Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.1306 del 17/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 34264/2019 R.G. proposto da:

S.R., R.M.E., C.P. e RO.LU., rappresentati e difesi dall’Avv. GIOVAMBATTISTA CUCCI, presso il cui studio in Roma, via Giambattista Vico 40 sono elettivamente domiciliati;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso la cui sede in Roma, Via dei Portoghesi 12, è domiciliato ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Cassazione n. 12783/2019, depositata il 14.5.2019, N. R.G. 28524/2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21.12.2021 dal Consigliere Dott. Belle’ Roberto.

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI ANNA MARIA, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. S.R., R.E.M., Ro.Lu. e C.P. hanno agito nei confronti del Ministero dell’Economica e delle Finanze (di seguito, MEF) esponendo di essere dirigenti pubblici o (il R.) magistrati nominati, a norma della L. n. 146 del 1980, quali esperti tributari presso il Servizio Centrale degli Ispettori Tributari (di seguito SECIT) e rivendicando il proprio diritto al riconoscimento degli adeguamenti del trattamento economico onnicomprensivo e dell’indennità aggiuntiva spettanti per effetto del nuovo c.c.n.l. dell’Area 1 della dirigenza, al quale erano agganciati gli emolumenti dovuti ai componenti del SECIT.

2. La Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale della stessa sede, ha rigettato la domanda dei ricorrenti; a sua volta questa S.C. ha rigettato il ricorso per cassazione proposto contro la pronuncia della Corte territoriale.

3. S.R., R.E.M., Ro.Lu. e C.P. hanno quindi proposto ricorso per revocazione con un unico articolato motivo, resistito da controricorso del Ministero.

Il Pubblico Ministero ha trasmesso conclusioni scritte ed i ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il motivo di ricorso per revocazione sostiene l’esistenza di un “lampante errore di percezione” da parte della S.C., in quanto la realtà processuale dei gradi di merito escludeva nel modo più assoluto la trattazione della questione relativa all’interesse ad agire nei due gradi del giudizio di merito, sicché tale profilo era coperto da giudicato implicito, nel senso dell’accertata definitiva esistenza dell’interesse ad agire denegato.

Non era poi neppure vero, contrariamente a quanto asserito dalla S.C., che la sentenza di appello avesse fondato la propria ratio decidendi sulla questione dell’interesse ad agire, in quanto la pronuncia si era basata esclusivamente sulle ragioni di merito evidenziate nella motivazione svolta dalla Corte territoriale, mentre quello sull’interesse ad agire era soltanto un “avviso”, ancorché opinabile e contrastante con i fatti, ma dal quale la Corte d’Appello si era ben guardata dal trarre conseguenze decisorie.

Ancora errata era altresì l’affermazione della S.C. secondo cui il bene della vita rivendicato dai ricorrenti sarebbe consistito nel differenziale positivo tra il trattamento economico conseguente alla nuova contrattazione e quanto percepito presso l’ente di provenienza, poiché, in realtà, quanto richiesto era il riconoscimento dell’applicabilità nel nuovo c.c.n.l. 2002/2005 contenente i miglioramenti economici cui avrebbero dovuto essere parametrate la retribuzione “base” e la “speciale indennità” di funzione; ciò era conforme – prosegue il ricorso – alla realtà giuridica e di fatto del rapporto economico in essere, visto che i ricorrenti, anche in esito a precedente giudizio definito con sentenze passate in giudicato, già godevano del trattamento parametrato alla precedente contrattazione 1998/2001 e comunque la speciale indennità di funzione era del tutto svincolata dal trattamento percepito presso le amministrazioni di provenienza.

2. Il ricorso e’, nel suo complesso, inammissibile.

3. La Corte d’Appello aveva in prima battuta escluso che potessero derivare effetti di giudicato dalla precedente pronuncia inter partes del Tribunale e della Corte d’Appello di Roma, in quanto, oltre a non contenere tali decisioni una presa di posizione sulla natura “statica” o “dinamica” del rinvio operato dal D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22 alla contrattazione collettiva, in ogni caso esse riguardavano altro e precedente contratto collettivo.

