LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20278/2019 proposto da:
Ar Industrie Alimentari Spa, elettivamente domiciliata in Roma Piazza Della Libertà 20, presso lo studio dell’avvocato Maurizio Bellacosa, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Adriano Bellacosa;
– ricorrente –
contro
Siat Società Italiana Assicurazioni E Riassicurazioni Spa;
– intimata –
e contro
Generali Italia Spa, Ums Immobiliare Genova Spa, Unipolsai Assicurazioni Spa, elettivamente domiciliate in Roma Piazza Adriana 5 – Pal. A, presso lo studio dell’avvocato Simone De Martino, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Marcello Ghelardi;
– controricorrenti –
e contro
Aprile Spa, elettivamente domiciliata in Roma Piazza Adriana, 5, presso lo studio dell’avvocato Luigi Occhiuto, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1055/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 25 giugno 2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/11/2021 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.
RILEVATO
che:
A.R. Industrie Alimentari S.p.A. conveniva davanti al Tribunale di Genova Aprile Seafreight S.p.A., UMS Generali Marine S.p.A. – poi UMS Immobiliare Genova S.p.A., Fondiaria-Sai Assicurazioni S.p.A. – poi UnipolSai Assicurazioni S.p.A. -, Assitalia Le Assicurazioni d’Italia S.p.A. – poi Generali Italia Assicurazioni S.p.A. – e Siat Società Italiana Assicurazioni e Riassicurazioni S.p.A. per accertare la responsabilità quale vettore della società Aprile per danni derivati dal trasporto di 225 contenitori di scatole di cubettato di pomodoro – pervenute in avaria – dall'***** e per la condanna appunto di Aprile e degli altri soggetti convenuti quali coassicuratori – il primo al 55%, gli altri al 15% ciascuno – al risarcimento dei danni secondo polizza del ***** stipulata dall’attrice contro i rischi di trasporto; AR chiedeva altresì la condanna di Siat al risarcimento dei danni anche in forza di autonomo contratto assicurativo per il totale rischio, da essa stipulato con Aprile.
Con un’unica comparsa di risposta si costituivano UMS, Fondiaria e Assitalia, resistendo; con altra comparsa di risposta si costituiva Siat, pure resistendo; con ulteriore comparsa di risposta si costituiva resistendo anche Aprile.
Il Tribunale, con sentenza n. 90/2011, accoglieva la domanda proposta nei confronti di Aprile, condannando quest’ultima a risarcire l’attrice nella misura di Euro 1.006.929,07, oltre accessori; condannava inoltre UMS, Fondiaria e Assitalia, in solido con Aprile, a corrispondere l’indennizzo nei limiti delle quote di coassicurazione; rigettava invece le domande nei confronti di Siat.
UMS, UnipolSai e Generali proponevano appello principale, AR appello incidentale e Aprile ulteriore appello incidentale; si costituiva resistendo Siat.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 22 ottobre 2014, accoglieva parzialmente l’appello principale, dichiarando pertanto prescritti i diritti di AR in relazione ai primi due trasporti; accogliendo poi l’appello incidentale di Aprile, rigettava le domande proposte nei suoi confronti da AR; rigettava infine l’appello incidentale di AR nei confronti di Siat.
Con successiva sentenza del 25 gennaio 2018 rigettava infine le residue domande di AR ritenendole non coperte dalla polizza.
Ha presentato ricorso contro entrambe le sentenze AR, illustrandolo anche con memoria; si è difesa con controricorso, illustrato pure con memoria Aprile; UMS, UnipolSai e Generali si sono difese con un unico controricorso, illustrato anch’esso pure con memoria.
CONSIDERATO
che:
1. Il ricorso è articolato in sei motivi. In primis, peraltro, deve darsi atto che la ricorrente, nella premessa del ricorso stesso, segnala che, per “difetto di coordinamento tra il nuovo e il precedente difensore”, pur avendo formulata espressa riserva di ricorso per cassazione, essa lo aveva subito proposto avverso la sentenza, qualificata non definitiva, del giudice d’appello; tale ricorso era stato dichiarato improcedibile con ord. 11739/2015 di questa Suprema Corte (per mancata allegazione di attestazione di conformità della sentenza telematicamente notificata e depositata soltanto in formato analogico).
