LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 12100/2015 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
L.D., con l’avv. Oscar Paolo Legnani e con l’avv. Carlo Srubek Tommasy, nel domicilio eletto presso lo studio del secondo, in Roma, alla via Caio Mario, n. 27;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per la Lombardia, sez. di Milano, n. 6298/15/2014, depositata il 2 dicembre 2014.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 ottobre 2021 dal Cons. Marcello Fracanzani;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Mucci Roberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso, per quanto di ragione;
nessuno comparso per le parti, non essendosi presentata istanza di discussione.
FATTI DI CAUSA
La contribuente L.D. era attinta da un avviso di ricevimento emesso dall’Ufficio per trasparenza. Costei era invero stata socia, nella misura dell’80%, della società CDM Servizi s.a.s., nei cui confronti l’Amministrazione finanziaria aveva emesso un precedente avviso di accertamento a rettifica dei redditi dichiarati per il 2005 ai fini delle imposte dirette, divenuto definitivo per mancata impugnazione. Donde l’imputazione pro quota alla contribuente ai sensi dell’art. 5 TUIR del maggior reddito definitivamente accertato a carico della società.
La contribuente insorgeva con ricorso avanti la Commissione tributaria provinciale lamentando di essere una mera “prestanome” del socio effettivo, sig. D.N.C., che non voleva figurare onde non perdere la pensione di invalidità.
La decisione di primo grado, con cui la CTP rigettava il gravame di parte privata, veniva riformata in appello dalla Commissione tributaria regionale.
Ricorre l’Avvocatura generale dello Stato, che invoca la cassazione della sentenza per due motivi, cui resiste la contribuente con tempestivo controricorso e, in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Vengono proposti due motivi di ricorso.
In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., va esaminato con priorità in secondo motivo del ricorso, la cui fondatezza assorbe altre questioni dibattute fra le parti. La causa, infatti, può essere decisa sulla base della questione di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, secondo l’indirizzo espresso da questa Corte: “a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità di giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c.” (Cass., V, n. 22768/2021; Cass. V, n. 363/2019; Cass. n. 11458/2018; Cass. S.U. n. 9936/2014).
Con la seconda doglianza il patrono erariale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 TUIR in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Premette che l’atto impositivo notificato alla contribuente si basava su un precedente avviso di accertamento emesso nei confronti della società che non lo aveva impugnato, sicché l’accertamento, ormai definitivo nei confronti di quest’ultima, spiegava effetti diretti anche nei confronti della socia contribuente. Prosegue precisando che l’art. 5 TUIR opera una imputazione, in capo ai soci, dei maggiori redditi accertati in capo alla società indipendentemente della materiale distribuzione degli utili. Conclude rappresentando l’irrilevanza dell’acquisto delle quote verso la fine del periodo d’imposta, essendo principio acquisito dalla giurisprudenza di questa Corte che risponde come socio colui che era tale alla fine del periodo d’imposta e che, in ogni caso, era irrilevante la sua posizione di “socio fittizio”, essendo improduttivi di effetti ai fini fiscali eventuali accordi tra privati di tale contenuto.
Il motivo non può essere accolto e, anzi, conduce ad una declaratoria di nullità dei precedenti giudizi di merito.
In punto di diritto occorre ricordare che l’art. 5 TUIR è stato oggetto di scrutinio da parte della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 201/2020, ha stabilito che “Tale metodo dell’attribuzione del reddito “per trasparenza” (n.d.r.: ex art. 5 TUIR) – che non è peculiare del nostro sistema impositivo, costituendo un modello per certi versi conosciuto anche negli ordinamenti di altri Paesi – comporta quindi la tassazione IRPEF direttamente in capo ai soci degli utili societari, con imputazione degli stessi per ciascun periodo d’imposta e indipendentemente dalla percezione: assume, così, rilievo il solo fatto della produzione del reddito (con conseguente irrilevanza fiscale della distribuzione degli utili negli esercizi successivi). In base a tale scelta legislativa il presupposto di imposta si realizza, quindi, in capo ai soci e non alla società che, considerata “trasparente”, diventa uno “schermo” dietro il quale i primi esercitano collettivamente un’attività economica. Infatti, “in forza dell’imputazione al socio del reddito di partecipazione pro quota, indipendentemente dall’effettiva percezione, il socio medesimo diventa l’unico soggetto passivo dell’imposta personale, avendo in realtà dichiarato un reddito proprio ancorché il presupposto dell’imposizione si verifichi unitariamente presso l’ente collettivo che lo produce e lo dichiara. Questa diretta imputazione del reddito è la conseguenza logica immediata del principio accolto dal legislatore tributario di “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci che la compongono, per cui non è configurabile una soggettività distinta, separata o disgiunta della società rispetto ai soci. Tale principio costituisce espressione della giuridica irrilevanza della soggettività delle società di persone in campo tributario, considerando il Fisco le società di persone come uno schermo dietro il quale operano i soci con i particolari poteri di direzione, di controllo e di gestione anche se non sono amministratori” (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 2 marzo 1992, n. 2514, sostanzialmente confermata da Cassazione, sezioni unite, sentenza 8 gennaio 1993, n. 125)…(…)… Parimenti non fondata è la questione riferita al diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost., comma 2, in quanto la disciplina