3.1. Ciò posto, la Corte d’Appello aveva quindi ritenuto che “sebbene sia stato invocato il citato D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22 e sebbene la gravata sentenza fondi il proprio ragionamento proprio su questa norma.. gli appellanti si sono limitati ad una domanda generica di declaratoria del diritto al trattamento economico onnicomprensivo e della speciale indennità di funzione in misura pari al trattamento economico del dirigente di prima fascia stabilito dal C.C.N.L. 20022005, senza neppure indicare il trattamento economico percepito nel periodo in discussione”, con precisazione dalla stessa Corte di merito ritenuta “necessaria anche a valutare l’interesse ad agire”, sicché “sarebbe stato necessario allegare il trattamento economico di provenienza nonché dedurre e dimostrare che questo è stato inferiore a quello riconosciuto dalla previsione legislativa, ma ciò difetta nella controversia in esame”.

3.1 Nel prosieguo della pronuncia la Corte territoriale argomentava altresì sull’infondatezza della pretesa azionata, essenzialmente con riferimento al fatto che la contrattazione collettiva di cui si chiedeva l’applicazione, precisando all’art. 59, comma 5, che gli incrementi da essa previsti riguardavano i soli dirigenti dell’area 1 e non producevano effetti diretti ed indiretti su altre categorie di personale comunque economicamente equiparato, avrebbe reso priva di rilievo la questione sulla natura mobile o fissa del rinvio operato dal D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22 alla contrattazione collettiva stessa, proprio perché il rinvio del legislatore a quest’ultima non poteva che essere inteso nella sua interezza e, quindi, anche alle scelte delimitative in essa contenute.

4. Nel decidere sul ricorso per cassazione proposto avverso la menzionata sentenza di secondo grado, questa S.C. ha affermato, esaminando congiuntamente i tre motivi proposti, che essi erano “inammissibili, non valendo a censurare l’effettiva ratio decidendi dell’impugnata sentenza, data dal difetto di interesse ad agire dei ricorrenti” per i difetti di “allegazione e prova” rispetto al “differenziale sussistente tra i due distinti trattamenti economici” di cui ai richiamati passaggi della motivazione sviluppata dalla Corte territoriale.

5. La sentenza di cui si chiede la revocazione si fonda, dunque, sull’individuazione dell’argomento svolto in secondo grado rispetto al “differenziale” ed all'”interesse ad agire” come ratio decidendi e sul rilievo per cui i motivi non riguardavano (“non valendo a censurare”) tale aspetto.

5.1. L’affermazione in ordine a quale fosse stata la ratio decidendi della sentenza impugnata ha natura chiaramente interpretativa del senso del provvedimento in quella sede impugnato e si sottrae, come tale, all’ambito del mero errore di fatto, essendo tra l’altro indiscusso che quel passaggio argomentativo nella sentenza di secondo grado vi fosse.

Costituisce, infatti, orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a costituire motivo di revocazione, si configura come una falsa percezione della realtà, ossia una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato; in altre parole, l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, si risolve in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività, onde non è configurabile per supposti vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (Cass. 3 aprile 2009, n. 8180 ed altre sempre conformi, tra cui Cass. 1 novembre 2009, n. 24369; Cass. 20 giugno 2017, n. 15346, proprio sulla pretesa violazione di un giudicato interno; Cass. 28 maggio 2019, n. 15346).

5.2 La mancanza di un motivo riguardante quella ratio decidendi e’, poi, aspetto in sé incontestato e non è su ciò che si fonda il ricorso per revocazione.

Del resto, i motivi del ricorso per cassazione riguardavano profili diversi da quelli inerenti all’interesse ad agire e al c.d. “differenziale”, investendo essi il merito giuridico della pretesa, sotto il profilo (primo motivo) dell’inadeguata valutazione del giudicato (esterno) costituito dal precedente inter partes e l’omesso apprezzamento del giudicato (interno) derivante dall’omessa impugnazione della statuizione di primo grado sulla natura “dinamica” del rinvio del D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22 alla contrattazione collettiva; oppure (secondo motivo) il vizio di ultrapetizione o di omesso esame di “punto” decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5) per avere la Corte d’Appello ritenuto superfluo l’esame della natura “statica” o “dinamica” del predetto rinvio, in ragione della clausola “autolimitativa” di cui all’art. 59, comma 5, della contrattazione collettiva, sebbene le stesse difese della parte pubblica si concentrassero sulla decisiva natura di quel rinvio e nonostante che quello fosse il vero punto centrale della controversia; infine (terzo motivo), per avere la Corte di merito erroneamente inteso il citato D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22, come tale da non contenere un rinvio dinamico al parametro collettivo.