1.1 Il primo motivo, dunque, denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 2952 e 2945 c.c., oltre all’art. 1362 c.c..
La Corte d’appello ha ritenuto che la prescrizione sia decorsa dalla consegna del prodotto trasportato, anziché dalla “individuazione, anche convenzionale, delle cause ovvero della quantificazione del danno”. Che il contratto prevedesse che la compagnia potesse accertare e quantificare il danno mediante un perito non comporterebbe, secondo la corte territoriale, il differimento del dies a quo: tale differimento sarebbe possibile soltanto qualora il contratto assicurativo preveda una fase diretta a svolgere una “perizia contrattuale” includente l’improponibilità dell’azione giudiziaria, la quale quindi giustificherebbe la “sospensione” prescrizionale.
Si rileva che in ordine alla prescrizione di cui all’art. 2952 c.c., la giurisprudenza di legittimità riconosce che viene differito il termine se il contratto rende preventiva l’attivazione di un procedimento arbitrale o di una perizia medica o comunque contrattuale. Occorre ad ogni modo vagliare il significato della nomina del perito, in quanto questa può costituire un riconoscimento implicito del diritto dell’assicurato (nel senso di consapevolezza dell’esistenza del debito). Nel caso in esame, nominando i periti le compagnie avrebbero compiuto il volontario riconoscimento del diritto al risarcimento.
Nel contratto assicurativo de quo si prevede che la compagnia avrebbe potuto nominare un perito entro 30 giorni dalla segnalazione dei danni; ed effettivamente “la Compagnia aveva nominato” il perito e, dopo “una complessa attività di accertamento”, riconosciuto il danno e la sua derivazione da condensa (cioè dal contatto di quanto trasportato con l’acqua).
Quindi il contraente non poteva essere certo “della legittimazione alla domanda di danni” e non poteva/doveva esercitare l’azione perché il buon esito della perizia avrebbe potuto portare all’immediata liquidazione del danno.
Le Condizioni generali di polizza prevedono poi che “la Compagnia avrebbe liquidato il sinistro entro trenta giorni dalla consegna della perizia”: pertanto non solo per la previsione contrattuale di perizia, ma anche per l’effettiva nomina del perito da parte delle Compagnie “il danneggiato doveva essere indotto” a non esercitare l’azione fino al completamento della perizia, onde “il comportamento concludente delle Compagnie”, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, dovrebbe giustificare un’applicazione analogica dell’art. 2945 c.c., sull’interruzione della prescrizione.
Non avrebbe incidenza, poi, il fatto che le Compagnie negarono la liquidazione perché il sinistro riguardava un rischio escluso dalle condizioni di polizza: ciò invece “conferma che le Compagnie avessero inteso avvalersi del regolamento contrattuale e della prerogativa di nomina di un perito, salvo poi negare il risarcimento del danno in ragione dello stesso regolamento contrattuale”.
La giurisprudenza che “dà rilievo alla perizia contrattuale per farne coincidere il dies a quo con la conclusione della procedura peritale” farebbe salvo il caso “che l’assicuratore abbia contestato l’operatività della polizza”. Il che qui non si sarebbe verificato, dal momento che la inoperatività della polizza venne eccepita soltanto dopo la perizia e in base al suo risultato. Secondo la polizza, dunque, sarebbe stato possibile esercitare l’azione giudiziaria da parte del danneggiato solo a partire dalla conclusione del procedimento peritale.
1.2 Il secondo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., per inammissibilità del gravame proposto da Aprile solo sulla sua qualità di spedizioniere e non sulla prescrizione e sulla responsabilità per stivaggio, espressamente affrontate, riformando la sentenza di primo grado, dalla corte territoriale, che in tal modo avrebbe violato l’art. 342 c.p.c..
