Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.1263 del 17/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31905/2019 proposto da:

Garante per la Protezione dei Dati Personali, in persona del Presidente pro tempore, domiciliato in Roma Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

G.G., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Immordino, Ivano Ivai, e Salvatore Ferrara, giusta procura in calce al controricorso e procura in calce alla memoria di costituzione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3563/2019 del TRIBUNALE di PALERMO, pubblicata il 18/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/11/2021 dal Cons. Dott. Marco Marulli.

FATTI DI CAUSA

1. L’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ricorre a questa Corte onde sentir cassare l’epigrafata sentenza con la quale il Tribunale di Palermo ha accolto l’opposizione proposta da G.G. avverso l’ordinanza-ingiunzione con cui la predetta autorità gli aveva intimato il pagamento della somma di 192.000,00 Euro a titolo di sanzioni per aver costituito illecitamente, e cioè in violazione delle disposizioni del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, una banca dati in cui aveva fatto confluire le risultanze acquisite nel corso dello svolgimento di 351 incarichi peritali affidatigli in varie località del paese dall’autorità giudiziaria penale.

Nel motivare l’assunto assolutorio, il Tribunale ha previamente ritenuto che, sebbene i fatti contestati si fossero svolti nel vigore del citato testo normativo prima delle modifiche introdottevi in attuazione del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, da D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 (GDPR) (“la questione di interesse, attiene in particolare alla intervenuta abrogazione di tutte le norme sulle quali era fondata l’ordinanza ingiunzione adottata dal Garante ed oggetto di impugnativa e se tale abrogazione assuma riflessi su fatti commessi ovviamente in data anteriore”), nella specie si rendesse applicabile, in considerazione della natura punitiva e quindi penalistica delle norme sanzionatorie recate da tale ultimo testo normativo (“ora la natura “punitiva” delle sanzioni contemplate dal D.Lgs. n. 101 del 2018, art. 166 e art. 83 GDPR discende direttamente… dall’identità di condotte punite dal punto di vista oggettivo”), peraltro in sostanziale continuità con il testo previgente (“dal quadro normativo esposto e dal confronto dettagliato delle norme dianzi riportato emerge con chiarezza la continuità tra gli illeciti amministrativi oggetto di sanzione”) e nell’osservanza del principio della lex mitior, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 166, comma 10 (“le disposizioni relative a sanzioni amministrative previste dal presente codice e dall’art. 83 del Regolamento non si applicano in relazione ai trattamenti svolti in ambito giudiziario”), di guisa che, avendo acquisito i dati in questione nel corso della sua attività di perito, il G. era esentato dall’osservare le norme dettate dal D.Lgs. n. 196 del 2003 a tutela dei dati personali. E poiché d’altro canto non vi era prova (“nel provvedimento del Garante… non si fa alcuna menzione né si procede ad un’analisi specifica di quali banche dati si riferivano a procedimenti definiti… e quali, di contro, erano riferiti ad indagini ancora in corso”) che il G. avesse trattenuto e trattato i dati così acquisiti oltre i tempi richiesti dalle consulenze affidategli (“ora, nella specie, tutta la documentazione prodotta in questo giudizio dimostra che la gran parte degli incarichi peritali erano ancora non esauriti”), nessun illecito era perciò al medesimo addebitabile, tanto più considerando la perdurante l’utilità di detti dati (“… gran parte del materiale allegato era costituito da link dinamici, consultabili mediante accesso interattivo dal sito web protetto gestito dallo stesso consulente che dunque continua ad operare anche dopo il deposito della relazione, sulla base di un sistema riconosciuto ed accreditato dall’autorità procedente”).

Ne’, poi, in pari chiave scriminante, era trascurabile il disposto del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 2-octies, comma 3, lett. e), (“il trattamento di dati personali relativi a condanne penali e a reati o a connesse misure di sicurezza è consentito se autorizzato da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, riguardanti, in particolare… e) l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”), sicché anche sotto questo profilo, attesa l’utilizzazione dei dati acquisiti ai fini della propria tutela in giudizio, il G. andava immune da colpe illegittimamente sanzionate con l’ordinanza impugnata.

Il ricorso ora proposto dal Garante per la cassazione della sentenza impugnata si vale di sei motivi di ricorso illustrati pure con memoria, ai quali resiste il G. con controricorso, nell’illustrare le ragioni del quale ha pure instato per la condanna della parte ricorrente per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., comma 1.

