Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.1252 del 17/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18416/2015 proposto da:

C.D., C.A., elettivamente domiciliate in Roma, Via Cassiodoro n. 1/a, presso lo studio dell’avvocato Annecchino Marco, rappresentate e difese dall’avvocato D’Alessandro Pietro, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Fallimento di Ci.Do., in persona del curatore prof. avv. D.G.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via Monte Santo n. 52, presso l’avvocato Baccari Antonio, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 279/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

lette le conclusioni scritte D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, del P.G.

in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Battista Nardecchia che chiede rigettarsi il ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. – Il fallimento di Ci.Do. ha convenuto in giudizio C.D. e A. deducendo che con contratto del 30 settembre 2003 il fallito aveva donato alla prima il diritto di usufrutto per la quota pari alla metà di un appartamento sito in *****, e alla stessa D. e ad A. il diritto di usufrutto per la quota pari alla metà di altro immobile sito in *****; l’attore ha spiegato che con precedente contratto del 2 giugno 2000 il fallito aveva venduto alla figlia D. la quota pari alla metà della nuda proprietà dell’immobile di *****, di cui si era riservato l’usufrutto, e alla figlia A. la quota pari alla metà della nuda proprietà dell’immobile di *****; ha dedotto che, con lo stesso atto del 2 giugno 2000, in forza di divisione tra le sorelle, già nude proprietarie di metà degli immobili per successione materna, era stata attribuita a D. la nuda proprietà dell’immobile di ***** e ad entrambe le figlie la nuda proprietà, in parti uguali, dell’immobile sito in *****. La curatela ha domandato al Tribunale di Napoli che fosse dichiarato inefficace, nei confronti del fallimento, a norma della L. Fall., art. 64, il contratto di donazione del 30 settembre 2003, siccome concluso nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, con condanna delle convenute alla restituzione delle quote di usufrutto loro donate, ovvero dell’equivalente monetario dei diritti parziari: il tutto oltre interessi, rivalutazione e maggior danno.

Nella resistenza delle sorelle C. il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda, dichiarando inefficace nei confronti del fallimento l’atto di donazione predetto. Il giudice di primo grado ha ritenuto che la cessione a titolo di liberalità dei diritti di usufrutto rientrasse nella disciplina di cui alla L. Fall., art. 64; ha osservato che l’estinzione dei diritti per il verificarsi della fattispecie contemplata dall’art. 1014 c.c., n. 2, aveva determinato l’impossibilità di addivenire a una statuizione restitutoria; ha nondimeno evidenziato che oggetto della domanda di revocatoria non era il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità ad esecuzione di un bene che, nell’interesse dei creditori, viene in considerazione soltanto per il suo valore: in conseguenza, ha reputato potesse essere pronunciata, anche d’ufficio, pronuncia di condanna al pagamento dell’equivalente monetario delle quote di usufrutto oggetto di donazione; a tal fine ha preso in considerazione il valore che i beni oggetto della garanzia avrebbero avuto nel momento dell’acquisto della loro disponibilità da parte del curatore.

2. – La sentenza del Tribunale partenopeo è stata impugnata da C.D. e A.; il gravame è stato avversato dalla curatela fallimentare, che ha proposto appello incidentale condizionato.

La Corte di appello di Napoli ha pronunciato il 10 ottobre 2012 una prima sentenza, non definitiva, con cui ha anzitutto dato atto che il contratto di donazione oggetto di causa era divenuto inefficace, giusta la L. Fall., art. 64, per effetto della dichiarazione di fallimento; con tale decisione il giudice del gravame ha evidenziato che, proprio in ragione della accertata inefficacia di quel negozio, non si era verificata la consolidazione dei diritti di usufrutto, sicché le sorelle C., contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non erano tenute a pagare il controvalore delle quote di usufrutto ma, quali nude proprietarie degli immobili, erano obbligate a corrispondere, per la parte corrispondente ai diritti di usufrutto oggetto di liberalità, i frutti di tali beni, dalla data della sentenza di fallimento a quella di chiusura dello stesso. La stessa Corte di merito, a tal fine, ha individuato detti frutti in quelli, civili, consistenti nel corrispettivo della locazione degli immobili e ha quindi rimesso la causa in istruttoria con separata ordinanza onde procedere all’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio volta a determinare l’importo di tale corrispettivo.

Con successiva sentenza definitiva, pubblicata il 19 gennaio 2015, la Corte di Napoli ha poi condannato C.D. e A. al pagamento delle somme corrispondenti al valore locativo degli immobili, per come accertato a mezzo della disposta consulenza tecnica.