Sarebbe stata necessaria una specifica impugnazione per esonerare dalla responsabilità Aprile, giacché il giudice di prime cure l’aveva riconosciuta anche in relazione al termine di prescrizione per trasporto internazionale e al negligente adempimento dell’obbligo di stivaggio. Pertanto il giudice d’appello avrebbe violato l’art. 342 c.p.c. e sarebbe altresì incorso in ultrapetizione non rispettando l’art. 112 c.p.c..
1.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 1678 c.c. e segg., artt. 1741 e 1362 c.c. e segg..
Aprile non avrebbe potuto essere vettore avendo delegato il trasporto a terzi, ma “per quanto precisato nel corso del giudizio di merito” era stato vettore o almeno spedizioniere-vettore ai sensi dell’art. 1741 c.c.. Comunque per distinguere il vettore dallo spedizioniere vale la volontà delle parti, individuando gli obblighi da assumere.
Si invoca pure l’art. 1739 c.c. e si afferma che, se,come nel caso in esame, lo spedizioniere professionale Aprile prevede e chiede compenso per l’assicurazione prestata e non rende il conto dei vari contratti di trasporto conclusi pretendendo invece un unico compenso, si tratta di una figura di spedizioniere-vettore.
Ulteriori ragioni avrebbero dovuto portare a ricondurre il rapporto contrattuale tra la ricorrente e Aprile nel trasporto anziché nella spedizione: AR infatti aveva incaricato Aprile del trasporto e Aprile aveva rilasciato i relativi “buoni di presa” o “buoni di consegna”, elementi tipici del contratto di trasporto.
Ad avviso della ricorrente, invece, la sentenza d’appello è “agnostica”, limitandosi a definire insufficiente “quanto evidenziato dal Tribunale per qualificare le obbligazioni vettoriali della Aprile, senza però prendere posizione sulla natura della sua funzione”.
1.4 Il quarto motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto discusso e decisivo in ordine alla mancata qualificazione come “perizia contrattuali” dell’accertamento svolto e in ordine al conseguente differimento del dies a quo prescrizionale.
Costituirebbe motivazione insufficiente e contraddittoria l’affermazione che la polizza non prevede perizia contrattuale perché “e’ semplicemente prevista la possibilità di intervento di un perito dell’assicuratore, entro 30 giorni dalla segnalazione del danno da parte dell’assicurato, il quale a sua volta si impegna a permettere al perito il necessario sopralluogo”. La corte territoriale non avrebbe tenuto conto dello scopo unico delle previsioni contrattuali: permettere l’accertamento e la quantificazione dei danni, il che è proprio scopo tipico della “perizia contrattuale”.
Il giudice d’appello, ad avviso della ricorrente, non apporta “alcun argomento per chiarire quale fosse lo scopo” dell’accertamento peritale previsto nel contratto. Si riprendono argomenti in ordine al dies a quo della prescrizione dalla conclusione della perizia come già sostenuto nel primo motivo.
1.5 Il quinto motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto discusso e decisivo, riguardo alla mancata qualificazione di Aprile quale vettore-spedizioniere.
Quanto già rappresentato riguardo la violazione di legge varrebbe anche ai fini della motivazione insufficiente/contraddittoria; si argomenta poi sul contenuto di alcuni passi motivazionali.
1.6 Il sesto motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto discusso e decisivo, riguardo alla determinazione della percentuale di imputazione della responsabilità.
2.1 In primo luogo, va rilevato – benché, come si vedrà infra, ciò non avrà incidenza visto poi il contenuto del ricorso – che nel controricorso delle compagnie assicuratrici la difesa prende le mosse dall’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata osservanza del combinato disposto della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3 bis, comma 5 e D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 18.
L’invocata norma della L. n. 53 del 1994, prevede che la relazione di notificazione debba contenere l’attestazione di conformità all’originale della copia informatica dell’atto formato su supporto analogico; e l’art. 18 del richiamato decreto ministeriale stabilisce: “L’avvocato che estrae copia informatica per immagine dell’atto formato su supporto analogico compie l’asseverazione prevista dall’art. 22, comma 2, del codice dell’amministrazione digitale, inserendo la dichiarazione di conformità all’originale nella relazione di notificazione, a norma della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3 bis, comma 5”.
