LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –
Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7430-2020 proposto da:
ERICSSON TELECOMUNICAZIONI S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA n. 22 presso lo studio Legale GERARDO VESCI &
PARTNERS, rappresentata e difesa dagli avvocati GERARDO VESCI, LEONARDO VESCI;
– ricorrente –
contro
R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II n. 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCESCO CIRILLO, ERNESTO MARIA CIRILLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6909/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 17/12/2019 R.G.N. 1694/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/10/2021 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA ha depositato conclusioni scritte.
RILEVATO
che:
1. la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, ha respinto il reclamo proposto da Ericsson Telecomunicazioni s.p.a. avverso la decisione con cui il Tribunale, nell’ambito di un procedimento ex L. n. 92 del 2012, aveva respinto l’opposizione all’ordinanza che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a R.M. all’esito di una procedura ex L. n. 223 del 1991, intrapresa con lettera del *****, e ne aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro, condannando l’azienda al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, con il limite delle 12 mensilità, in applicazione dello St. lav., art. 18, comma 4;
2. la Corte distrettuale – in sintesi – ha ritenuto illegittimo il licenziamento in considerazione della immotivata limitazione della platea dei dipendenti a talune sedi aziendali, anche a fronte di un progetto di ristrutturazione che ricomprendeva l’intero complesso aziendale; ha, poi, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con riguardo al diverso regime sanzionatorio conseguente alla violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo;
3. per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a 3 motivi; ha resistito il lavoratore con controricorso;
4. il Procuratore Generale ha illustrato per iscritto le conclusioni di rigetto del ricorso e le parti hanno comunicato memorie; la società, tra l’altro, ha richiesto la rimessione della causa alle sezioni unite della Corte o, subordinatamente, in pubblica udienza.
CONSIDERATO
che:
1. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;
1.1. con il primo la società denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, e art. 41 Cost., avendo la Corte territoriale trascurato una lettura della normativa che escluda l’esigibilità della comparazione tra i dipendenti quando questa risulti oggettivamente incompatibile con le esigenze aziendali per ragioni geografiche, essendo collocate le diverse sedi operative della società a centinaia di chilometri l’una dall’altra e imponendo, la valutazione globale dell’azienda, conseguenze irrazionali quali i trasferimenti di decine di dipendenti a notevole distanza dalle rispettive sedi di assegnazione; la determinazione dell’ambito del licenziamento collettivo dovrebbe, invece, essere rimessa unicamente alla scelta del datore di lavoro ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, in virtù del fondamentale principio di libertà di iniziativa economica dettato dall’art. 41 Cost.;
1.2. con il secondo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4, 5 e 7, e della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 17, avendo la Corte distrettuale erroneamente applicato la tutela reintegratoria, posto che l’esubero del profilo di appartenenza del lavoratore sussisteva e, dunque, la violazione del criterio di scelta avrebbe configurato al più un vizio meramente formale e non sostanziale; secondo la ricorrente, nel caso di specie, non sarebbe stata lamentata la violazione dei criteri di scelta bensì questioni relative alla collocazione aziendale e ai profili delle mansioni, la cui violazione determina l’applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7; inoltre, la Corte territoriale non avrebbe verificato, in concreto, che il lavoratore non fosse in esubero, limitandosi ad effettuare una valutazione in astratto;
1.3. con il terzo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, in contrasto con gli artt. 3,24 e 41 Cost., per violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza e della libertà di iniziativa economica privata; si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, ai licenziamenti collettivi (reintegrazione nel posto di lavoro) e ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo (risarcimento del danno), non sussistendo – ad avviso della ricorrente – alcuna esigenza razionale di diversificare fattispecie che hanno il medesimo impatto sociale e che applicano i medesimi criteri di scelta; in ogni caso si sollecita la S.C. a sospendere il giudizio ed a rimettere la questione alla Corte costituzionale;
2. preliminarmente va disattesa l’istanza della società di rimessione del ricorso, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite ex art. 374 c.p.c., al primo presidente, al quale avrebbe dovuto essere rivolta ai sensi e nei termini dell’art. 376 c.p.c., comma 2, e dell’art. 139 disp. att. c.p.c.; posto che, anche laddove proposta dal pubblico ministero ex art. 376 c.p.c., u.c., la stessa rappresenta una mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale (Cass. n. 12962 del 2016; Cass. n. 8016 del 2012), nell’istanza non vengono evidenziate questioni di diritto che siano state decise in senso difforme dalla sezione semplice, né il ricorso presenta una questione di massima di particolare importanza che non sia stata già decisa da conforme giurisprudenza di questa Corte dalla quale non si ravvisa ragione per discostarsi;
