LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 165-2020 proposto da:
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI) SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, ANTONIETTA CORETTI, LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI;
– ricorrente –
L.P., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ELENA PERINI;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI) SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, ANTONIETTA CORETTI, LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI;
– controricorrente al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 64/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 14/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata dell’08/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott. DANIELA CALAFIORE.
RILEVATO
che:
la Corte d’appello Trieste, con sentenza n. 64/2019, ha rigettato l’impugnazione proposta dall’INPS nei riguardi di L.P. avverso la sentenza del Tribunale di Udine che aveva accolto l’opposizione ad avviso di addebito con il quale l’INPS aveva richiesto il pagamento di differenze sulla contribuzione dovuta in ragione del mancato rispetto del minimale contributivo nel settore edile, regolato dal D.L. n. 244 del 1995, art. 29, derivante dall’aver considerato nel relativo calcolo le minori retribuzioni corrisposte a due lavoratori assunti a tempo parziale in eccedenza rispetto al limite previsto dall’art. 97 CCNL, per le imprese edili artigiane;
ad avviso della Corte d’appello, pur integrandone la motivazione, andava confermata la pronuncia di primo grado che, respingendo la tesi dell’INPS, aveva rilevato che la violazione del citato art. 97, non poteva determinare gli effetti pretesi dall’INPS sul minimale contributivo in quanto i contratti collettivi nazionali di lavoro non avevano efficacia erga omnes ed il L. non aveva mai aderito ad alcuna associazione di categoria per cui non era soggetto al limite numerico previsto dal c.c.n.l.;
inoltre, la tesi sostenuta dall’INPS avrebbe reso in assoluto ed ingiustificatamente più costoso l’utilizzo del lavoro part time; dunque, il silenzio del D.L. n. 244 del 1995, art. 29, sul lavoro part time stava a significare che occorreva fare riferimento alla disciplina della L. n. 338 del 1989, art. 1, salvo il minimale orario fissato dal D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 9, da ragguagliare al numero di ore previste dal contratto individuale di lavoro, né era fondato il rilievo della nullità del contratto part time stipulato in eccedenza rispetto alle previsioni del c.c.n.l. in relazione al disposto del D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 1, comma 3, o del disposto della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 1175; infatti, il contratto collettivo, in mancanza di espressa previsione di legge, non avrebbe potuto introdurre norme imperative operanti in materia previdenziale;
avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’INPS con un motivo, illustrato da successiva memoria;
resiste Petru L. con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato illustrato con successiva memoria; l’INPS resiste con controricorso al ricorso incidentale;
la proposta del relatore, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata, è stata comunicata alle parti.
CONSIDERATO
che:
con l’unico motivo di ricorso, l’INPS deduce la violazione del D.L. n. 244 del 1995, art. 29, conv. in L. n. 341 del 1995, nonché la violazione del D.L. n. 338 del 1989, art. 1, per avere la Corte di merito ritenuto che la violazione del limite massimo previsto dal contratto collettivo per il ricorso al part-time, non determinando alcuna nullità dei relativi contratti, non potesse far sì che i contributi dovuti fossero rapportati alla corrispondente disciplina della retribuzione imponibile virtuale corrispondente all’orario di lavoro full time anziché sulla retribuzione erogata;
la questione posta è stata affrontata da questa Corte di legittimità con diverse pronunce (Cass. n. 442 del 2011; Cass. n. 11368 del 2020; Cass. n. 8795 del 2020; Cass. n. 8794 del 2020);
in tali occasioni si è ricordato che:
a partire da Cass. S.U. n. 11199 del 2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo del c.d. “minimale contributivo”, ossia all’importo di quella retribuzione che ai lavoratori di un determinato settore dovrebbe essere corrisposta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale;
