Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1194 del 17/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LEONE Margherita Maria – Presidente –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2065-2020 proposto da:

E.V., domiciliato presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso dall’avvocato LEONARDO BARDI;

– ricorrente –

contro

INPS, – ISTITUTO NAZIONALE della PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA PATTERI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SERGIO PREDEN, LUIGI CALIULO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1135/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 27/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. DANIELA CALAFIORE.

RILEVATO

che:

la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1135 del 2019, giudicando sulla impugnazione dell’INPS nei confronti di E.V. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, ha riferito che lo stesso E. in data 11.2015 aveva chiesto all’INPS il riconoscimento del diritto alla pensione in applicazione della L. n. 147 del 2014 (Modifiche alla disciplina dei requisiti per la fruizione delle deroghe riguardanti l’accesso al trattamento pensionistico – esodati) e vedendosi negata la prestazione, si era rivolto al giudice esponendo di aver versato la contribuzione sin dal 1974 e di aver cessato il lavoro con la società Bowe Systec s.p.a. in data 28.2.2011, con la sottoscrizione di un verbale di conciliazione con il quale aveva accettato il licenziamento e la messa in mobilità con la prospettiva di maturare l’anzianità contributiva di 40 anni durante la mobilità e con essa il diritto a pensione;

la legge Fornero e la successiva cd. sesta salvaguardia (L. n. 147 del 2014, art. 2) avevano fatto salvo il diritto dei lavoratori cessati o in mobilità che avessero maturato i requisiti successivamente al 31.12.2011, ma entro predeterminate date, a fruire della normativa previgente alla legge Fornero, mantenendosi il requisito di 40 anni di contributi;

tuttavia, l’INPS non aveva riconosciuto la contribuzione figurativa per l’anno 2013, per una settimana dell’agosto 1996 e per altra settimana del 1994, oltre che per una settimana del 1977 durante il servizio militare e, quindi, la domanda di pensione era stata rigettata;

il Tribunale di Milano, adito dall’ E., accolse la domanda sul presupposto che dovesse considerarsi utile la contribuzione relativa al periodo di mobilità, così come le settimane degli anni 1994 e 1996 e quella del 1977;

la Corte d’Appello di Milano, su impugnazione dell’INPS che aveva contestato il computo della contribuzione durante la mobilità per l’anno 2013, perché già al 31 dicembre 2012 era cessata la previsione dell’accordo tra Regione Lazio e Bowe Systec spa, ha riformato la sentenza di primo grado e rigettato la domanda ritenendo quale ragione più liquida che poiché la disciplina dell’indennità di mobilità era coincidente con quella della disoccupazione involontaria, secondo l’interpretazione data da Cass. n. 29237 del 2011 del R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 73 conv. in L. n. 1155 del 1936, posto che il datore di lavoro aveva corrisposto all’ E. l’indennità per mancato preavviso dal 1 febbraio 1994 al l’aprile 1994 e nell’anno 1996 (come risultava dai documenti prodotti), il lavoratore non aveva maturato, per una settimana nel 1994 e per altra settimana nell’anno 1996, alcuna contribuzione, con la conseguente non idoneità della complessiva anzianità a fondare il diritto a pensione;

neppure poteva fondare tale diritto l’eventuale lesione dell’affidamento riposto nel rilascio della certificazione attestante l’anzianità contributiva:

avverso tale sentenza E.V. ricorre per cassazione sulla base di due motivi; resiste INPS con controricorso.

CONSIDERATO

che:

con i due motivi di ricorso, che vengono illustrati unitariamente, si denuncia: 1) la violazione e o falsa applicazione del R.d.L. n. 1827 del 1935, art. 73 come interpretato dal messaggio INPS n. 244 del 2001; 2) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti che si ravvisa nello stesso messaggio INPS;

il ricorrente denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nell’appuntare la propria attenzione sulla questione relativa alla non sovrapponibilità del periodo coperto dall’indennità di preavviso, in ipotesi corrisposto a seguito del licenziamento, con l’erogazione anche in questo periodo dell’indennità di disoccupazione; nella specie, invece, il lavoratore aveva dedotto il mancato accredito della contribuzione figurativa nelle due settimane di carenza che andavano dal 2 al 4 aprile 1994 e dal 7 al 14 agosto 1996 e ciò in conformità con quanto aveva riconosciuto il Messaggio INPS n. 244 del 2001, come aveva ritenuto il primo giudice accogliendo la tesi prospettata nel ricorso introduttivo che il ricorrente riproduce in parte (pagine 3 e 4 del ricorso per cassazione);