Adducono le controricorrenti – richiamando Cass. 12850/2019 – che nella relazione di notifica del ricorso trasmessa alle parti il 25 giugno 2019 difetta l’attestazione di conformità all’originale della procura speciale rilasciata dalla AR su supporto cartaceo, ciò conducendo alla inammissibilità del ricorso.
La medesima eccezione viene proposta, in via preliminare nel rito, nel controricorso di Aprile.
2.2 L’eccezione è infondata, sulla base di uno specifico, recentissimo insegnamento di S.U. ord. 21 dicembre 2020 n. 29175, massimata come segue: “Nel giudizio in cassazione, la mancanza dell’attestazione di conformità della procura alle liti notificata unitamente al ricorso a mezzo PEC ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, non comporta l’inammissibilità per nullità della notificazione, venendo in rilievo, nell’attuale contesto di costituzione mediante deposito di fascicolo cartaceo, una mera irregolarità sanata dal tempestivo deposito del ricorso e della procura in originale analogico, corredati dall’attestazione mancante”.
Così, nella motivazione, il giudice nomofilattico illustra la posizione assunta:
“Questa corte di legittimità ha affermato (Cass. SSUU n. 8312/19) che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata, sottoscritta con firma autografa e inserita nel fascicolo informatico, priva di attestazione di conformità del difensore, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina senz’altro l’improcedibilità del ricorso per cassazione. Ciò, in particolare, non si verifica non solo quando il controricorrente, nel costituirsi, depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale, ma anche quando, nella mancata costituzione della parte intimata ovvero nel disconoscimento di conformità all’originale da parte di questa, il ricorrente depositi l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in Camera di consiglio. Si è poi, con principio analogo, affermato (Cass. SSUU n. 22438/18) che il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo PEC, senza attestazione di conformità del difensore della L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1 bis e 1 ter, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità qualora il controricorrente depositi copia analogica del ricorso ritualmente autenticata ovvero non abbia disconosciuto la conformità della copia informale all’originale notificatogli del D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2. Viceversa, qualora il destinatario della notificazione a mezzo PEC del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato, ovvero disconosca la conformità all’originale della copia analogica non autenticata del ricorso tempestivamente depositata, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità è onere del ricorrente depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in Camera di consiglio. Cass. SSUU n. 10266/18 ha altresì osservato che nel giudizio di cassazione, cui – ad eccezione delle comunicazioni e notificazioni… non è stato ancora esteso il processo telematico, è necessario estrarre copie analoghe degli atti digitali ed attestarne la conformità, in virtù del potere appositamente conferito al difensore della L. n. 53 del 1994, art. 6 e art. 9, commi 1 bis e 1 ter. Orbene, nel caso in esame – riferito ad un atto diverso da quelli finora considerati, e tuttavia suscettibile dell’applicazione dello stesso principio – la notificazione via Pec del ricorso e della procura alle liti mancava in effetti dell’attestazione di conformità all’originale analogico di quest’ultima, ma tale lacuna è stata colmata dalla… ricorrente con l’allegazione del ricorso, depositato nel termine di legge, della attestazione di conformità mancante… appunto concernente non solo il ricorso ma anche la procura speciale alle liti, versata in originale analogico. Non si ritiene dunque qui applicabile il diverso principio risultante da Cass. Sez. I, n. 12850/19 (inammissibilità del ricorso per difetto di valida e tempestiva procura nel caso in cui la procura alle liti, conferita su supporto cartaceo e copiata per immagine su supporto informatico e, quindi, trasmessa per via telematica unitamente alla notifica del ricorso per cassazione, risulti priva, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3 e D.P.R. n. 123 del 2001, art. 10, dell’asseverazione di conformità all’originale mediante sottoscrizione del procuratore con firma digitale), dal momento che i richiamati riferimenti normativi riguardano l’ipotesi in cui il difensore si costituisca in giudizio attraverso strumenti informatici, il che, nel giudizio di legittimità, non è ancora consentito… Nell’attuale contesto – di costituzione in giudizio mediante deposito di fascicolo cartaceo – deve dunque ritenersi che l’attestazione cartacea di conformità all’originale (pure in atti cartaceo) della procura alle liti notificata via Pec unitamente al ricorso sopperisca non già ad una causa di nullità della notificazione, ma ad una mera irregolarità non invalidante”.