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. E’ bene chiarire previamente, anche al fine di dar conto dell’inaccoglibilità dell’istanza da ultimo formulata dal G., che sebbene ai sensi dell’art. 2, p. 2, lett. c), del GDRP le disposizioni del regolamento, secondo l’intendimento espresso dal 18 considerando (“Il presente regolamento non si applica al trattamento di dati personali effettuato da una persona fisica nell’ambito di attività a carattere esclusivamente personale o domestico e quindi senza una connessione con un’attività commerciale o professionale. Le attività a carattere personale o domestico potrebbero comprendere la corrispondenza e gli indirizzari, o l’uso dei social network e attività online intraprese nel quadro di tali attività. Tuttavia, il presente regolamento si applica ai titolari del trattamento o ai responsabili del trattamento che forniscono i mezzi per trattare dati personali nell’ambito di tali attività a carattere personale o domestico”), non si applichino “al trattamento di dati personali effettuato da una persona fisica nell’ambito di attività a carattere esclusivamente personale o domestico”, nondimeno nella specie la circostanza che il G. abbia trattato i dati acquisiti nel corso della sua attività consulenziale, costituendo una vera e propria banca dati, non rendeva ingiustificata l’indagine condotta dall’autorità, non potendo a priori ritenersi che per il modo in cui il G. era pervenuto all’acquisizione dei dati in questione, ovvero nello svolgimento della propria attività professionale, che la loro acquisizione avesse carattere personale e domestico e fosse perciò automaticamente esentata dall’osservanza delle norme di tutela.

3.1. Ciò premesso, il ricorso dell’Autorità – alla cui trattazione non si oppone la preclusione fatta valere in via generale dal controricorrente dacché ne sono incontestabili i profili di diritto allega al primo motivo la violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 166, comma 10, ed all’art. 117 Cost. e art. 7 CEDU, nonché in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 46, 47, 161, art. 162, comma 2-bis e art. 164-bis, comma 2, applicabili ratione temporis. Si assume che poiché il G. è stato mandato assolto dagli addebiti contestatigli in applicazione dell’esimente introdotta con l’art. 166, comma 10, D.Lgs., a seguito delle modifiche di cui al D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, art. 15, comma 1, lett. a), e quindi in applicazione di una norma entrata in vigore successivamente alla consumazione delle condotte illecite, il ragionamento alla radice di questa conclusione sarebbe doppiamente viziato: da un lato perché il decidente per addivenire all’applicazione dell’esimente ha riconosciuto la natura penale delle norme sanzionatorie applicate dal D.Lgs. n. 196 del 2003, ed in ragione di ciò si è appellato al principio della lex mitior quantunque al contrario fosse dimostrabile che nella materia di che trattasi il legislatore si era orientato in direzione di un sistema del “doppio binario”, contemplante accanto a sanzioni penali autonome sanzioni amministrative; dall’altro perché il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 166, comma 10, non ha introdotto alcuna novità rispetto al precedente impianto normativo, vero che anche prima delle modifiche di cui al D.Lgs. n. 101del 2018, non erano previste sanzioni per i trattamenti svolti in ambito giudiziario, in tal senso disponendo del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 46 e segg., che dispensavano dall’osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 13, 23 e 27 del codice ed escludevano di conseguenza l’applicazione della sanzione di cui all’art. 164-bis, comma 2, del codice.

3.2. Il motivo non ha pregio.

Come per vero rileva conclusivamente la stessa parte ricorrente, la condotta del G. risulterebbe immune da responsabilità anche nel vigore delle richiamate disposizioni antecedenti del D.Lgs. n. 196 del 2003, non essendo soggetto all’obbligo di informazione, alla previa acquisizione del consenso ed ancora al rilascio delle autorizzazioni del caso, il trattamento dei dati personali che avviene in ambito giudiziario. Ne discende che giusto o sbagliato che sia l’iter decisionale decritto dalla sentenza in impugnazione la conclusione a cui essa è pervenuta non è influenzata dal diverso quadro di diritto illustrato dalla ricorrente autorità, dato che in ogni caso il trattamento dei dati personali che avviene per fini di giustizia è scevro da adempimenti di carattere formale e non è perciò sanzionabile. Gli esiti dell’odierna vicenda processuale non si giocano perciò su questo terreno, ma su quello diverso – pure oggetto di indagine da parte della sentenza impugnata – dell’effettiva inerenza del trattamento dei dati operato dal G. al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta e, più estesamente, le altre attività indicate dall’art. 4, comma 1, lett. a) del codice anche in assenza dell’informazione e del consenso da parte degli interessati.

