LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1407-2016 proposto da:
T.R., TO.RO., nella qualità di eredi di T.S., domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO NATALE;
– ricorrenti –
contro
I.N.P.S., – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati EMANUELA CAPANNOLO, CLEMENTINA PULLI, MAURO RICCI;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1631/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 19/06/2015 R.G.N. 1157/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STEFANO VISONA, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza depositata il 19.6.2015, la Corte d’appello di Lecce, rigettando l’appello principale proposto dall’INPS e quello incidentale proposto dagli eredi di T.S., ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato T.S. decaduto dall’azione giudiziaria per il periodo precedente il 7 settembre 2008 ed aveva dichiarato il diritto del medesimo ad ottenere – a decorrere da detta data – il ricalcolo della pensione diretta, categoria IOS, con gli incrementi di cui alla L. n. 140 del 1985, art. 4 e L. n. 59 del 1991, art. 1 e condannato l’INPS al pagamento in suo favore di Euro 12.058,96, detratte le somme già eventualmente corrisposte per il medesimo titolo, oltre accessori e spese di giudizio.
Tale sentenza era stata impugnata, in via principale, dall’Inps, relativamente alla mancata applicazione della decadenza disposta dal D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 anche per il periodo successivo a quello indicato in sentenza e sul presupposto che il primo giudice avesse male interpretato la L. n. 111 del 2011, art. 38 ed, in via incidentale, dagli eredi del T. nelle more deceduto, quanto alla parziale decadenza ed alla compensazione delle spese.
La Corte d’appello ha condiviso l’interpretazione del primo giudice relativa al D.L. n. 98 del 2011, art. 38 conv. in L. n. 111 del 2011, già in vigore al momento di presentazione della domanda giudiziaria, ed ha fatto applicazione del meccanismo di decadenza ivi previsto trattandosi di domanda di ricalcolo di prestazione pensionistica già riconosciuta, nei limiti del triennio anteriore alla data di deposito dell’atto introduttivo del giudizio.
Avverso tale pronuncia T.R. e Ro., quali i eredi di T.S., hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura.
L’INPS ha depositato procura speciale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 436 c.p.c., per avere la Corte di merito definito (alla pagina 2 rigo 15 e 16 della sentenza) tardivo l’appello incidentale da loro proposto, pur se la memoria di costituzione che lo conteneva era stata tempestivamente depositata. Gli stessi ricorrenti riconoscono che tale indicazione, sebbene erronea, “(…) pur se priva di effetti pratici, nella realtà potrebbe generare dubbi di interpretazione ed un eventuale passaggio in giudicato di tale statuizione (…)”.
Con il secondo e terzo motivo, che vengono rubricati separatamente ma illustrati unitariamente, i ricorrenti lamentano l’errata interpretazione ed applicazione del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 come modificato dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38 conv. in L. n. 111 del 2011 e l’omessa applicazione dell’art. 436 c.p.c..
A loro avviso, posto che il legislatore (con il D.L. n. 384 del 1992 conv. in L. n. 438 del 1992) aveva introdotto due distinte forme di decadenza processuale: una triennale, relativa ai trattamenti pensionistici, ed una annuale, relativa alle prestazioni temporanee dei lavoratori dipendenti (indennità di disoccupazione involontaria, indennità contro la tubercolosi, cassa integrazione guadagni etc…), già soggette a decadenza annuale, il D.L. n. 98 del 2011, art. 38 cit. non potrebbe che riguardare le ipotesi di adempimento parziale delle prestazioni temporanee, in quanto le prestazioni pensionistiche, uniche per tale carattere, godrebbero di una garanzia costituzionale, come esplicitato dalla giurisprudenza di legittimità formatasi prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 98 del 2011, citato art. 38. Inoltre, dopo aver richiamato i contenuti della sentenza n. 69 del 2014 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’incostituzionalità del D.L. n. 98 del 2011, art. 38, comma 4 là dove ne prevedeva l’applicazione anche ai giudizi pendenti, i ricorrenti richiamano il contenuto dell’art. 416 c.p.c. e ne denunciano la violazione, ritenendo che i giudici del merito avrebbero dovuto solo ritenere applicabile l’istituto della prescrizione ordinaria.
