LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24442/2016 R.G. proposto da:
P.I., e P.M., quali eredi di B.L., rappresentate e difese dall’avv. Giovanni Porcelli, con domicilio eletto in Roma, via Malcesine n. 30, presso lo studio del medesimo difensore;
– ricorrenti –
contro
C.L., e C.S., nella qualità di eredi di C.A., rappresentati e difesi dall’avv. Claudio Caciagli, del foro di Rimini, con domicilio eletto in Roma, via dei Campani n. 83 – Scala B, presso lo studio dell’avv. Giuseppina Guerriero;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna n. 486 depositata il 22 marzo 2016.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 22 giugno 2021 dal Consigliere Dott. Milena Falaschi.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– il Tribunale di Rimini, con sentenza n. 1539 del 2008, rigettata la domanda proposta da B.L. nei confronti di C.A. volta ad accertare la violazione di quest’ultimo del diritto di servitù di non edificare pattuito tra le parti in favore dell’attrice con conseguente condanna alla riduzione in ripristino dello stato dei luoghi e ai risarcimento del danno, riassunta e proseguita la causa tra P.I. e M. (nella qualità di eredi della B.), da una parte, e C.L. e S. (nella qualità di eredi del C.), dall’altra, accertata l’estinzione per prescrizione della servitù in ò questione e, in accoglimento della domanda riconvenzionale, dichiarava l’acquisto per usucapione in favore dei convenuti del diritto al mantenimento del manufatto nell’attuale consistenza ed ubicazione;
– sul gravarne interposto dalle P., la Corte di appello di Bologna, nella resistenza degli appellati, con sentenza n. 486 del 2016, rigettava l’appello e condannava le appellanti alla rifusione delle spese di lite;
A sostegno della propria decisione la Corte di appello di Bologna accertava, sulla base della documentazione fotografica allegata, che sin dal 1976 all’ingresso del negozio del C. era esistente una struttura costituita da un elemento orizzontale con funzione di copertura e da elementi verticali con funzione di appoggio stabile al terreno, idonea a determinare un ampliamento volumetrico dell’immobile di proprietà del C. verso l’esterno. Dalle medesime fotografie la Corte rilevava, inoltre, la presenza di pannelli verticali, estensibili o ritraibili a seconda della necessità, posti a delimitazione del perimetro esterno del manufatto.
In ordine alle opere realizzate successivamente al 1976, il giudice del gravame, sulla base delle risultanze processuali, accertava che ad essere mutati nel corso del tempo erano esclusivamente i materiali in origine utilizzati per la realizzazione della costruzione, concludendo che il manufatto era definibile già nel 1976 come veranda fissa e stabile all’ingresso della proprietà C..
Ciò posto, non avendo le appellanti posto in essere atti interruttivi della prescrizione sino all’anno 2000 (epoca di istaurazione del presente giudizio) il diritto di servitù di cui al rogito intercorso tra le parti in data 10 agosto 1968 doveva ritenersi prescritto, con conseguente acquisto per usucapione da parte degli appellati del diritto di mantenere il manufatto nell’attuale ubicazione e consistenza;
– per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bologna ricorrono P.I. e P.M., sulla base di tre motivi, cui resistono C.L. e C.S. con controricorso.
In prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c..
Atteso che:
– con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1073 e 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per aver il giudice del gravame ritenuto estinta per prescrizione ex art. 1073 c.c., la servitù di non edificare gravante sul fondo dei C., qualificando il manufatto del 1976 come costruzione.
Secondo le ricorrenti la Corte di appello avrebbe dovuto valutare la condotta delle parti successiva al rogito del 1968 costitutivo del diritto di servitù di non edificare gravante sul fondo dei C., così da escludere la natura di costruzione del manufatto realizzato sul fondo dei C. nel 1976.
Aggiungono le ricorrenti che dalle allegazioni fotografiche avrebbe dovuto evincersi che la struttura inizialmente apposta dai C. sullo scoperto antistante la sua proprietà era costituita da una tenda parasole sorretta da pali e da una cancellata laterale di tipo pieghevole. Ad avviso dei ricorrenti siffatta opera, realizzata nel 1976, non avrebbe dovuto essere considerata dal giudice di secondo grado come costruzione, anche in considerazione del fatto che sia la tenda parasole che la cancellata erano costituiti da una struttura precaria, essendo la prima utilizzata solo d’estate e la seconda soltanto negli orari di apertura del locale commerciale.
A tal riguardo ritengono le ricorrenti che gli interventi eseguiti sul fondo servente in epoca successiva al 1976 non si sarebbero tradotti in una mera operazione di sostituzione del materiale avendo controparte ampliato il negozio, dotandolo di un vano accessorio verandato, divenuto ampliamento definitivo soltanto negli anni 1993/1994.