3.3. Ciò non rende, d’altro canto, la tesi che la ricorrente intende far valere con il motivo irragionevole, poiché essa si giustifica causalmente in funzione del fatto che il G. nell’introdurre l’opposizione aveva sostenuto che le condotte imputategli non fossero più perseguibili per intervenuta abolitiio criminis, invocando l’applicazione retroattiva delle disposizioni modificative di cui al D.Lgs. n. 101 del 2018 e del relativo regolamento unionale e, dunque, del tutto legittimamente era interesse dell’Autorità contrastare questo asserto confutandone globalmente il presupposto, pur se con il corollario che nulla era mutato nel passaggio dal vecchio al nuovo regime.

Ma così facendo la censura che dunque mira a conseguire una diversa lettura giuridica della fattispecie si espone ai rilievi ostativi più volte formalizzati da questa Corte, dell’avviso infatti che poiché “l’interesse all’impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire – sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall’art. 100 c.p.c. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’eventuale accoglimento del gravame e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata” (Cass., Sez. IV, 23/05/2008, n. 13373).

E dunque il motivo non può che essere sanzionato di inammissibilità.

4.1. Con il secondo motivo di ricorso si censura l’impugnata decisione per omesso esame di un fatto decisivo, posto che nello scrutinare il merito e nell’accertare che i dati asseritamente trattati in modo illecito dal G. costui non avesse utilizzato i medesimi per finalità estranee all’ambito giudiziario in cui ne era avvenuta l’acquisizione, il decidente avrebbe pretermesso ogni considerazione sul fatto contrario che, come rappresentato in più passaggi degli scritti difensivi – evidenzianti, in particolare, che i dati in questione erano stati autonomamente trattati dal G., erano stati resi accessibili anche a soggetti estranei all’ambito giudiziario di pertinenza, erano stati fatti confluire in un database liberamente organizzato dal G. e altro ancora – il G., acquisiti i dati anzidetti, li avesse utilizzati per finalità estranee all’espletamento delle attività peritali affidategli dall’autorità giudiziaria.

4.2. Il motivo non ha pregio.

Premesso, per vero, che le allegazioni con esso operate dall’Autorità ricorrente non assurgono alla dignità del fatto secondo l’accezione che di esso modella l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 secondo la lettura nomofilattica enunciata dalle SS.UU. 8053 e 8054 del 2014, rivestendo al più la natura di elementi istruttori la cui obliterazione non è fonte di vizio del ragionamento decisorio, attesa la restrizione del perimetro entro cui l’errore motivazionale si rende attualmente perseguibile, va qui ribadito il principio che nel valutare le risultanza istruttorie secondo il proprio prudente apprezzamento il giudice è libero di scegliere le fonti del proprio convincimento, sicché, laddove nel deliberare la decisione egli selezioni le fonti di prova secondo il proprio discernimento e ne riconosca la maggiore efficacia persuasiva di alcune rispetto ad altre e di ciò renda congrua ed adeguata motivazione, egli assolve incensurabilmente il proprio ufficio decisorio, giacché appartiene solo a lui il compito di valutare le prove e di trarre da esse le conclusioni del caso.

Ora, pur in disparte dall’ostativo rilievo di cui si è detto in premessa, nessun addebito è sotto il profilo teste’ soppesato elevabile in danno della sentenza qui in disamina, che ha fatto rilevare come la tesi accusatoria risulti intrinsecamente penalizzata dall’essere stati gli accertamenti istruttori – dichiaratamente parziali e “a campione” chiosa la ricorrente – condotti dall’Autorità garante riguardo al punto dirimente del trattamento dei dati oltre i tempi leciti e cioè senza procedere ad “un’analisi tecnica approfondita rispetto a tutti i 351 incarichi e su ciascuno essi conferiti al G. dalle autorità giudiziarie di tutta Italia, alfine di verificare l’eventuale conservazione e trattamento dei dati al di fuori dei tempi richiesti ed autorizzati per l’espletamento delle singole perizie, secondo lo schema normativo dianzi delineato, operando un discrimen tra ciò che avrebbe dovuto essere restituito per incarico interamente esaurito – il cui possesso avrebbe integrato violazione della normativa della privacy – e ciò che doveva essere trattato legittimamente perché assistito dal mandato dell’AG conferente rispetto ad un incarico consulenziale non ancora effettivamente esaurito”. Rilievo che porta, da un lato, a rimarcare la congenita debolezza dell’impianto istruttorio su cui si regge l’accusa mossa nei confronti del G. e, dall’altro, per quanto qui di più specifico interesse, che le deduzioni di contrario segno del Garante restano perciò assorbite nel più generale rigetto delle sue tesi.