censurata provocherebbe, a danno del contribuente, un’ingiustificata limitazione della prova di non avere la capacità di disporre (o la disponibilità materiale) del reddito. Tale censura si fonda sull’assunto dei rimettenti per cui l’art. 5, comma 1, del TUIR strutturerebbe una “presunzione assoluta” di attribuzione al socio di redditi societari, anche se da questo non percepiti. Nemmeno tale assunto è condivisibile. Infatti – mentre vere e proprie presunzioni sono previste dall’art. 5, comma 2 del TUIR in relazione alle quote di partecipazione e al valore dei conferimenti – la previsione del medesimo art. 5, comma 1 nello stabilire che l’imputazione avviene “indipendentemente dalla percezione”, individua un meccanismo d’imputazione di ciò che è stato assunto dal legislatore come reddito prodotto, senza, invece, “presumere” la distribuzione dello stesso. La norma censurata esclude la soggettività passiva tributaria della società di persone e, in tal modo, elimina lo schermo societario imputando direttamente ai soci il reddito prodotto dalla società. Si tratta di una connotazione strutturale dell’ente ai fini tributari e non di una “presunzione” di distribuzione degli utili. La fattispecie in esame, in altre parole, è qualificabile semmai alla stregua di una tipizzazione legale, rispetto alla quale va ribadito che “non ha senso denunciare quale violazione del diritto di difesa l’esclusione della prova”, in quanto “(t)ipizzazioni, qualificazioni, valutazioni legali come quelle suindicate possono bensì essere censurate sotto il profilo della mancanza di ragionevolezza, contestandosi che esse trovino rispondenza nella situazione socio-economica in riferimento alla quale sono formulate ai fini perseguiti dalla legge, o che esse, o le misure sulla base di esse adottate, siano congrue rispetto a tali fini” (sentenza n. 131 del 1991).
L’esercizio del diritto di difesa potrà, peraltro, pienamente esplicarsi contestando nel merito l’accertamento del reddito societario (in questi termini, ordinanza n. 5 del 1998) o la propria qualità di socio, senza che ciò precluda l’accertamento, ad altri fini, della “responsabilità degli amministratori per il danno derivante ai soci” (ordinanza n. 53 del 2001). Va inoltre sottolineato che proprio il meccanismo d’imputazione “per trasparenza” e la tassazione del socio “indipendentemente dalla percezione” del reddito hanno portato la giurisprudenza di legittimità ad affermare il litisconsorzio necessario tra società e soci al fine di consentire, con pienezza di contraddittorio, la verifica in concreto del presupposto impositivo, stante l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci delle stesse, cosicché il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci, salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali” (Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 201/2020).
Tanto premesso, ed in via preliminare, questo Collegio osserva che il contraddittorio non appare integro in virtù del fatto che “E’ infatti principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte – cui si ritiene di dare continuità in questa sede – quello per cui in materia tributaria, l’unitarietà dell’accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5 e dei soci delle stesse e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società, riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali – sicché tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa, a pena di nullità assoluta rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, limitatamente ad alcuni soltanto di essi (v., per tutte, Sezioni Unite n. 14815 del 2008; da ultimo, Cass. Sez. 6- 5, Ordinanza n. 25300 del 28/11/2014 Rv. 633451 -01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7789 del 20/04/2016 Rv. 639568 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16730 del 25/06/2018 Rv. 649377 – 01)” (cfr. Cass., V, n. 17353/2020).
Orbene, nel proprio ricorso il patrono erariale ha dedotto che l’atto impositivo presupposto era stato notificato alla società e che quello diretto alla socia contribuente era stato oggetto di notifica separata e successiva.
Pur dandosi atto che la contribuente, socia accomandante, non era legittimata a ricevere la notifica dell’avviso di accertamento emesso nei confronti della Sas, tenuto conto che essa risponde dei debiti sociali solo nei limiti del capitale sottoscritto e versato (Cfr. Cass., V, 13565/2021), non risulta nemmeno provato che l’avviso di accertamento, diretto alla società, sia stato notificato anche al socio accomandatario, con conseguente violazione del contraddittorio.
Più radicalmente, tuttavia, nel ricorso introduttivo, la contribuente non denuncia propriamente l’ingiustizia dell’accertamento fiscale in capo alla società in accomandita semplice (peraltro divenuto definitivo), ma sostiene che i soci accomandante ( L.D., 80%) e accomandatario ( D.N.M., 20%) “erano del tutto estranei ed ignari di come veniva gestita l’attività aziendale”, facente capo agli zii D.N.C. e B.D. in termini d’interposizione fittizia (pag.5-6). Dunque, la CTR esce dal perimetro tracciato dal ricorso introduttivo, donde non ricorre la fattispecie del litisconsorzio originario necessario fra società e soci e ricorre, invece, un’ipotesi di litisconsorzio necessario, solamente tra i soci, quando il ricorso introduttivo abbia ad oggetto la mera ripartizione del reddito, anche quando il socio contesti la propria qualità, nel qual caso gli altri soci hanno interesse a contrastare la tesi del ricorrente, il cui accoglimento determina un incremento del loro carico fiscale (cfr. Cass. S.U., n. 14815/2008, p.2.8).
In conclusione, il giudizio dev’essere dichiarato nullo, la sentenza cassata con rinvio al giudice di primo grado.
P.Q.M.
Decidendo sul ricorso, dichiara la nullità del giudizio, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTP di Milano cui rimette anche la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 26 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022