5.3 Infine, una volta ritenuto che l’argomentazione sull’interesse ad agire ed il “differenziale” individuasse un autonomo fondamento decisionale, è privo di rilievo il fatto che essa fosse l’unica o la prevalente ratio decidendi.

E’ vero, infatti, che alla menzionata argomentazione se ne aggiungevano, nella sentenza di appello, anche altre.

Tuttavia, in mancanza di uno specifico motivo riguardante quegli aspetti dell’interesse ad agire e del “differenziale”, ne sarebbe comunque derivato – secondo l’impostazione interpretativa data dalla sentenza della S.C. e qui intangibile – il necessario rilievo di inammissibilità, stante il consolidato principio per cui ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Cass. 27 luglio 2017, n. 18641; Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; v. anche, con impostazione lievemente diversa ma con identici effetti, Cass. 6 luglio 2020, n. 13880).

6. Inammissibili sono altresì le argomentazioni con cui si sollecita l’attenzione, nel ricorso per revocazione, su eventuali erroneità nell’interpretazione dell’originaria domanda, in quanto fondata su un differenziale in re ipsa (per godere già i ricorrenti del trattamento di dirigenti di prima fascia in applicazione dei parametri di cui al precedente c.c.n.l.) o su un emolumento privo di natura differenziale (l’indennità di funzione).

Infatti, su tali profili, la S.C., nell’ordinanza di cui si chiede la revocazione, non si è pronunciata, proprio perché non erano state censurate le argomentazioni della Corte d’Appello sull’interesse ad agire e sulla necessità di allegare un differenziale tra il trattamento rivendicato e quello “di provenienza”.

7. Analogamente, sebbene sia l’ordinanza qui impugnata a parlare di “differenziale” come “bene della vita” conseguibile sulla base dell’azione proposta, ciò non significa che sia stata la S.C. a svisare l’oggetto del contendere, in quanto tali affermazioni hanno, nel senso della decisione di cui si richiede la revocazione, portata descrittiva di quanto argomentato dalla Corte di merito in ordine alla necessità – si cita testualmente dalla sentenza di appello – “di allegare il trattamento economico di provenienza, nonché dedurre e dimostrare che questo non è stato inferiore a quello riconosciuto dalla previsione legislativa, ma ciò difetta nella controversia in esame”.

Sicché si tratta ancora di profilo interpretativo del senso della decisione di appello, come tale estraneo al rimedio in esame secondo quanto già precisato al punto 5.1 che precede e comunque riguardante un’argomentazione oggettivamente presente nella sentenza di secondo grado e, dunque, insuscettibile di qualificazione in termini di mero errore percettivo rispetto al contenuto di essa.

8. Infine, resta fuori dall’ambito della revocazione l’asserito errore della sentenza impugnata che, secondo il ricorso, avrebbe trascurato il formarsi di un giudicato implicito rispetto alla questione sull’interesse ad agire: tale profilo non individuerebbe un errore percettivo rispetto ad un fatto, ma – semmai e in astratta ipotesi – un errore valutativo (v. Cass. 15346/2017 cit.) e, per giunta, anch’esso risalente già alla sentenza di appello, che su quell’interesse ha espressamente argomentato e che quindi – va ribadito anche sotto questa ulteriore angolazione – avrebbe dovuto semmai essere specificamente impugnata per cassazione sul punto; ciò non è avvenuto, atteso che le questioni sul giudicato (esterno ed interno) sollevate in quella sede riguardavano essenzialmente la natura del rinvio (asserito come dinamico) di cui al citato D.P.R. n. 107 del 2001, art. 22, e gli effetti delimitativi o meno riconducibili, rispetto a tale rinvio, al disposto dell’art. 59, comma 5, della nuova contrattazione collettiva.

9. In definitiva mancano i presupposti propri dell’errore di fatto revocatorio per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4, della sentenza della Corte di Cassazione oggetto di contestazione.

10. All’inammissibilità del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese della presente impugnazione.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso per revocazione e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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