LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25355 del ruolo generale dell’anno 2016 proposto da:
Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;
– ricorrente –
contro
Società Tessil Prigi s.r.l.;
– intimata –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 1680/10/2016, depositata in data 1 aprile 2016;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 ottobre 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RILEVATO
che:
dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Tessil Prigi s.r.l. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2006, aveva accertato una maggiore Irpeg, Irap e Iva; in particolare, era stato contestato che i finanziamenti eseguiti dai soci, in modo sistematico e progressivo, non erano giustificati stante la ridotta capacità finanziaria dei medesimi, sicché, in realtà, gli stessi erano da considerarsi ricavi in nero; era stata, altresì, contestata l’omessa fatturazione di operazioni commerciali e l’esistenza di fatture di vendita non corrispondenti nei numeri progressivi con quanto risultante in contabilità; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Roma; l’Agenzia delle entrate aveva quindi proposto appello;
la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussistevano nella fattispecie i presupposti per procedere ad accertamento induttivo, non avendo l’amministrazione finanziaria specificato le omissioni, le falsità o le inesattezze delle scritture contabili, tenuto conto, altresì, del fatto che la apparente regolarità delle scritture contabili costituiva circostanza incontroversa tra le parti; il metodo di accertamento, inoltre, era basato su elementi indiziari privi di certezza, precisione e concordanza; con riferimento al rilievo relativo ai finanziamenti dei soci, l’amministrazione finanziaria non aveva provato che la disponibilità degli importi versati dai soci derivassero da ricavi in nero né aveva offerto alcuna prova diretta a contrastare le argomentazioni difensive della contribuente; anche i restanti rilievi erano privi di fondamento in quanto la società aveva fornita adeguata prova contraria;
avverso la suddetta pronuncia ha quindi proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a un unico motivo di censura;
la società è rimasta intimata.
CONSIDERATO
che:
con l’unico motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, nonché degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., nonché del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54;
in particolare, parte ricorrente censura la sentenza per avere erroneamente ritenuto che non sussistevano nel caso di specie i presupposti per procedere ad un accertamento induttivo, atteso che, invero, la pretesa era basata su di un accertamento analitico-induttivo, in cui, nonostante la formale regolarità della contabilità, costituiva elemento presuntivo idoneo la circostanza che i finanziamenti erano stati eseguiti dai soci seppure privi di adeguata capacità finanziaria, potendosi, di conseguenza, inferire che, in realtà, erano stati occultati ricavi non dichiarati;
evidenzia, inoltre, che erroneamente il giudice del gravame ha posto a carico della ricorrente l’onere di fornire prova contraria rispetto alla mera affermazione della società che la disponibilità finanziaria sussisteva tenuto conto del patrimonio personale dei soci o di prestiti dal loro ricevuti, ovvero ancora in considerazione del fatto che gli stessi avevano gestito nel corso della loro attività altre società; infine, si censura la sentenza per avere ritenuto che potesse costituire idonea presunzione contraria la suddetta circostanza relativa allo svolgimento da parte dei soci di altre attività commerciali;
il motivo è fondato;
dal contenuto del ricorso si evince che il rilievo relativo alla circostanza che i finanziamenti eseguiti dai soci, in modo sistematico e progressivo, non erano giustificati stante la ridotta capacità finanziaria dei medesimi, sicché, in realtà, gli stessi erano da considerarsi ricavi in nero, era stato supportato tenuto conto di diversi elementi indiziari, quali: la mancanza di capacità finanziaria dei soci a supportare, nel corso di diversi anni, il versamento a titolo di finanziamento, di ingenti importi in favore della società; la mancanza di Delib. assembleare; il fatto che i versamenti erano stati eseguiti in contanti (vd. pag. 7 ricorso);