5.1. Con il terzo motivo di ricorso l’Autorità ricorrente lamenta la violazione dell’art. 407 c.p.p., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 47, comma 2 e art. 11, comma 1, lett. e), avendo l’impugnata decisione mandato assolto il G. dagli illeciti contestati sul visto presupposto che egli avesse trattato i dati acquisiti nel corso delle attività consulenziali per finalità inerenti all’ambito giudiziario, quantunque alla stregua delle norme i dati personali così acquisiti non potessero essere trattati oltre il termine di due anni previsto per il completamento delle indagini preliminari.

5.2. Il motivo non ha pregio.

Eppur vero, come affermato da questa Corte e come pure annota il decidente, che, allorché le indagini peritali siano, come qui, commissionate dal P.M. ai sensi dell’art. 359 c.p.p., non sia previsto alcun termine per il loro espletamento, diversamente dalle indagini di analoga natura disposte dal giudice del dibattimento per le quali l’art. 227 c.p.p. prevede il termine di sei mesi. Deve ritenersi, pertanto, applicabile il termine generale dello svolgimento delle indagini preliminari di cui all’art. 407 c.p.p., e dunque l’incarico consulenziale non dovrebbe protrarsi oltre il temine massimo di due anni. Tuttavia nel far proprio questo intendimento le Linee guida in materia di trattamento di dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero predisposte dall’Autorità garante prevedono in linea con l’indicazione risultante dall’art. 11, comma 1, lett. e) del codice, che, espletato l’incarico e terminato quindi il connesso trattamento delle informazioni personali, l’ausiliario debba consegnare oltre alla propria relazione la documentazione ricevuta al momento del conferimento dell’incarico e quella successivamente acquisita “salvo quanto eventualmente stabilito da puntuali disposizioni normative o da specifiche autorizzazioni dell’autorità giudiziaria che dispongano legittimamente ed espressamente in senso contrario”.

Dunque, alla luce della conclusiva riserva che si legge nelle istruzioni del Garante, quando la conservazione dei dati venga autorizzata dall’Autorità giudiziaria, il loro trattamento che si protragga oltre l’espletamento dell’incarico non è fonte di illecito in quanto avviene, proprio perché vi è un provvedimento autorizzatorio in tal senso, sempre per finalità connesse all’ambito giudiziario. La conseguenza di questa constatazione con riguardo al tema che ne occupa porta ancora una volta a rimarcare la debolezza dell’impianto accusatorio a servizio della tesi del garante poiché al fine di dimostrare l’illiceità delle condotte ascritte al G. anche condividendo l’impostazione del motivo, ogni determinazione sul punto non avrebbe potuto prescindere da due condizione, nella specie rimaste insoddisfatte. E per vero da lato si rendeva necessario, ai fini di coltivare fruttuosamente la perseguita prospettiva sanzionatoria, procedere all’accertamento – fondato è appena il caso di avvertire su un rigorosa e circostanziata ricognizione degli antecedenti fattuali delle contestazioni mosse – che per tutti i 351 incarichi ricevuti il G. avesse effettivamente conservato i dati acquisiti ben oltre il termine massimo delle indagini preliminari; e dall’altro, parimenti, che per tutti i 351 incarichi ricevuti non vi fosse un provvedimento autorizzatorio al trattamento dei dati anche ad incarico espletato dell’autorità giudiziaria per conto della quale le attività consulenziali erano state svolte. E le brevi osservazioni che la sentenza a titolo esemplicativo si dà cura di ostendere al riguardo con riferimento ai casi Ga. e T. danno piena contezza che quanto si contesta al G. non riposa su un solido ed inoppugnabile fondamento probatorio.

6.1. Con il quarto motivo di ricorso si rimprovera alla sentenza impugnata la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, in combinato disposto con il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 10 e degli artt. 24 e 111 Cost., poiché, posto che l’opposizione all’ordinanza ingiunzione, come quella proposta nella specie dal G., non dà luogo ad un giudizio sull’atto ma sul rapporto, il decidente non avrebbe dovuto accogliere sbrigativamente il ricorso, ma avrebbe dovuto addentrarsi nell’esame degli atti istruttori per accertare se effettivamente il trattamento dei dati di cui si discorre fosse avvenuto o meno per finalità di giustizia.

6.2. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta poi la violazione dell’art. 112 c.p.c., poiché, stante la ricordata natura del giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione, è fonte di un vizio di omessa pronuncia il fatto che il Tribunale si sia pronunciato sull’atto e non sul rapporto.

