LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2713-2021 proposto da:
C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALFREDO FUSCO, 104, presso lo studio dell’avvocato FLAMINIA C., che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ***** SPA R.G. N. 7983/1999, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI GRAVINA DI RAMACCA;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, depositata il 22/12/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. Pazzi Alberto.
RILEVATO
che:
1. A seguito del reclamo proposto ex art. 26 L. fall. dall’Avv. C.A. avverso il decreto con cui il giudice delegato al fallimento n. 7983/1999 aveva determinato il suo compenso per l’attività professionale svolta a favore della procedura, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rilevava la correttezza della liquidazione compiuta, perché da una parte non erano state indicate le ragioni per le quali doveva essere applicata la voce tariffaria concernente le cause di valore indeterminabile di particolare importanza, dall’altra il carattere seriale dei giudizi patrocinati imponeva la liquidazione di un unico onorario.
Constatava, in accoglimento delle censure mosse dalla curatela, l’avvenuta duplicazione della liquidazione di alcune note di spesa, con un conseguente credito del fallimento di Euro 22.551,88.
Rilevava, inoltre, l’errato calcolo dell’acconto versato, computato al lordo invece che al netto degli accessori, con una differenza di Euro 20.890,67 a credito dell’Avv. C..
Disponeva, infine, “in accoglimento della domanda riconvenzionale”, la compensazione di quest’ultima somma, su cui si sarebbe dovuto computare l’importo delle spese generali, con quanto dovuto al fallimento, compensando le spese di lite.
2. Per la cassazione di tale ordinanza (rectius decreto) ha proposto ricorso l’Avv. C.A. prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il fallimento ***** s.p.a..
Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..
CONSIDERATO
che:
3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 26 L. fall., in quanto il decreto di liquidazione adottato dal giudice delegato non poteva essere oggetto di revisione attraverso la domanda riconvenzionale proposta dalla curatela, ma soltanto tramite un tempestivo e rituale reclamo.
4. Il motivo non è fondato.
4.1 Il provvedimento impugnato registra che la controversia portata all’esame del collegio del reclamo riguardava un’attività professionale relativa a giudizi seriali per la quale il collegio di merito ha ritenuto corretta la liquidazione di un unico onorario.
Trattandosi, quindi, di un unico rapporto professionale svolto dal legale in favore della procedura, le rispettive voci di debito-credito non rimanevano regolate dall’istituto della compensazione di cui agli artt. 1241 e s.s. c.c., ma si doveva operare una valutazione delle reciproche pretese attraverso un semplice accertamento contabile di dare ed avere.
4.2 Si deve escludere che un simile accertamento rimanesse precluso dalla mancanza di una tempestiva impugnazione.
La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, con riferimento alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 (applicabile, ratione tempo-, anche al caso di specie), che anche a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (tramite le sentenze n. 42/1981, 303/1985, 55/1986) l’istituto del reclamo endofal l imentare contro i decreti del giudice delegato ex art. 26 L. fall. sia rimasto in vigore secondo una disciplina costituzionalizzata generale da individuarsi, in relazione a provvedimenti con contenuto decisorio, in quella di cui agli artt. 737 e s.s. c.p.c. (Cass. 5675/1998).
Nelle procedure camerali trovano poi piena applicazione i principi del processo di cognizione relativi all’onere dell’impugnazione ed alla conseguente delimitazione dell’ambito del riesame da parte del giudice di secondo grado alle questioni a lui devolute con i motivi di gravame. Rientra nel novero di questi principi il disposto dell’art. 334 c.p.c., comma 1 (a mente del quale la parte nei cui confronti sia stata proposta impugnazione può, a sua volta, impugnare la sentenza nonostante il decorso del termine di gravame – tramite una cd. “impugnazione tardiva”, investendo qualsiasi capo della pronuncia), sicché non si è mai dubitato dell’ammissibilità delle impugnazioni incidentali tardive anche nei giudizi camerali aventi ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinati a concludersi con provvedimenti di carattere decisorio (Cass., Sez. U., 13617/2012, Cass. 8654/1998).
Peraltro, il rito camerale, come, da un lato, non preclude la proponibilità dell’appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l’esperimento del gravame in via principale, così, dall’altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dall’art. 343 c.p.c., comma 1, dal momento che il principio del contraddittorio viene rispettato per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest’ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante l’organizzazione di una tempestiva difesa tecnica, da svolgere sia in sede di udienza camerale sia nel corso del procedimento (Cass. 1179/2006, Cass. n. 14965/2007, Cass. 27775/2008).
