LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8819/2017 proposto da:
VIKIMAR S.A.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. GIUSEPPE NARDO, e domiciliate presso la cancelleria della Corte di Cassazione;
– ricorrente –
contro
SIEL S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI n. 4, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA SCAFARELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato LILIANA PINTUS;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 46/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 23/01/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/12/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 19.5.2005 Siel S.r.l. proponeva opposizione avverso il Decreto Ingiuntivo n. 335 del 2005, con il quale il Tribunale di Reggio Calabria le aveva ordinato il pagamento, in favore della società Vikimar S.a.s., della somma di Euro 41.515,04 a titolo di saldo del corrispettivo di alcune forniture di beni mobili. L’opponente eccepiva, in particolare, l’intervenuto pagamento del debito, allegando una lettera, proveniente dalla società creditrice, indicante un saldo di Euro 546,13, che era stato regolarmente saldato.
Nella resistenza della convenuta, il Tribunale rigettava l’opposizione, con sentenza n. 1479/2012.
Interponeva appello la Siel S.r.l. e la Corte di Appello di Reggio Calabria, con la sentenza impugnata, n. 46/2017, resa nella resistenza della società appellata, riformava la decisione di prime cure, accogliendo l’opposizione spiegata da Siel S.r.l. e revocando il decreto ingiuntivo opposto.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione Vikimar S.a.s., affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso Siel S.r.l..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 113 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto ammissibile l’appello, in assenza di specifica indicazione delle parti della sentenza meritevoli di riforma, della rilevanza dei vizi denunciati sulla decisione della controversia e di proposizione di un progetto alternativo di decisione.
La censura è in parte inammissibile ed in parte infondatata.
Occorre premettere che il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione è escluso dal perimetro del vizio di motivazione deducibile in Cassazione, ai sensi di quanto previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis, a seguito dell’entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, secondo cui l’anomalia motivazionale deducibile in Cassazione “… si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830), con conseguente esclusione dell’ammissibilità di ogni diverso profilo di vizio della motivazione. Sotto questo profilo, dunque, il motivo in esame è inammissibile.
Nel resto, la censura è infondata.
E’ stato infatti definitivamente chiarito che l’appello è ammissibile ogni volta che, in concreto, sia possibile individuare i motivi di gravame devoluti alla cognizione del giudice dell’impugnazione, non essendo richiesto dalla legge l’uso di alcuna formula sacramentale. Sul punto, va ribadito il principio secondo cui “Nel giudizio di appello – che non è un novum iudicium – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18932 del 27.9.2016, Rv. 641832; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9244 del 18.4.2007, Rv. 597867; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21566 del 18/09/2017, Rv. 645411).
Il principio è interpretato, con orientamento ormai consolidato, nel senso che “L’onere di specificità dei motivi di appello deve ritenersi assolto quando, anche in assenza di una formalistica enunciazione, le argomentazioni contrapposte dall’appellante a quelle esposte nella decisione gravata siano tali da inficiarne il fondamento logico giuridico” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18307 del 18.9.2015, Rv. 636741). In senso conforme, cfr. anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25218 del 29.11.2011, Rv. 620524, secondo la quale “Ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del 12/02/2016, Rv. 638551).
Nel caso di specie la società Siel S.r.l. aveva, con l’atto di impugnazione, contestato la decisione, adottata dal Tribunale, di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo, riproponendo le argomentazioni e le difese già esposte in prime cure e contestando l’esistenza del credito azionato in via monitoria da Vikmar S.a.s.. Il tema devoluto al giudice di appello, dunque, investiva l’intero rapporto negoziale sulla cui base quest’ultima società aveva proposto la sua iniziativa giudiziaria, ed in relazione ad esso l’appellante invocava una totale revisione del giudizio in fatto e in diritto condotto dal giudice di prima istanza.
Il giudice di appello, peraltro, ha riesaminato criticamente l’operato del Tribunale, pervenendo ad una soluzione opposta, sulla base del rilievo che, nella fase di opposizione, la società ingiungente non aveva raggiunto la prova del credito, ai fini della quale non poteva essere ritenuta sufficiente la mera fattura commerciale emessa dal creditore. Sotto questo profilo, dunque, non si configura alcun profilo di omissione della motivazione della decisione.
Con il secondo motivo, la società ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione degli artt. 112,113,115 c.p.c., artt. 2697 e 2710 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello non avrebbe posto a base della sua decisione i fatti non contestati dalla controricorrente, tra cui innanzitutto l’esistenza del rapporto di credito e l’accettazione tacita delle fatture sulla cui base si fondava la pretesa creditoria azionata dalla società ricorrente.
Con il terzo motivo, logicamente connesso al secondo, la società ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione degli artt. 113,115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poiché la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare l’incompatibilità logica tra le argomentazioni difensive proposte da Siel S.r.l. nel giudizio di opposizione e il disconoscimento delle prestazioni oggetto delle fatture azionate da Vikmar S.a.s. in via monitoria.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono inammissibili.
Da un lato esse ripropongono – come già evidenziato in relazione al primo motivo di ricorso – il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, ormai estraneo al perimetro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Dall’altro lato, la Corte di Appello ha correttamente osservato che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il ruolo di attore, in senso sostanziale, spetta al convenuto opposto, il quale dunque è tenuto a fornire la prova dell’an e del quantum del credito azionato. Ha anche, in coerenza con gli insegnamenti di questa Corte, ribadito che le fatture commerciali, nel giudizio di opposizione, non costituiscono prova idonea dell’esistenza del credito, perché sono documenti di formazione unilaterale provenienti dal creditore. Ha poi concluso che spettava al creditore – a fronte delle contestazioni mosse dall’opponente in relazione al difetto della prova del diritto di credito azionato – l’onere di fornire la prova positiva della sussistenza della posta creditoria oggetto della domanda proposta in via monitoria, se del caso anche mediante testimoni: prova che, tuttavia, non era stata, in concreto, conseguita.
L’interpretazione del giudice di merito è del tutto coerente con i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di riparto dell’onere della prova, secondo cui “In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento” (Cass. Sez. U., Sentenza n. 13533 del 30/10/2001, Rv. 549956; nell’affermare il principio di diritto che precede, le SS.UU. della Corte hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento).
Nel caso di specie, vertendosi in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, era onere del creditore fornire la prova del proprio credito, tenendo presente l’ulteriore principio secondo cui “La fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito, sicché, quando tale rapporto sia contestato, non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 299 del 12/01/2016, Rv. 638451; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 28/06/2010, Rv. 613803 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9593 del 20/05/2004, Rv. 572967).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.300, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legga.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2022
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