6.3. I motivi, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente avvinti, sono ambedue privi di pregio.

Non dubita per vero il collegio della indiscussa verità che assiste l’assunto secondo cui, come deduce la stessa ricorrente, l’opposizione all’ordinanza-ingiunzione non si configura come un’impugnazione dell’atto, ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza della stessa, con l’ulteriore conseguenza che il giudice ha certo il potere-dovere di esaminare l’intero rapporto, con cognizione non limitata alla verifica della legittimità formale del provvedimento, ma estesa – nell’ambito delle deduzioni delle parti all’esame completo nel merito della fondatezza dell’ingiunzione (Cass., Sez. U., 21/09/1998, n. 9433).

Ne’ peraltro, crede il collegio, che possa dubitarsi in ragione di ciò che nel giudizio che così si incardina l’amministrazione che irroga la sanzione per mezzo dell’ordinanza-ingiunzione opposta, pur essendo formalmente convenuta in giudizio, assuma sostanzialmente la veste di attrice (Cass., Sez. I, 7/03/2007, n. 5277; Cass., Sez. I, 16/03/2001, n. 3837; Cass., Sez. I, 30/03/1992, n. 3883); ed ancora che, coerentemente con i principi che governano la ripartizione dell’onere della prova tra le parti, spetta all’amministrazione ai sensi dell’art. 2697 c.c., fornire la prova dell’esistenza degli elementi di fatto integranti la violazione contestata e della loro riferibilità all’intimato, mentre compete all’opponente, che assume formalmente la veste di convenuto, la prova dei fatti impeditivi o estintivi (Cass., Sez. U., 30/09/2009, n. 20930).

Sulla base di queste premesse la censura ricorrente si svuota di ogni consistenza. Come si è visto, infatti, la tesi della ricorrente non è rimasta corroborata all’esito del vaglio che ne ha condotto il decidente, da un coerente, condivisibile e persuasivo bagaglio probatorio, non essendo stato effettivamente provato sulla scorta di “un’analisi tecnica approfondita” che il G. avesse trattato i dati in suo possesso per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne era avvenuta l’acquisizione. Il giudizio di cognizione ordinaria che si introduce per mezzo dell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione non si sottrae infatti alle ordinarie regole processuali che ne governano lo svolgimento, sicché se l’attore, in ossequio al principio dispositivo dell’art. 115 c.p.c., e al principio generale dell’art. 2697 c.c., non dia al giudice la prova delle proprie pretese, non può certo farne ammenda al giudice se la domanda da esso proposta in luogo di essere accolta venga respinta.

E quindi non ricorre nella specie né la violazione dei canoni processuali postulati dal giudizio di opposizione né tantomeno il lamentato vizio dell’omessa pronuncia.

7.1. Con il sesto motivo di ricorso è di scena la violazione del D.Lgs. n. 1996 del 2003, art. 2-octies, comma 3, lett. e) e art. 46, in cui a parere dell’Autorità ricorrente il Tribunale sarebbe incorso avallando la tesi difensiva fatta valere dal G. che questi avrebbe trattato i dati acquisiti nel corso delle attività peritali per esercitare un proprio diritto – segnatamente nei procedimenti in cui per questo era stato convenuto dagli interessati e nei procedimenti relativi alla liquidazione dei compensi -, quantunque l’esimente a tal fine enunciata dalla norma indicata in rubrica, ragione il deducente, operi solo a vantaggio dell’Autorità giudiziaria conferente e non certo a vantaggio del perito per far valere i propri diritti di privato cittadino in sede giudiziaria.

7.2. Il motivo non ha pregio, perché, respingendosi le censure sollevate con riguardo al profilo decisorio interloquente sulla mancata dimostrazione che il G. abbia trattato i dati in suo possesso per finalità estranee a quelle di giustizia che ne avevano reso legittima l’acquisizione, le ragioni che motivano la decisione sotto questo profilo sono rimaste al riparo dalla svolta impugnativa e tanto basta ad assicurare alla medesima il necessario fondamento logico-giuriridico. Conseguenza di ciò è che, se la ratio decidendi incarnata da quelle ragioni resta quindi salva, la ricorrente non ha interesse a censurare con il motivo in esame l’ulteriore ratio che si identifica nell’argomento secondo cui il G. avrebbe conservato in dati personali in suo possesso a tutela dei propri diritti, essendo noto che, quand’anche le censure fatte valere con questo motivo dovessero reputarsi fondate, il loro accoglimento non potrebbe comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, all’annullamento della decisione impugnata (Cass., Sez. I, 27/07/2017, n. 18641).

8. Il ricorso va dunque respinto.

9. Le spese, avuto riguardo alla doverosità dell’accertamento condotto nella specie dall’Autorità per le ragioni dianzi spiegate, possono essere integralmente compensate.

Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472