3. – Entrambe le pronunce sono state impugnata per cassazione dalle sorelle C.: i motivi di ricorso sono tre. Uno e’, invece, il motivo di ricorso incidentale condizionato fatto valere dalla curatela fallimentare, la quale resiste all’impugnazione principale con controricorso. Il pubblico ministero ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso principale. Le ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo di ricorso principale viene denunciata per cassazione la violazione del principio del giudicato interno. Rilevano le ricorrenti che la vicenda afferente il diritto di usufrutto, estintosi per consolidazione, risulterebbe coperta dal giudicato interno in quanto la relativa statuizione non sarebbe stata oggetto di appello.

Il motivo non ha fondamento.

Nella sentenza di primo grado il Tribunale ha anzitutto dato atto della soggezione dell’atto di donazione alla prescrizione contenuta nella L. Fall., art. 64; ha quindi affermato che le convenute dovevano essere condannate all’equivalente monetario dei diritti di usufrutto: e ciò in quanto era impossibile la restituzione del bene, stante l’estinzione dei diritti, a norma dell’art. 1014 c.c., n. 2. Tale estinzione dipenderebbe, in sostanza, dal rilievo giuridico che, ad onta dell’azione intrapresa dalla curatela fallimentare, conserverebbe la consolidazione dell’usufrutto conseguente alla donazione posta in essere dal fallito.

Quanto ritenuto dal Tribunale con riguardo all’estinzione non può considerarsi statuizione suscettibile di passaggio in giudicato. Al di là del rilievo per cui la detta vicenda estintiva è implicitamente, e contraddittoriamente, negata dallo stesso giudice di primo grado, laddove ha ritenuto la soggezione dell’atto di liberalità alla disciplina di cui al cit. art. 64 (giacché, come rilevato dalla Corte di appello, l’inefficacia del contratto di donazione ha evidentemente impedito la consolidazione dei diritti di usufrutto in capo alle nude proprietarie), è evidente che il tema dell’estinzione o meno dei diritti di usufrutto spettanti alle odierne ricorrenti integri una questione giuridica su cui non può essere caduto il giudicato interno. Secondo l’insegnamento risalente di questa Corte, non sono suscettibili di passare in giudicato quei capi della pronuncia che, sebbene non impugnati, sono strettamente collegati da rapporto pregiudiziale o consequenziale ad altri capi direttamente impugnati (Cass. 27 marzo 1980, n. 2028; Cass. 26 febbraio 1983, n. 1494; Cass. 2 marzo 2010, n. 4934): e nella fattispecie, in appello, come ricorda la sentenza non definitiva (pag. 5), si è fatta questione dell’ammissibilità di un’azione (quella revocatoria) avente ad oggetto un diritto estintosi per consolidazione. E’ inoltre da considerare che, nell’assumere l’estinzione dei diritti di usufrutto delle sorelle C. il Tribunale ha inteso escludere che l’inefficacia L. Fall., ex art. 64, dell’atto di liberalità potesse impedire la consolidazione dei diritti di usufrutto che il fallito aveva inteso donare alle nude proprietarie: ed è questa una enunciazione di puro diritto insuscettibile di passaggio in giudicato. Infatti, la preclusione per effetto di giudicato sostanziale può scaturire solo da una statuizione che abbia attribuito o negato “il bene della vita” preteso e non anche da una pronuncia che non contenga statuizioni al riguardo, pur se essa risolva questioni giuridiche strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso (Cass. 12 marzo 1996, n. 2038). Il giudicato si forma, cioè, non sulla mera questione giuridica decisa né sugli accertamenti incidentali non devoluti alla cognizione del giudice, ma solo sulla attribuzione di uno o più beni della vita (Cass. 5 luglio 1995, n. 7402).

2. – Il secondo motivo dell’impugnazione principale oppone la violazione e falsa applicazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c.. Lamentano le istanti che la Corte di merito abbia condannato le medesime al pagamento della quota pari alla metà dei frutti civili dei due immobili nonostante detta domanda non fosse stata mai proposta nel corso del giudizio di merito.

Il motivo è privo di fondamento.

Le ricorrenti non fanno questione dell’obbligo di restituire i frutti civili. Non pongono nemmeno in discussione la definizione dell’arco temporale in cui opererebbe la statuizione di condanna.

Le istanti piuttosto si dolgono, come accennato, della mancata proposizione di una domanda in tal senso.