Le ricorrenti lamentano, quindi, l’illogicità e la contraddittorietà della sentenza, per aver il giudice equiparato le funzioni e la struttura della veranda, della tenda parasole e dell’inferriata, asserendo, in particolare, che la sentenza impugnata sarebbe viziata per travisamento dei fatti operato dal giudice circa un punto decisivo della controversia, concernente la vera natura e la qualificazione del manufatto realizzato sull’immobile dei C..
Con il secondo motivo le ricorrenti censurano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1073 c.c., comma 2 e art. 1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per aver il giudice di appello dichiarato integralmente estinta la servitù, violando i principi in materia di servitù negative.
Sostengono le ricorrenti che il giudice del gravame avrebbe omesso di valutare che l’opera originaria, ossia quella risalente al 1976, pregiudicava solo in parte i vantaggi posti a beneficio del fondo dominante, non essendo di idonea, per caratteristiche, struttura e funzione, a ridurre la visuale della proprietà B., ora P..
Inoltre, ad avviso delle ricorrenti, il giudice del gravame avrebbe errato laddove ha riconosciuto l’acquisto per usucapione del diritto dei C. al mantenimento del manufatto nell’attuale ubicazione e consistenza, mentre la fattispecie acquisitiva per usucapione avrebbe potuto perfezionarsi solo ove l’opera fosse stata la medesima per l’intera decorrenza del termine ventennale, ipotesi non ricorrente nel caso di specie.
Infine, con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non aver la corte di appello statuito sulla doglianza con la quale le P. contestavano la sussistenza degli estremi della fattispecie acquisitiva dell’usucapione, non avendo gli appellanti posseduto il bene in modo continuativo per il lasso temporale prescritto dalla legge ai fini del perfezionamento della fattispecie, stante la differente consistenza (e natura) del manufatto attuale rispetto a quello realizzato nell’anno 1976.
I motivi di ricorso, che vanno esaminati unitariamente per la loro stretta connessione argomentativa che li avvince, vertendo tutti seppure sotto diversi profili – alla definizione della natura e alla qualificazione dell’opera risalente all’anno 1976, vanno respinti.
La Corte di appello di Bologna, valutando la documentazione fotografica con apprezzamento di fatto insindacabile in questa sede, ha accertato che sin dal 1976 all’ingresso del negozio del C. era esistente una struttura costituita da un elemento orizzontale con funzione di copertura e da elementi verticali con funzione di appoggio stabile al terreno, idonea a determinare un ampliamento volumetrico dell’immobile di proprietà del C. verso l’esterno. Dalle medesime fotografie la Corte ha altresì rilevato la presenza di panelli verticali, estensibili o ritraibili a seconda della necessità posti a delimitazione del perimetro esterno del manufatto.
Pertanto, confrontando la documentazione con quella relativa alla struttura esistente al momento del giudizio e tenendo conto dell’espletata CTU e delle risultanze testimoniali, la Corte ha accertato che ad essere mutati nel corso del tempo erano esclusivamente i materiali in origine utilizzati per la realizzazione dell’opera. In particolare, il giudice del gravame ha constatato che mentre nel 1976 la costruzione era garantita da una tenda parasole sorretta da relativa struttura metallica, all’epoca del giudizio era presente una copertura costituita da lastre di resina ondulata; inoltre, nel 1976 l’opera presentava tamponamenti laterali costituiti da una griglia scorrevole e pieghevole a “fisarmonica”, per poi essere sostituiti da pannelli scorrevoli in alluminio e materiale traslucido. Pertanto, non avendo posto in essere le P. validi atti interruttivi della prescrizione sino all’anno 2000 il diritto di servitù doveva ritenersi prescritto, con conseguente acquisto per usucapione da parre dei C..
Del resto, è incontestato nella giurisprudenza di questa Corte che per “costruzione” debba intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa, dai suoi caratteri e della sua destinazione. Ne consegue che gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell’immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica, costituiscono con l’immobile una costruzione unitaria (Cass. n. 4277 del 2011; Cass. n. 21173 del 2019).
Le censure in tale modo articolate appaiono contraddistinte dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi nella richiesta di rivalutazione alternativa delle risultanze processuali rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, richiesta tuttavia inammissibile in sede di legittimità.
Orbene, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, il ricorso per cassazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, dando così prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 331 del 2020; Cass. n. 7523 del 2017; Cass. n. 24679 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011).
D’altro canto è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione un’argomentazione tratta dall’analisi di fonti di prova, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottato (Cass. n. 21187 del 2019).
Inoltre, come questa Corte ha più volte sottolineato, il compito della cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito, dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile (ancora Cass. n. 21187/2019 cit.).
Quanto alla censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è stato già statuito che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza legittimante la prospettazione con ricorso per cassazione del motivo previsto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è configurabile solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e dalla stessa sentenza impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza (nel complesso della sentenza medesima) del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. n. 13054 del 2014).
Conclusivamente, il ricorso va respinto.
Le spese del giudizio di legittimità – liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna le ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti in solido, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 22 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022
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