analogamente va respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza, rientrando la valutazione degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza – pubblica ex art. 375 c.p.c., u.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); il collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437 del 2018);
3. per ragioni di ordine logico-giuridico nella trattazione delle questioni, vanno esaminate prioritariamente le censure che riguardano la legittimità del licenziamento, riservando all’esito quelle concernenti la tutela applicabile, evidentemente subordinate al mancato accoglimento delle prime;
4. il primo motivo di ricorso è infondato;
4.1. esso non censura adeguatamente la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto che l’individuazione della platea dei licenziabili dovesse avvenire “nell’ambito dell’intero complesso aziendale, specie nella ipotesi, come quella in esame, di riduzione del personale operata per ragioni strutturali conseguenti alla esigenza di rinnovamento delle strategie aziendali, resa necessaria per rimanere competitivi sul mercato”;
l’assunto e’, infatti, conforme a consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la quale – ferma la regola generale di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, secondo cui “l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale” (cfr. Cass. n. 5373 del 2019) – ha sancito sì che la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale possa essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore o sede territoriale, ma “purché il datore indichi nella comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti”, con la conseguenza che “qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali” (Cass. n. 4678 del 2015; Cass. n. 22178 del 2018; v., ancora di recente, Cass. n. 12040 del 2021);
la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità o di licenziamento e’, peraltro, condizionata – come anche recentemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 981 del 2020; Cass. n. 14800 del 2019) – agli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, non potendo rappresentare l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma dovendo essere giustificata dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione del personale adeguatamente esposte nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda intenda concretamente espellere (ex plurimis: Cass. n. 32387 del 2019; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 880 del 2013; Cass. n. 22825 del 2009);
ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, infatti, è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. n. 15953 del 2021; Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015; Cass. nn. 2429 e 22655 del 2012; Cass. n. 9711 del 2011), ma anche che gli addetti prescelti non svolgessero mansioni fungibili con quelle di dipendenti assegnati ad altri reparti o sedi (cfr., tra le altre, Cass. n. 13783 del 2006; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 15953 del 2021);
nel caso di specie, i giudici del merito, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede di legittimità, hanno constatato che nella comunicazione di apertura della procedura ex L. n. 223 del 1991 si faceva riferimento esclusivo alle esigenze di ristrutturazione di tutto il complesso aziendale, traendone quindi le conseguenze conformi alla giurisprudenza di legittimità citata;
4.2. in ordine, poi, alla questione, pure agitata nel ricorso, del trasferimento di sede geografica dei lavoratori interessati dalla procedura, si osserva che, per quanto innanzi precisato, non si è affatto escluso che le ragioni tecnico-organizzative possano condurre alla limitazione della platea dei licenziabili ad una determinata sede territoriale, potendo assumere rilievo anche il fatto, da accertarsi sulla base delle circostanze concrete, che il mantenimento in servizio dei dipendenti appartenenti all’unità soppressa esigerebbe il loro trasferimento in altra sede (cfr., da ultimo, Cass. n. 36451 del 2021); tuttavia è pur sempre indispensabile che il datore “indichi nella comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti” (ancora Cass. n. 12040 del 2021 cit.);
pertanto, va ribadito il principio secondo cui, di per sé, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo”, non contemplandosi, tra i parametri della L. n. 223 del 1991, art. 5, “la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro” (v. Cass. n. 17177 del 2013; Cass. n. 32387 del 2019);
4.3. la sentenza impugnata non è neppure in contrasto con il principio per il quale, in tema di licenziamento collettivo, l’annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi (Cass. n. 13871 del 2019; Cass. n. 24558 del 2016), atteso che detto canone evidentemente opera laddove la platea dei lavoratori licenziabili sia stata correttamente limitata e, nell’ambito più ristretto così definito, i criteri di scelta adottati si assumano malamente applicati; detto principio non si attaglia, invece, alla fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio, laddove la limitazione della platea dei licenziabili, non estesa all’intero complesso aziendale, è stata ritenuta, a monte, illegittima;
5. una volta confermato il capo di sentenza che ha ritenuto illegittimo il licenziamento, possono essere esaminate le censure contenute nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, concernenti le conseguenze sanzionatorie applicate dai giudici del merito con riguardo allo St. lav., novellato art. 18, comma 4;