– tale regola è espressione del principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva, in virtù del quale l’obbligo contributivo ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro, e – com’e’ stato recentemente ribadito (cfr. Cass. n. 15120 del 2019) – la sua operatività concerne non soltanto l’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, ma altresì l’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva (o dal contratto individuale, se superiore) (v. in tal senso Corte Cost. n. 342 del 1992);
– la disposizione di cui al cit. D.L. n. 244 del 1995, art. 29, per quanto qui rileva, prevede che i datori di lavoro esercenti attività edile “sono tenuti ad assolvere la contribuzione previdenziale ed assistenziale su di una retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario normale di lavoro stabilito dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale e dai contratti integrativi territoriali di attuazione, con esclusione delle assenze per malattia, infortuni, scioperi, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa con intervento della cassa integrazione guadagni, di altri eventi indennizzati e degli eventi per i quali il trattamento economico è assolto mediante accantonamento presso le casse edili”, nonché di altri “individuati con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, sentite le organizzazioni sindacali predette”;
– Cass. n. 5233 del 2007, che ha precisato la portata delle affermazioni precedentemente rese al riguardo da Cass. n. 1301 del 2006, ha precisato che la previsione dell’art. 29, cit., che incide sulla misura della retribuzione-parametro a fini contributivi, non costituisce, analogamente ai minimali previsti da altre disposizioni di legge (tra i quali quello di cui al D.L. n. 338 del 1989, art. 1, conv. con L. n. 389 del 1989), una vera e propria fonte di obbligazione retributiva autonoma, sia pure ai soli fini previdenziali, ma incide esclusivamente sulla misura della retribuzione che il lavoratore riceve (o comunque avrebbe diritto di ricevere) in dipendenza del rapporto di lavoro, per verificarne, agli stessi fini, il rispetto del minimale di retribuzione (e quindi di contribuzione) imponibile;
– la retribuzione che il lavoratore riceve o comunque ha diritto di ricevere in dipendenza del rapporto di lavoro costituisce pur sempre il presupposto indefettibile per conformarne, se necessario, la misura ai minimali, e l’effetto della disposizione legislativa consiste precisamente nell’elevarla, se inferiore, fino al raggiungimento del minimale contributivo, sia pure ai soli fini previdenziali;
– di ciò è prova la circostanza che il minimale contributivo di cui al cit. D.L. n. 244 del 1995, art. 29, non trova applicazione soltanto nelle ipotesi in cui non sia dovuta, in dipendenza del rapporto di lavoro, né alcuna prestazione lavorativa, né alcuna retribuzione-corrispettivo, ossia nei casi di sospensione del sinallagma funzionale del contratto di lavoro: e ciò sia che si versi nelle ipotesi tipiche di cui al citato art. 29, (e cioè di assenze per malattia, infortuni, scioperi, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa con intervento della cassa integrazione guadagni, nonché per altri eventi indennizzati ed eventi per i quali il trattamento economico è assolto mediante accantonamento presso le casse edili, oltre quelle poi previste dal D.M. 16 dicembre 1996), sia che occorra qualcuna di quelle ulteriori e innominate ipotesi di sospensione “necessitata” ascrivibili all’interpretazione estensiva che della disposizione cit. ha dato questa Corte, al fine di evitare disparità di trattamento tra imprese edili soggette o meno all’intervento della cassa integrazione guadagni (così Cass. n. 5233 del 2007, già cit., cui hanno dato continuità, tra le tante, Cass. n. 9805 del 2011 e Cass. n. 11337 del 2018), purché le une o le altre siano state previamente comunicate agli enti previdenziali, ai fini degli opportuni controlli;
– da ciò deriva che è necessario scindere quoad effectum le due ipotesi che essa implicitamente prevede: da un lato, l’ipotesi di sospensione dell’attività, in relazione alla quale, se non vi è permanenza dell’obbligo della retribuzione-corrispettivo, non vi è nemmeno obbligo di pagamento del minimale; dall’altro, l’ipotesi di riduzione dell’attività, nella quale, sussistendo una retribuzione, seppure parziale, esprime tutto il suo vigore la regola del minimale e della tassatività delle ipotesi di esclusione (così, testualmente, Cass. n. 5233 del 2007, più volte cit.);