3. La difesa di tutte le società controricorrenti prosegue poi portando la questione dell’applicazione o meno dell’art. 387 c.p.c., al caso in esame.
3.1 Come si è visto, la vicenda processuale è qui particolarmente importante e risulterà in parte anche dirimente.
Il giudice d’appello pronunciò una prima sentenza, la n. 1206 del 22 ottobre 2014, di cui ora occorre accertare la natura, ovvero se definitiva – e in tal caso nei confronti di quali parti se non di tutte – o non definitiva; quattro anni dopo emise una seconda sentenza, la n. 1055 del 25 giugno 2018.
Avverso la sentenza del 2014 la stessa attuale ricorrente propose ricorso per cassazione, sfociato nell’ordinanza di improcedibilità n. 11739/2015 emessa da questa Suprema Corte. Occorre quindi anzitutto determinare gli effetti di ciò.
3.2 La prima sentenza del 2014 accolse, come già sopra si è esposto, parzialmente l’appello principale presentato dalle tre compagnie, dichiarando così prescritti i diritti della attuale ricorrente per i primi due trasporti; inoltre ha accolto l’appello incidentale proposto da Aprile, rigettando conseguentemente le domande dell’attuale ricorrente nei confronti di quest’ultima; ha invece rigettato l’appello incidentale di AR nei confronti di Siat, che il giudice di prime cure aveva condotto alla vittoria nel primo grado, rigettando appunto le domande di AR nei confronti di Siat. Nei confronti rispettivamente di Aprile e di Siat il giudice d’appello condannò l’attuale ricorrente alla rifusione delle spese processuali.
Nei confronti di Aprile e di Siat, dunque, tale sentenza ha rivestito il ruolo di sentenza definitiva, non essendo d’altronde configurabile, ictu oculi, un litisconsorzio necessario processuale leso dalla “uscita” di Aprile e Siat. E comunque la sentenza stessa si autoqualificò inequivocabilmente come definitiva rispetto alle posizioni di Aprile e Siat (così in motivazione, pagina 12: “Le spese seguono la soccombenza nei confronti di APRILE e di SIAT, che escono definitivamente di scena e verso i quali la presente sentenza riveste carattere definitivo”; e se è vero che il dispositivo pone nell’incipit l’espressione “non definitivamente pronunciando nella causa fra le parti in epigrafe”, è parimenti vero però che poi, oltre a rigettare le domande di AR nei confronti rispettivamente di Aprile e di Siat, condanna appunto AR a rifondere le spese processuali alle due controparti suddette), con il suo decisum passato in giudicato escludendo così pure un litisconsorzio necessario processuale (sui criteri formali che distinguono la pronuncia definitiva da quella non definitiva v. S.U. 28 aprile 2011 n. 9441, Cass. sez. 3, 19 dicembre 2013n. 28467, Cass. sez. 3, ord. 13 settembre 2019 n. 22854 e S.U. 19 aprile 2021n. 10242).
Ne consegue che il ricorso è effettivamente inammissibile sia contro Aprile – nei cui confronti sono rivolti i motivi secondo, terzo, quinto e sesto, sia contro Siat (anche se nessuno dei motivi è rivolto nei suoi confronti): la sentenza definitiva doveva e poteva essere impugnata soltanto in via immediata e così avvenne, per cui, dichiarato improcedibile il ricorso con cui si attuò l’impugnazione, il diritto di impugnare è stato consumato, assorbito pertanto ogni altro profilo anche in relazione all’art. 387 c.p.c..