esse non meritano accoglimento;
5.1. invero, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale debba riferirsi a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina violazione dei criteri di scelta per la quale la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, prevede l’applicazione della L. n. 300 del 1970, novellato art. 18, comma 4” (v. Cass. n. 18847 del 2016; Cass. n. 20502 del 2018);
da tempo, infatti, questa Corte (Cass. n. 12095 del 2016; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018; Cass. n. 19010 del 2018) ha interpretato la L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, distinguendo il “caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, comma 12”, per il quale opera la tutela meramente indennitaria, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”, per il quale si applica la tutela reintegratoria: mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello legale di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, costituisce “violazione delle procedure”, il diverso “caso di violazione dei criteri di scelta” si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive;
del tutto coerentemente la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, non ricorresse una mera violazione procedurale per incompletezza delle comunicazioni prescritte bensì una violazione sostanziale rappresentata dall’applicazione di criteri di scelta ad una platea di licenziabili illegittimamente delimitata rispetto all’intero complesso aziendale, con conseguente applicazione della tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012;
5.2. parte ricorrente illustra, come autonomo motivo di censura, la circostanza che la Corte di Appello avrebbe erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla società, concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta, ai licenziamenti collettivi rispetto ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo, non ravvedendosi – secondo l’opinione dell’istante – “alcuna esigenza di diversità tra le due fattispecie”;
la doglianza non ha pregio;
opportuno premettere che, secondo questa Corte (da ultimo v. Cass. n. 14666 del 2020, con la giurisprudenza ivi richiamata), non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale, in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale, mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo, potendo, eventualmente, limitarsi a sollecitare il giudice a sollevare la questione di costituzionalità, che non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che prospettata d’ufficio, in ogni stato e grado del processo; ne deriva l’inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato come diretto esclusivamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale oppure a censurare il concreto esercizio del potere che compete al Giudice in materia, perché non può essere configurato al riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l’annullamento in sede di legittimità;
ove la censura della società sia intesa nel senso che la disciplina di tutela, così come interpretata da questa Corte ed applicata dai giudici del merito, ponga dubbi di legittimità costituzionale, sollecitando in tal modo la rimessione alla Corte costituzionale, il Collegio reputa che la questione, per come prospettata, sia priva di fondamento;
sin dalla sentenza n. 194 del 1970 il Giudice delle leggi ha affermato che l’attuazione dei principi cui si ispira l’art. 4 Cost., volti al contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro, resta “affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi” (nello stesso senso, successivamente, v. C. Cost. n. 55 del 1974, n. 189 del 1975, n. 2 del 1986, n. 194 del 2018); più di recente, nel sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale proprio la L. n. 92 del 2012, novellato art. 18, la Corte costituzionale ha precisato che “la molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni razionali”, sottolineando che “nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza”, tenuto conto delle disposizioni costituzionali “sul diritto al lavoro (art. 4 Cost., comma 1) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.)” (cfr. C. Cost. n. 59 del 2021);
orbene, evidenziato che l’interpretazione patrocinata dalla società ricorrente si tradurrebbe invece in un trattamento deteriore per la persona del lavoratore, che è proprio la parte del rapporto di lavoro che le richiamate pronunce della Corte costituzionale hanno inteso salvaguardare, ben può il legislatore prevedere un diverso regime sanzionatorio in caso di illegittimità di un licenziamento collettivo rispetto al caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo plurimo, rientrando tale scelta nell’ambito della sua potestà legislativa; né tale scelta appare irragionevole, sub specie di una ingiustificata diversità di trattamento, ponendo a confronto discipline tra loro così eterogenee, qual è quella del licenziamento ex L. n. 223 del 1991, che ha procedure e presupposti diversi rispetto alla disciplina del licenziamento ex L. n. 604 del 1966; tanto è confermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha da tempo escluso la “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale, proprio sull’argomento che “dopo l’entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda” (Cass. n. 5794 del 2004; Cass. n. 25353 del 2009; Cass. n. 22167 del 2010; Cass. n. 24566 del 2011);
6. conclusivamente il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione ai procuratori del controricorrente dichiaratisi antistatari;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022