Il primo motivo è inammissibile per carenza di interesse ad impugnare, dovendosi ribadire che, (vd. Cass. n. 594 del 2016) il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte.
Nel caso di specie, l’aver qualificato come tardivo l’appello incidentale non ha comportato alcun effetto pratico (come anche i ricorrenti hanno rilevato), posto che la sentenza ha deciso nel merito l’impugnazione incidentale, per cui è evidente la totale carenza di interesse relativa al motivo in esame.
I due successivi motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.
La sentenza impugnata ha applicato la disciplina della decadenza triennale ai soli ratei maturati prima del triennio antecedente alla proposizione della domanda giudiziaria in coerenza con gli arresti più recenti di questa Corte di legittimità.
La recente Cass. 17/06/2021, n. 17430, sulla scorta di Cass. n. 28416 del 14/12/2020 ha avuto modo di applicare (come già espresso da Cass. nn. 7756 del 2016, 16661 del 2018, 3580 del 2019 e 29754 del 2019) i principi e le ragioni enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 15352 del 2015 (in tema di emotrasfusioni, in relazione ai termini introdotti dalla L. n. 238 del 1997, art. 1, comma 9, per la domanda volta al conseguimento dell’indennizzo da vaccinazioni o di epatiti post trasfusionali e pensioni da HIV) ed ha ritenuto applicabile il nuovo termine anche per i fatti pregressi, ma a decorrere dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni.
Il termine di decadenza, introdotto dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38, comma 1, lett. d), n. 1), convertito in L. n. 111 del 2011, con riguardo “alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito”, decorrente “dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte”, trova applicazione anche con riguardo a prestazioni già liquidate, ma solo a decorrere dall’entrata in vigore della citata disposizione. La questione, di diritto transitorio, ha riguardato l’incidenza su una situazione ancora pendente della legge sopravvenuta, che ha introdotto ex novo un termine di decadenza. Si è escluso che la nuova previsione di un termine di decadenza possa avere effetto retroattivo, facendo decorrere il termine prima dell’entrata in vigore della legge che l’abbia istituito, e si è affermato, conformemente aì principi generali dell’ordinamento in materia di termini, che, ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina si applichi anche alle situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine viene fissata con riferimento all’entrata in vigore della modifica legislativa.
Si è precisato che tale soluzione realizza il bilanciamento tra il fine sollecitatorio perseguito dal legislatore con l’introduzione del termine decadenziale, ed il fine di tutelare l’interesse del privato, onerato della decadenza, a non vedersi addebitare un comportamento inerte allo stesso non imputabile (Cass. n. 13355 del 2014).
Inoltre, la decadenza è evitata dalla proposizione dell’azione giudiziaria, stante il tenore letterale della norma ed essendo questo l’atto il cui compimento va effettuato nel termine e dunque – secondo i principi generali in materia di decadenza – il solo atto che possa impedire la decadenza.
Secondo i principi generali, poi, la decadenza – una volta maturata – copre ogni questione, e dunque inibisce la riliquidazione ulteriore, quale che sia la ragione invocata dalla parte alla base della stessa.
Nel presente giudizio si dibatte sulla possibilità, in riferimento alla richiesta di adeguamento o ricalcolo di prestazioni pensionistiche parzialmente già riconosciute, che la decadenza riguardi, in considerazione della natura della prestazione, solo le differenze sui ratei maturati precedenti il triennio ovvero, in generale, ogni differenza comunque dovuta per il titolo in relazione al quale è richiesto l’adeguamento o il ricalcolo; orbene, il dibattito è stato risolto nel primo senso.
Se, infatti, la decadenza definisce una volta per tutte, anche nell’interesse della stabilità dei conti pubblici, l’ammontare della prestazione da erogare, essa è però ipotizzabile solo in quei casi in cui la prestazione nel suo nucleo essenziale sia comunque riconosciuta e mantenuta, trattandosi di prestazione costituzionalmente protetta ed imprescrittibile.
Ciò deriva dalla lettera delle disposizioni applicabili, posto che l’art. 47, comma 6, estende alle azioni di riliquidazione i commi 2 e 3, in relazione ai quali il D.L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, convertito in L. 1 giugno 1991, n. 166, chiarisce che il decorso dei termini previsti dal citato D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, commi 2 e 3, “determina l’estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità della relativa domanda giudiziale”, precisando poi che in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo i termini decorrono dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei.