4.1 Nei confronti delle tre compagnie assicuratrici UMS, UnipolSai e Generali la sentenza del 2014, invece, non fu ictu oculi definitiva.
Essa quindi non era impugnabile prima della emissione della sentenza definitiva, potendo essere solo unitamente a questa portata dinanzi al giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3.
4.2 Si pone, dunque, il quesito dell’identificazione degli effetti di tale proposizione del ricorso prima della pronuncia definitiva, con particolare riguardo all’art. 387 c.p.c., per cui il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può mai essere riproposto.
Una lettura che coltiva e preserva, in rapporto con i valori costituzionali e sovranazionali, il diritto di difesa di chi ha interesse a impugnare (lettura che significativamente rimane in coerente sintonia con la giurisprudenza relativa alla disciplina anteriore all’introduzione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, per cui, se veniva impugnata una sentenza non definitiva e il ricorso veniva dichiarato inammissibile o improcedibile, rimaneva la possibilità di impugnare di nuovo insieme alla impugnazione della sentenza definitiva purché si fosse fatta riserva di impugnazione ex art. 361 c.p.c., non comportando la consumazione di tale riserva l’esperimento della impugnazione differita della sentenza non definitiva insieme a quella definitiva: cfr. ex multis, Cass. sez. 3, 4 marzo 1997 n. 1916, Cass. sez. 1, 12 aprile 2002 n. 5282, Cass. sez. L, 7 ottobre 2002 n. 14319, Cass. sez. 3, 20 ottobre 2003 n. 15643 e Cass. sez. 3, 21 settembre 2015 n. 18498) conduce logicamente a ritenere ammissibile la impugnazione, anche perché non figura qui applicabile il paradigma dell’art. 387 c.p.c., in quanto il presente esercizio dell’impugnazione della sentenza non definitiva unitamente alla definitiva, per tale unitarietà, non integra l’ipotesi di riproposizione del ricorso originario, bensì costituisce una fattispecie diversa.
Deve dunque considerarsi ammissibile il ricorso quanto al primo motivo, al quarto motivo e al sesto motivo, quest’ultimo naturalmente nei confronti soltanto di UMS, UnipolSai e Generali.
5. Questi motivi, peraltro, sono privi di consistenza e quindi non meritano accoglimento.
5.1 Il primo motivo, in sostanza, prospetta l’incidenza sul dies a quo del termine prescrizionale quale derivante dalla previsione nella polizza di una di perizia effettuata, secondo la ricorrente, proprio perché la compagnia accerti e quantifichi il danno denunciatole, il che condurrebbe, appunto, ad una necessaria attesa della controparte prima di raggiungere la condizione giuridica che le consenta l’esercizio dell’azione fondata sulla polizza.
Si tratta di un asserto che sostiene, a ben guardare, una temporanea “paralisi” del termine, cui potrebbe applicarsi secondo la ricorrente, per analogia, l’art. 2945 c.c.. Peraltro, quel che prospetta non è tanto una interruzione, bensì una sospensione della facoltà di esercizio del diritto. Non a caso il motivo mira ad entrare, per via analogica, nell’art. 2945 c.c.: invero, non vi è norma che direttamente preveda che, qualora una parte intenda verificare il fondamento della denuncia del sinistro, all’altra, se non indennizzata, sia inibito l’esercizio del diritto in via giurisdizionale per ottenere l’indennizzo (cfr. art. 2952 c.c., comma 2).
