LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. MELE Maria Elena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7450/2019 R.G. proposto da:
PARC HOTEL VILLA IMMACOLATA srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Lorenzo del Federico e dall’Avv. Valeria D’Ilio, con domicilio eletto in Roma, via F.
Denza, n. 20, presso lo studio dell’Avv. Laura Rosa;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI PESCARA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Paola Di Marco e dall’Avv. Antonella Manso, elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura del Comune di Pescara, p.zza Italia n. 1;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, n. 806/2018 depositata il 31 agosto 2018.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 6 ottobre 2021 dal Consigliere Maria Elena Mele.
RITENUTO
che:
Parc Hotel Villa Immacolata srl, in persona del legale rappresentate pro tempore, impugnava l’avviso di pagamento con cui il Comune di Pescara aveva richiesto il pagamento della tassa per lo smaltimento rifiuti (TARI) per gli anni 2015 e 2016, deducendo il difetto di motivazione dell’atto, l’illegittimità della tariffa applicata in quanto non commisurata alla quantità e qualità medie dei rifiuti prodotti, la mancata applicazione della riduzione prevista nel caso di avvio al recupero di rifiuti assimilati agli urbani, l’errata determinazione della superficie tassabili, non essendo stata scomputata l’area ove si producono rifiuti speciali smaltiti in proprio dalla società.
La Commissione tributaria provinciale di Pescara rigettava il ricorso con sentenza confermata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo.
La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza affidata a tre motivi.
Il Comune di Pescara ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO
che:
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la CTR ritenuto l’avviso di accertamento sufficientemente motivato. In realtà in esso mancherebbe ogni riferimento all’istruttoria svolta ed in particolare la specificazione del metodo seguito per la determinazione della tariffa con riguardo alla quantità e tipologia dei rifiuti e alle ragioni per le quali è stata applicata all’intera superficie dell’immobile la tariffa prevista per gli alberghi con ristorante.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 652, del Regolamento comunale UIC, art. 31, del D.P.R. n. 158 del 1999, art. 6, del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 3-bis, nonché degli artt. 3 e 53 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la CTR escluso l’illegittimità del regolamento comunale TARI nella parte in cui determina la tariffa applicabile agli alberghi con ristorazione, senza aver svolto l’attività istruttoria necessaria per determinare la quantità e qualità dei rifiuti conferiti. Il giudice d’appello, inoltre, non avrebbe considerato che l’applicazione della tariffa maggiorata prevista per gli alberghi con ristorazione all’intera superficie e ad un albergo posto in zona poco appetibile e con flusso di clientela non costante, violerebbe il limite della equità contributiva e della necessità che i costi siano commisurati ai volumi e alla natura dei rifiuti prodotti.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 652, del Regolamento comunale UIC, art. 31, del D.P.R. n. 158 del 1999, art. 6, nonché del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 3-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la CTR escluso l’illegittimità della delibera tariffaria assunta dal Comune benché del tutto priva di motivazione in punto di differenza tra la tariffa prevista per gli alberghi con ristorante e quella prevista per gli alberghi senza ristorante.
La prima censura è inammissibile.
La verifica in ordine all’esistenza e all’adeguatezza della motivazione dell’avviso di accertamento va condotta secondo la disciplina specificamente dettata, in ordine al contenuto dell’atto in esame, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, a tenore del quale “Gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere motivati in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che li hanno determinati; se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale”.
Tale norma, ricalcando sostanzialmente gli obblighi motivazionali richiesti in linea generale dello Statuto del contribuente, impone dunque esclusivamente che, previa enunciazione del criterio astratto, vengano specificati gli elementi su cui si fonda la ripresa a tassazione, necessari per consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa.
Ne deriva che, in tema di tassa di smaltimento dei rifiuti, nel caso in cui la rettifica venga operata sulla base di una variazione di superficie o di tariffa o di categoria, deve ritenersi sufficiente l’indicazione della maggiore superficie accertata o della diversa tariffa o categoria ritenuta applicabile, elementi che, integrati con gli atti generali, quali le delibere comunali o altri regolamenti comunali – che non è necessario allegare, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, perché si rivolgono ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post, di destinatari occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili (cfr. Cass. sez. 5, 23 ottobre 2006, n. 22804; Cass. sez. 5, 26 marzo 2014, n. 7044; Cass. n. 16165 del 2018 e n. 7437 del 2019) – risultano idonei a rendere intellegibili i presupposti di fatto e di diritto della pretesa tributaria, posta anche la semplicità del procedimento logico che in questi casi caratterizza la determinazione del tributo in esame, il cui ammontare viene determinato moltiplicando la tariffa, individuata sulla base della categoria, per la superficie tassata. Va pertanto escluso che possa essere censurata come mancanza di motivazione l’omessa individuazione di tutte le fonti probatorie o delle indagini effettuate per rideterminare l’area, ben potendo tali indicazioni essere fornite nell’eventuale successiva fase contenziosa, in cui l’Amministrazione ha l’onere di provare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’applicazione del criterio prescelto ed il contribuente la possibilità di contrapporre altri elementi sulla base del medesimo criterio o di altri parametri.
Nella specie, tuttavia, la società contribuente, pur lamentando la carente motivazione dell’avviso di accertamento e censurando sotto tale profilo la sentenza impugnata, non ha riprodotto il contenuto dell’atto impositivo.