La parte pubblica ha osservato sul punto che la condanna alla restituzione dei frutti civili costituisce una forma di quantificazione del valore dell’usufrutto e integra quindi “una modalità di reintegrazione della garanzia patrimoniale conforme all’accoglimento della revocatoria”.

La Corte, con specifico riguardo al tema dell’ultrapetizione sollevato con questo secondo motivo, rileva, semplicemente, che il fallimento ha inteso agire per la declaratoria di inefficacia dell’atto di liberalità concretatosi con la costituzione dei diritti di usufrutto sugli immobili di cui si è detto; in tale prospettiva, la domanda di pagamento svolta fin dal primo grado del giudizio, e avente ad oggetto “l’equipollente monetario dei diritti parziari” (cfr. sentenza non definitiva, pag. 3), ribadita in appello avendo riguardo a qualsiasi “somma ritenuta congrua” (sent. cit., pag. 2), non consentiva affatto di escludere che la liquidazione di quanto spettante alla curatela in ragione della suddetta declaratoria potesse operarsi sulla base dell’ammontare dei frutti civili ritraibili dai due cespiti (frutti civili da considerarsi rappresentativi, in termini monetari, del diritto di godimento spettante all’usufruttuario).

3. – Col terzo mezzo le sorelle C. muovono una censura di “violazione e falsa applicazione del principio dell’onere della prova posto dall’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.”. Le ricorrenti si dolgono di ciò: la Corte distrettuale ha condannato le medesime al pagamento dei frutti civili anche se il fallimento non aveva offerto prova alcuna dell’ammontare di detti frutti; la pronuncia risulterebbe infatti fondarsi su di una consulenza tecnica d’ufficio che il curatore non ha mai richiesto e che, ad avviso delle stesse istanti, non avrebbe valore di prova civile.

Il motivo deve essere disatteso.

La deduzione delle ricorrenti, secondo cui risulterebbe erronea la sentenza definitiva ove assume che sarebbero inammissibili le doglianze relative alla nomina del consulente tecnico, è da condividere. La nomina del c.t.u. ha avuto difatti luogo con l’ordinanza di rimessione in istruttoria e, in conseguenza, nulla si opponeva al riesame del provvedimento da parte della Corte distrettuale.

Tanto non basta, però, a dar ragione della fondatezza del motivo. Infatti, la consulenza tecnica, la necessità del cui espletamento era stata argomentata dalla Corte di appello nella sentenza del 2015, ben può avere ingresso nel giudizio quando venga disposta per accertare elementi rispetto ai quali essa si presenta come lo strumento più funzionale ed efficiente di indagine e il giudice la ritenga necessaria (come nel caso in esame, in cui si trattava di quantificare il valore locativo degli immobili) per integrare le sue cognizioni tecniche (si veda, ad esempio, Cass. 3 maggio 1978, n. 2055, con riferimento a consulenza tecnica disposta per accertare il valore di mercato di un immobile, alienato dai falliti, tornati in bonis, e oggetto di azione revocatoria a seguito della risoluzione del concordato e della riapertura del fallimento; sul tema, ancora: Cass. 10 novembre 1988, n. 6055; Cass. 1 settembre 1995, n. 9211; cfr. pure Cass. 28 ottobre 1995, n. 11263, circa l’esperibilità della consulenza tecnica sul canone corrente di mercato di un immobile, quale nozione basata su una serie di fattori che rientrano nella comune esperienza, variabile nel tempo e suscettibile, a seconda dell’ubicazione del bene e di altri dati di varia natura, a determinare il valore di mercato: elementi – questi – connessi a fattori tecnici che la Corte precisa essere nella disponibilità di una cerchia di persone fornite di particolari cognizioni).

4. – Il motivo di ricorso incidentale condizionato oppone la violazione e falsa applicazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato previsto dall’art. 112 c.p.c.. Lamenta la curatela che la Corte di appello abbia rigettato una domanda intesa alla condanna “a restituire e a porre nell’immediata disponibilità del fallimento le quote di usufrutto (…) donate, ovvero l’equipollente monetario dei diritti parziari, oltre interessi, rivalutazione maggior danno ex art. 1224 c.c.” che non risultava essere stata proposta nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado.

Il motivo resta assorbito, stante il rigetto del ricorso principale.

5. – In conclusione, il ricorso principale è respinto, mentre quello incidentale resta assorbito.

6. – Le spese, secondo soccombenza, gravano sulle ricorrenti.

PQM

La Corte;

rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 27 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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