il ricorrente ritiene che tali indicazioni siano idonee non solo a spiegare le ragioni sottese ai due motivi denunciati ma anche a rivelarne la fondatezza, di tal ché la questione del riconoscimento del diritto alla contribuzione per le due settimane rispettivamente nel 1994 e nel 1996, dovrebbe ritenersi positivamente risolta a proprio favore con la conseguenza che sarebbe sufficiente, per ottenere la cassazione della sentenza, la mera riproposizione delle argomentazioni già fatte valere per risolvere le altre questioni contese, relative alla contribuzione per l’anno 2013 il ricorso è inammissibile per difetto dei requisiti previsti dall’art. 366 c.p.c.;

in primo luogo, deve rilevarsi che secondo quanto statuito da questa Corte di legittimità, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso per cassazione deve indicare, in modo chiaro ed esauriente, sia pure non analitico e particolareggiato, i fatti di causa da cui devono risultare le reciproche pretese delle parti con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano in modo da consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto senza dover ricorrere ad altre fonti e atti del processo, dovendosi escludere, peraltro, che i motivi, essendo deputati ad esporre gli argomenti difensivi possano ritenersi funzionalmente idonei ad una precisa enucleazione dei fatti di causa (Cass. 24432/ 2020; 8425/2020);

nel caso di specie, il ricorso non presenta alcuna chiara ed esauriente rappresentazione dei fatti di causa, anzi esso si limita a riportare il solo dispositivo della sentenza appellata il quale dà atto della riforma della sentenza n. 3206 del 2017 del Tribunale di Milano, del rigetto della domanda e della compensazione delle spese del doppio grado di giudizio;

peraltro, anche a voler fare riferimento ai fatti di causa riferiti dalla sentenza impugnata, al fine di conoscere i fatti storici e processuali sui quali si innesti il ricorso, risulta del tutto assente l’ulteriore essenziale specificazione delle ragioni poste a base dei due motivi dedotti;

in particolare, il ricorrente si duole della violazione e o falsa applicazione del R.d.L. n. 1827 del 1935, art. 73 come interpretato dal messaggio INPS n. 244 del 2001, in quanto la sentenza impugnata, a fronte della incontestata percezione dell’indennità di preavviso sia in occasione del licenziamento del 1994 che nel 1996, non avrebbe chiarito “se la settimana di carenza – da collocarsi due mesi prima o due mesi dopo poco importa evidentemente – debba essere osservata o meno sotto il profilo contributivo” e ” perché secondo lei in questo caso la settimana di carenza non debba essere coperta da contribuzione nonostante le chiare indicazioni fornite da INPS nel proprio messaggio, la cui esistenza, seppure oggetto di discussione tra le parti, non è stata esaminata dalla Corte d’appello, nonostante la sua innegabile rilevanza”; a tali deduzioni il ricorrente fa seguire la riproduzione di una significativa parte del ricorso di primo grado;

la sentenza impugnata ha motivato la decisione puntando sulla questione più liquida, relativa all’insussistenza del diritto all’accreditamento di 2080 contributi settimanali in ragione del fatto che il R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 73 prevede che l’indennità di disoccupazione è corrisposta a decorrere dall’ottavo giorno successivo a quello della cessazione dal lavoro e, se è corrisposta una indennità per mancato preavviso, l’indennità per disoccupazione è corrisposta dall’ottavo giorno successivo a quello della cadenza del periodo corrispondente per mancato preavviso ragguagliata a giornate;

tale disposizione, ha ritenuto la Corte d’appello, va interpretata, in conformità a quanto statuito da Corte di cassazione n. 29237 del 2011, secondo cui la disciplina vale anche per l’indennità di mobilità e, quindi, poiché nel caso di specie l’INPS aveva provato che il datore di lavoro aveva corrisposto all’ E. l’indennità sostitutiva del preavviso per l’anno 1994 e per il 1996, ne derivava la carenza di contribuzione per le due settimane indicate dall’INPS;

a fronte di tale motivazione, il ricorrente non deduce uno specifico errore interpretativo, ma lamenta generica mancanza di chiarimenti rispetto ai contenuti di un messaggio INPS, di cui indica alcuni contenuti relativi alla ipotesi in cui i giorni di carenza si collochino tutti all’interno della stessa settimana ovvero l’ipotesi contraria, ma senza fornire alcun ragguaglio utile a far comprendere quale sarebbe il fatto storico decisivo non considerato dalla Corte milanese ovvero l’errore in diritto commesso dalla sentenza impugnata;

va, dunque, riaffermato il principio secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 16700 del 05/08/2020; Cass. n. 24298/ 2016);

il ricorso va, quindi, dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida nella misura di Euro 2.700,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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