In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione in relazione alla motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso (ex plurimis v. Cass., sez. 5, n. 22119 del 2021; n. 28776 del 2021) Ciò nella specie la ricorrente non ha fatto precludendo, dunque, a questa Corte di verificare il vizio lamentato.
Il secondo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi. Essi sono infondati.
Deve, innanzitutto, osservarsi che ai fini della determinazione della tariffa annuale la L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 652 (nella formulazione applicabile ratione temporis), riconosce al Comune la possibilità di commisurarla alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia delle attività svolte nonché al costo del servizio sui rifiuti. E’ previsto, inoltre, che “Le tariffe per ogni categoria o sottocategoria omogenea sono determinate dal comune moltiplicando il costo del servizio per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l’anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti”. Si dispone, altresì, che tale determinazione avvenga nel rispetto del principio “chi inquina ò paga”, sancito dalla Dir. del Parlamento Europeo e del Consiglio, 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE, art. 14.
In proposito questa Corte ha affermato che “in tema di TARSU, la disciplina contenuta nel D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, sulla individuazione dei presupposti della tassa e sui criteri per la sua quantificazione non contrasta con il principio comunitario “chi inquina paga”, sia perché è consentita la quantificazione del costo di smaltimento sulla base della superficie dell’immobile posseduto, sia perché la detta disciplina non fa applicazione di regimi presuntivi che non consentano un’ampia prova contraria, ma contiene previsioni (v. art. 65 e 66) che commisurano la tassa ad una serie di presupposti variabili o a particolari condizioni”. Tali pronunce hanno preso in esame, ritenendoli dirimenti in ordine all’esclusione della violazione del principio in esame, le sentenze CGUE 24.6.08 in causa C-188/07 e 16.7.09 in causa C-254/08 (quest’ultima, avente ad oggetto un rinvio pregiudiziale in una causa pendente dinanzi al TAR Campania, nella quale veniva contestata proprio la legittimità, per affermato contrasto con la Dir. n. 2006/12/CE, art. 15, della disciplina legislativa sulla TARSU, nonché di norme di un regolamento comunale in base alle quali le imprese alberghiere sarebbero state tenute al versamento della tassa sui rifiuti in misura superiore ai privati). Nella valutazione di conformità della disciplina nazionale al principio evincibile dalla Dir. n. 2006/12, art. 15 lett. a) (già desumibile dalla Dir. n. 75/442, art. 11), la CGUE ha affermato che: “e’ spesso difficile, persino oneroso, determinare il volume esatto di rifiuti urbani conferito da ciascun detentore; – in tali circostanze, ricorrere a criteri basati sulla capacità produttiva dei detentori, calcolata in funzione della superficie dei beni immobili che occupano, nonché della loro destinazione e/o sulla natura dei rifiuti prodotti può consentire di calcolare i costi dello smaltimento e ripartirli tra i vari detentori; – sotto tale profilo, la normativa nazionale che preveda, ai fini del finanziamento, una tassa calcolata in base ad una stima del volume dei rifiuti generato e non sulla base del quantitativo effettivamente prodotto non può essere considerata in contrasto con la Dir. n. 2006/12, art. 15, lett. a); – nella materia, le autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto riguarda le modalità di calcolo della tassa; – per quanto riguarda la differenziazione tra categorie di detentori, la stessa deve ritenersi ammessa, purché non venga fatto carico ad alcuni di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili”. Sicché, in definitiva, “il metodo di calcolo basato sulla superficie di immobile posseduto non e’, di per sé, contrario al principio “chi inquina paga” recepito dalla Dir. n. 75/442, art. 11" (Cass., Sez. 5 n. 28676 del 2018; n. 2202 del 2011).
Nella specie, dagli atti introduttivi del giudizio, risulta che il Comune di Pescara ha adottato un apposito Regolamento il quale, all’art. 31, prevede espressamente che la tariffa TARI si articola in una quota fissa ed in una quota variabile, la quale è rapportata alla quantità di rifiuti conferiti, alle modalità del servizio fornito e all’entità dei costi di gestione in modo da assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio, compresi quelli di smaltimento.
In ordine alla motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa, questa Corte, con orientamento costante, ha affermato che non è configurabile alcun obbligo di motivazione dal momento che tale delibera, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile ex post,,di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili (ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 7437 del 2019; Sez. 6-5, n. 16165 del 2018).
Con riguardo al potere di disapplicare l’atto amministrativo in relazione alla decisione del caso concreto che spetta al giudice tributario, la giurisprudenza di questa Corte ha anche affermato che la disapplicazione può conseguire solo alla dimostrazione della sussistenza di ben precisi vizi di legittimità dell’atto (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) e che la contestazione della validità dei criteri seguiti dal Comune nell’adottare la delibera non è sufficiente per pervenire alla dichiarazione (incidentale) d’illegittimità della stessa, dovendo, al riguardo rilevarsi che, nell’ambito degli atti regolamentari dei comuni, esiste uno spazio di discrezionalità di orientamento politico-amministrativo, insindacabile in sede giudiziaria.(Cass., sez. 5, n. 7044 del 26/03/2014; v. altresì, sez. 5, n. 5355 del 27/02/2020, Rv. 657361 – 01).
La decisione della CTR si è allineata ai suddetti principi Affermando che non sussiste un obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa e che, in cigni caso, il Comune aveva dato contezza dei calcoli in base ai quali essa era stata determinata, non essendo, comunque, tenuto a ripetere i contenuti della normativa statale.
In conclusione, il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre spese forfetarie, accessori di legge e oltre Euro 200 per esborsi.
Visto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022