In relazione alla natura del termine decadenziale in genere, esso è stato riferito ai singoli ratei (vedi Cass. 13104 del 2003; n. 152 del 1999; n. 2364 del 2004), in ragione della loro autonoma cadenza temporale.
L’art. 6 non riguarda però solo la domanda di pensione, e dunque il caso in cui la pensione sia negata in toto, ma ha portata generale, potendo dunque applicarsi anche alla domanda di riliquidazione.
Ciò è confermato proprio dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38, che ha modificato la disciplina del 1970, sia aggiungendo all’art. 47 un comma 2 cui le decadenza si applica alle azioni giudiziarie avente oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito, sia aggiungendo dopo l’art. 47 un art. 47 bis, a norma del quale “si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronuncia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui alla L. 9 marzo 1988, n. 88, art. 24, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni”.
L’intento del legislatore, anche in tema di ricalcoli pensionistici, è dunque quello di continuare a incidere unicamente sui ratei pregressi e tale interpretazione trova conferma anche dai lavori preparatori e dalla relazione che accompagna l’art. 38, dove si afferma che a differenza del diritto al trattamento pensionistico di per sé imprescrittibile, il diritto ai singoli reati è considerato soggetto a prescrizione in quanto considerato dalla giurisprudenza di contenuto esclusivamente patrimoniale, periodicamente risorgente e limitatamente disponibile.
L’interpretazione che limita ai ratei l’applicazione dei termini di prescrizione e decadenza anche nel caso di riliquidazioni è in linea con i principi affermati in materia dalla Corte Costituzionale, che ha sempre ritenuto il diritto a pensione come diritto fondamentale, irrinunciabile, imprescrittibile e non sottoponibile a decadenza, in conformità di principio costituzionalmente garantito che non può comportare deroghe legislative (tra le altre, Corte Costituzionale 26 febbraio 2010, n. 71; Corte Costituzionale 22 luglio 1999, n. 345; Corte Costituzionale 15 luglio 85, n. 203).
Una diversa interpretazione (che applicasse la decadenza all’intera pretesa di rideterminazione travolgendo i ratei futuri ed infra triennali) sarebbe del resto incompatibile con la Costituzione tutte le volte in cui la misura della prestazione riconosciuta o pagata non salvaguardi il nucleo essenziale della prestazione, come nel caso che solo una parte esigua della prestazione sia riconosciuta e pagata dall’ente previdenziale. Per tali casi, ritenere il diritto alle differenze pensionistiche perduto per decadenza comporterebbe di fatto la vanificazione del diritto alla pensione, in netto contrasto con l’art. 38 Cost..
Sarebbe peraltro non agevole individuare (per ciascuna prestazione periodica), in difetto di criteri legali o costituzionali espliciti, quale sia il nucleo essenziale della prestazione pensionistica non comprimibile.
L’applicazione della decadenza della domanda di riliquidazione ai soli ratei pregressi oltre il triennio e non all’intera pretesa del privato attua del resto un giusto equilibrio tra il diritto alla pensione e l’obiettivo decorso del tempo assicurato dalla decadenza mobile, che comunque sanziona il pensionato in modo significativo con la perdita dell’integrazione dei ratei ultra triennali rispetto alla domanda giudiziale. Per converso alcun bilanciamento tra gli opposti interessi sarebbe assicurato dall’accoglimento della tesi opposta, che produrrebbe una pensione decurtata per sempre in modo contra legem, con effetto completamente ablativo del diritto alle differenze (a fronte di una situazione di ignoranza del pensionato all’esatto importo della prestazione, che potrebbe protrarsi per anni) e con incidenza normale rilevante su una situazione soggettiva costituzionalmente protetta.
Può dunque affermarsi che, in riferimento alla richiesta di adeguamento o ricalcolo di prestazioni pensionistiche parzialmente già riconosciute, la decadenza riguardi, in considerazione della natura della prestazione, solo le differenze sui ratei maturati precedenti il triennio dalla domanda giudiziale. La sentenza impugnata si è attenuta ai principi su estesi ed il ricorso va, dunque, rigettato.
Nulla va pronunciato sulle spese ex art. 152 att. c.p.c. avendo il ricorrente rilasciato la prescritta dichiarazione di esonero.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022