la vicenda in esame, in cui si controverte della legittimità della pretesa dell’INPS di parametrare sulla retribuzione imponibile per l’orario normale contrattuale i contributi dovuti sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori assunti a part-time in eccedenza rispetto al limite del 3% previsto dal contratto collettivo applicabile, deve essere ricondotta alla seconda delle due ipotesi dianzi esposte;
– nel sistema del minimale contributivo che si è fin qui delineato, la funzione cui la cennata disposizione contrattuale collettiva assolve non e’, a ben vedere, quella di porre limiti all’autonomia negoziale delle parti private, ma piuttosto quella di individuare il complessivo valore economico delle retribuzioni imponibili di una data impresa, commisurando (anche) quelle eccedenti il divieto di assumere a part-time oltre il limite del 3% della forza-lavoro occupata al valore della retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro: è infatti evidente che, facendo divieto alle imprese di assumere operai a tempo parziale per una percentuale superiore al 3% del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato, il contratto collettivo individua ad un tempo nella retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro la misura del compenso spettante ai lavoratori assunti a part-time oltre tale limite e dunque incrementa pro tanto il valore complessivo delle retribuzioni imponibili ai fini del calcolo del minimale contributivo, che – come s’e’ già detto – è calcolo che prescinde dalla circostanza che esse siano effettivamente corrisposte ai lavoratori occupati;
sotto questo profilo, risulta affatto irrilevante richiamare la disciplina e l’interpretazione giurisprudenziale adottata in tema di part-time irregolare, secondo il quale solo in caso di contratto di part-time nullo, ma che abbia avuto nondimeno esecuzione, dovrebbe applicarsi il regime ordinario di contribuzione che prevede anche i minimali giornalieri di retribuzione imponibile ai fini contributivi (così Cass. S.U. n. 12269 del 2004), giacché la commisurazione dell’imponibile contributivo alla retribuzione normale non deriva qui da (né necessita di) una fattispecie di nullità del contratto di lavoro part-time stipulato inter partes, ma costituisce semplicemente la conseguenza della previsione contrattuale collettiva circa il valore economico complessivo delle retribuzioni imponibili dell’impresa edile, che – a termini del D.L. n. 244 del 1995, art. 29, – può essere suscettibile di abbattimento solo nei casi di (legittima) sospensione e non già in quelli di riduzione dell’attività lavorativa, in cui, permanendo il sinallagma funzionale del rapporto e sussistendo una retribuzione, sia pur parziale, la regola del minimale e della tassatività delle ipotesi di esclusione riprende appieno il suo vigore;
– una diversa interpretazione incrinerebbe la portata del principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva (che, come si è dianzi ricordato, concerne non soltanto l’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, ma altresì l’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o quello superiore previsto dal contratto individuale), ma soprattutto scambierebbe per un’ipotesi di sospensione del sinallagma funzionale del contratto quella che, a tutti gli effetti, è soltanto un’ipotesi di riduzione dell’attività lavorativa normalmente dovuta per contratto, la quale – giusta la previsione del cit. D.L. n. 244 del 1995, art. 29 – in tanto può modificare la misura delle obbligazioni contributive dell’impresa in quanto sia contenuta nel limite previsto dalla contrattazione collettiva;
le considerazioni svolte, che interpretano il disposto del citato D.L., art. 29, secondo una logica del tutto interna al sistema previdenziale, determinano al tempo stesso la evidente estraneità delle argomentazioni sostenute dal ricorrente incidentale e cioè quelle riferite all’assenza della generalizzata efficacia erga omnes nei contratti collettivi nazionali di categoria ed alla mancata adesione dello stesso L. a quello oggetto di causa; non incide, in altre parole, tale questione sulla peculiare disciplina del minimale contributivo in edilizia e ciò determina il giudizio di infondatezza, per evidenti ragioni di logica coerenza, del ricorso incidentale;
in definitiva, accolto il ricorso principale e rigettato quello incidentale condizionato, non essendosi i giudici di merito attenuti all’anzidetto principio di diritto, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
PQM
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrente incidentale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022