichiarata dal giudice di primo grado;

che non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, rilevato che l’istanza di ammissione della prova testimoniale tempestivamente formulata dalla ricorrente nel corso del giudizio di primo grado non era stata reiterata all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’ha ritenuta abbandonata, ed ha pertanto dichiarato inammissibile il motivo di gravame concernente il mancato accoglimento della medesima istanza da parte del giudice di primo grado;

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge in favore dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catania, ed in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge in favore del Comune di Catania.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022

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