Quel che è invece sostenibile non può che trarsi, in realtà, soltanto dagli effetti di specifiche clausole contrattuali, vertendosi in materia di diritti disponibili: ed è indiscutibile che nella polizza si possano inserire clausole atte a imporre un siffatto “periodo di attesa” dell’esercizio del diritto, così da sospendere la decorrenza prescrizionale: il che è stato percepito da giurisprudenza di questa Suprema Corte, peraltro sussumendo questo classico fenomeno contrattuale proprio nella interruzione della prescrizione (cfr., tra gli arresti massimati, Cass. sez. 3, ord. 26 luglio 2017 n. 18376, Cass. sez. 3, 9 aprile 2009 n. 8674, e Cass. sez. 3, 29 luglio 2004 n. 14487). Ciò che rileva, peraltro, è che tale insegnamento nomofilattico esige che la clausola sia tale da impedire (come già si anticipava) specificamente e in modo inequivoco l’esercizio del diritto di indennizzo finché non sono state concluse le operazioni tecniche (da ultimo, in motivazione, Cass. sez. 3, ord. 26 luglio 2017 n. 18376 afferma infatti che il conferimento di incarico a un perito per compiere accertamenti sul danno non determina di per sé “l’automatica interruzione della prescrizione fino al momento del completamento dell’incarico”, in quanto tale interruzione trova giustificazione nella esistenza di un vero “impedimento di fonte negoziale all’esercizio del diritto fino all’esaurimento delle operazioni tecniche”).
Non occorre, allora, soffermarsi ad approfondire quale sia l’effetto di una siffatta clausola, ovvero se produca interruzione o sospensione prescrizionale, dal momento che la ricorrente al riguardo non ha fornito l’integrale testo della clausola relativa alla perizia, che, essendo il perno della sua censura, avrebbe dovuto essere compiutamente trascritto: non è qui bastante il mero richiamo al documento – peraltro effettuato nel quarto motivo – giacché il contenuto della clausola che inciderebbe sulla decorrenza della prescrizione, a ben guardare, fa parte in senso pieno del primo motivo venendo “incorporato” dalle sue argomentazioni, così oltrepassando e superando il livello di rilievo desumibile dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
A ciò si aggiunga, a questo punto ad abundantiam, che il motivo è altresì totalmente carente nell’individuare le modalità con cui avrebbe avuto luogo lo svolgimento della perizia, e – il che ancor più rileva -, nulla fornisce in ordine a come si sarebbe svolta l’interlocuzione fra l’attuale ricorrente e le tre compagnie durante lo svolgimento della perizia (che non appare contrattuale, ma unilaterale, se si attinge, con una forzatura sul principio di autosufficienza, dal contenuto della sentenza impugnata, e precisamente da quanto emerge dalla sua pagina 8), così non prospettando neppure sotto tale profilo i presupposti dell’applicazione della giurisprudenza sopra richiamata.
Il motivo, in conclusione, non merita accoglimento.
5.2 Per quanto concerne, infine, i motivi quarto e sesto, essi costituiscono entrambi – oltre a una inconsistente attribuzione di carenza motivazionale, godendo la sentenza impugnata di un apparato motivazionale del tutto adeguato -il mezzo per l’introduzione di argomentazioni fattuali non riconducibili al reale paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando in realtà come potrebbe effettuarsi in sede di gravame, e dunque incorrendo nella classica inammissibilità che deriva dal perseguimento di un terzo grado di merito.
6. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nei confronti di Aprile e Siat, mentre va rigettato nei confronti delle ulteriori controparti; quanto alle spese processuali, liquidate come da dispositivo, premesso che nessuna rifusione deve essere disposta a favore di Siat che non si è difesa, si reputa che la peculiarità della vicenda di rito giustifichi la compensazione totale tra la ricorrente da un lato e UMS, UnipolSai e Generali dall’altro, nonché la compensazione per metà nel rapporto processuale tra la ricorrente e Aprile, cui deve pertanto rifondersi l’altra metà.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti di Aprile S.p.A. e Siat S.p.A. e rigetta il ricorso proposto nei confronti di UMS Immobiliare Genova S.p.A., UnipolSai Assicurazioni S.p.A. e Generali Italia S.p.A.; compensa le spese relative al rapporto processuale tra la ricorrente e UMS Immobiliare Genova S.p.A., UnipolSai Assicurazioni S.p.A. e Generali Italia S.p.A.; liquidate le spese in un totale di Euro 8000, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge, condanna la ricorrente a rifonderne metà ad Aprile S.p.A., compensando l’ulteriore metà.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022
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