Ne discende che, qualora il primo provvedimento venga tempestivamente investito di reclamo ad opera di una delle parti, la controparte è abilitata ad introdurre specifiche istanze di riesame e di riforma del provvedimento stesso per ragioni diverse e contrapposte, senza essere tenuta a rispettare uno specifico termine e con atto scritto formale da depositare, al più tardi, alla prima udienza (Cass. 6011/2003, Cass. 7696/2005).
Non è possibile, quindi, porre in dubbio la tempestività della “domanda riconvenzionale” (rectius impugnazione tardiva) effettuata dalla procedura fallimentare, dato che la stessa fu presentata (il 14 ottobre 2020, come dà atto lo stesso ricorso a pag. 3) in epoca anteriore alla prima udienza (che era stata procrastinata dalla data del 7 ottobre 2020, inizialmente fissata, al 21 ottobre 2020).
5. Il secondo motivo di ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso fra le parti, perché il Tribunale non ha reso alcuna motivazione rispetto all’eccezione di inammissibilità e improponibilità della richiesta formulata dal fallimento in riconvenzione.
Nulla, inoltre, è stato dedotto e motivato con riferimento agli asseriti errori di duplicazione, affatto esistenti, giacché l’unico argomento utilizzato non forniva alcun elemento idoneo a comprendere l’iter logico sotteso alla decisione assunta 6. Il motivo risulta, nel suo complesso, inammissibile.
6.1 L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel suo attuale testo riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nozione da intendersi come riferita a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico e non ricomprendente questioni o argomentazioni, dovendosi di conseguenza ritenere inammissibili le censure irritualmente formulate che estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. 21152/2014, Cass. 14802/2017).
Non risulta perciò censurabile sotto il profilo dedotto la mancata valutazione delle eccezioni di inammissibilità e improponibilità delle richieste formulate dal fallimento.
6.2 La motivazione che il giudice deve offrire, a mente dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, costituisce in linea generale la rappresentazione dell’iter logico-intellettivo seguito per arrivare alla decisione, di modo che la stessa assume i caratteri dell’apparenza ove sia intrinsecamente inidonea ad assolvere una simile funzione.
Peraltro, la motivazione del decreto, ove necessaria come nel caso di specie, non dev’essere ampia come quella della sentenza, né succinta, come quella dell’ordinanza, ma può ben essere sommaria, nel senso che il giudice, senza ritrascriverli nel decreto, può limitarsi a indicare quali elementi, tra quelli indicati nell’istanza che lo ha sollecitato, lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento richiesto, essendo comunque tenuto, in ottemperanza all’obbligo di motivazione impostogli dall’art. 111 Cost., comma 6, a dar prova, anche per implicito, di aver considerato tutta la materia controversa (Cass. 16856/2017, Cass. 21800/2013, Cass. 14390/2005).
Inoltre, la valutazione dell’adeguatezza della motivazione deve tenere conto delle intere ragioni offerte dal giudice di merito e non solo di una parte di esse.
Nel caso di specie il Tribunale non si è limitato a sostenere che “appare evidente che alcune procedure siano state conteggiate due volte”, come assume il ricorrente, ma ha premesso che “meritevoli di accoglimento appaiono invece le censure mosse dalla curatela con riferimento alla duplicazione di alcune note di spesa” ed ha poi espressamente indicato il numero delle note spese che erano state oggetto di duplicazione.
Si tratta di un’esplicita condivisione dei rilievi difensivi della procedura, che dunque integrano le ragioni offerte dal collegio del reclamo e concorrono a illustrare le ragioni su cui la statuizione si fonda, a cui fa seguito una specifica indicazione delle note spese a cui simili principi trovavano applicazione.
Sul punto la critica non è congruente con l’intera motivazione della statuizione impugnata e risulta, per tal motivo, inammissibile.
7. Il terzo motivo si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., dato che la compensazione delle spese di lite era stata pronunciata senza essere accompagnata da alcuna giustificazione; né la statuizione avrebbe potuto trovare giustificazione nell’accoglimento tanto del reclamo quanto della riconvenzionale, giacché quest’ultima avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile.
8. Il motivo è inammissibile.
In realtà il decreto impugnato spiega espressamente che la compensazione delle spese di lite veniva disposta “in virtù della soccombenza reciproca” e dimostra così di voler tenere conto, in funzione dell’applicazione del disposto dell’art. 92 c.p.c., comma 2, della fondatezza delle difese – come detto del tutto ammissibili – della procedura fallimentare concernenti l’esatta regolazione delle reciproche ragioni creditorie.
Anche sotto questo profilo il ricorso manca del carattere di riferibilità alla decisione impugnata e risulta, di conseguenza, inammissibile (Cass. 6587/2017, Cass. 13066/2007).
9. In forza delle ragioni sopra illustrate il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.100, di cui Euro 100 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2022