risulta, inoltre, dall’avviso di accertamento, riprodotto dalla ricorrente (vd. pag. 5 del ricorso) in osservanza all’onere di specificità del motivo, che il recupero era stata basato secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), quindi secondo un accertamento analitico-induttivo, basato su diversi elementi presuntivi da cui inferire il fatto non noto che i “finanziamenti siano serviti per reintegrare le casse societarie di corrispettivi incassati, ma non transitati in contabilità”;
va quindi osservato che, procedendo sulla base di tale impostazione di fondo, risulta che l’Agenzia delle entrate aveva fornito elementi presuntivi per accertare che i finanziamenti eseguiti dai soci occultassero ricavi in nero, secondo quanto richiesto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), secondo cui “L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”;
sotto tale profilo, rispetto alla prospettazione dell’amministrazione finanziaria, basata sulla circostanza che i soci non avevano la capacità finanziaria di provvedere agli ingenti versamenti a titolo di finanziamento, oltre che sulla mancanza di Delib. assembleare nonché sul fatto che i versamenti erano stati eseguiti in contanti, il giudice del gravame avrebbe dovuto procedere a valutare i suddetti elementi indiziari singolarmente e nella loro valenza probatoria complessiva, procedendo dai suddetti fatti noti al ragionamento logico inferenziale di accertamento del fatto non noto (esistenza di ricavi non dichiarati);
sotto tale profilo, va peraltro precisato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la legittimità di un finanziamento soci, opponibile al Fisco, richiede la regolarità formale delle delibere assembleari e delle scritture contabili, in tempi coerenti con l’andamento finanziario del periodo, diversamente l’erogazione finanziaria deve ritenersi re-immissione in azienda di utili occulti (Cass. Civ., 17 giugno 2021, n. 17322);
il giudice del gravame non ha proceduto alla valutazione degli elementi indiziari prospettati dall’amministrazione finanziaria, escludendo in radice la legittimità dell’accertamento in quanto operato esclusivamente con metodo induttivo puro nonostante non vi fossero i presupposti: ma, come detto, l’impostazione di fondo della pretesa tributaria consisteva nella sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti, secondo quanto consentito dall’art. 39, comma 1, lett. d), cit., la cui idoneità inferenziale avrebbe dovuto essere esaminata e valutata dal giudice del gravame, e non essere esclusa in radice;
d’altro lato, non correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che, rispetto alla prova presuntiva fatta valere dall’amministrazione finanziaria, la società aveva contrapposto idonea prova contraria consistente nella presunzione di possesso delle disponibilità finanziarie per effetto dello svolgimento di attività commerciali pluriennali da parte dei soci, con conseguente equivalenza, sotto il profilo della valenza probatoria, della suddetta presunzione con quella offerta dall’amministrazione finanziaria;
rispetto agli elementi presuntivi offerti dall’amministrazione finanziaria, basata su circostanze fattuali certi, era onere della società provare la provenienza del denaro oggetto dei finanziamenti dei soci, in particolare che gli stessi avessero la disponibilità finanziaria sufficiente per eseguire i finanziamenti, producendo idonea documentazione al fine di contrastare la valenza presuntiva degli elementi indiziari offerti dall’amministrazione finanziaria;
sotto tale profilo, la circostanza valorizzata dal giudice del gravame, cioè la pregressa attività commerciale, non può essere considerata, nella sua astrattezza e senza specifici elementi concreti di determinazione, elemento presuntivo idoneo a contrastare la valenza della prova presuntiva prospettata dall’amministrazione finanziaria, non essendo stata riscontrata, in fatto, dal giudice del gravame, la disponibilità effettiva delle somme;
sotto tale profilo, la pronuncia censurata non ha fatto corretta applicazione della previsione di cui all’art. 2729 c.c., che presuppone, invero, la certezza del fatto noto da cui inferire l’esistenza del fatto non noto (la provenienza dei versamenti da somme effettivamente disponibili dai soci);
ne consegue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della pronuncia con rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il ricorso, cassa la sentenza censurata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022