Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza Interlocutoria n.1308 del 17/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARI Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 88-2016 proposto da:

MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;

– ricorrente –

contro

CE.FU., C.C.A., nella loro qualità di genitori esercenti la patria potestà sulla figlia minore CE.FR., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA F. DENZA n. 15, presso lo studio dell’avvocato ANIELLO IZZO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARMANDA LESSINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 432/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 09/10/2015 R.G.N. 444/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/2021 dal Consigliere Dott.ssa CALAFIORE DANIELA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MUCCI ROBERTO visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

RILEVATO IN FATTO

che:

con sentenza n. 432 del 2015, la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’impugnazione proposta dal Ministero della Salute nei confronti di Ce.Fu. e C.C. (genitori e legali rappresentanti della minore Ce.Fr.) avverso la sentenza di primo grado che aveva condannato il medesimo Ministero, in relazione alla somministrazione del vaccino trivalente (anti morbillo, parotite e rosolia) alla corresponsione dell’indennizzo previsto dalla legge per le patologie della I categoria della tabella A allegata al D.P.R. n. 834 del 1981 a decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della domanda, nonché ad erogare l’ulteriore indennizzo previsto dalla L. n. 229 del 2005 (consistente in un assegno vitalizio di importo pari a sei volte l’importo percepito dal danneggiato ai sensi della L. n. 210 del 1992 e dell’importo aggiuntivo una tantum corrispondente al 30 % per ogni anno, dell’indennizzo dovuto ai sensi della L. n. 210 del 1992, per il periodo compreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento del beneficio);

la Corte territoriale, rigettando il motivo d’impugnazione relativo alla decadenza definitiva del diritto alle prestazioni, ha confermato la sentenza del Tribunale la quale aveva dato atto che in data 15 giugno 2012 il Ministero aveva riconosciuto il nesso causale tra il vaccino inoculato e la patologia indicata in ricorso e che la natura assistenziale del diritto in questione ne determinava l’imprescrittibilità e la operatività della decadenza limitatamente al triennio antecedente alla presentazione della domanda; conseguentemente, aveva riconosciuto il diritto a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda e cioè dal 1.7.2010;

avverso tale sentenza ricorre per cassazione il Ministero della Salute sulla base di un motivo;

resistono, con controricorso, Ce.Fu. e C.C. n. q. che hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.;

il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23 bis conv. in L. n. 176 del 2020.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

con l’unico motivo di ricorso, il Ministero della Salute lamenta la violazione e la falsa applicazione della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, in quanto la sentenza impugnata non aveva tenuto conto del fatto che la domanda di indennizzo era stata presentata tardivamente rispetto al termine perentorio di tre anni previsto dalla citata disposizione, decorrente dal momento in cui gli interessati acquisiscono conoscenza del danno e del nesso di causalità intercorrente tra la vaccinazione ed il danno;

in particolare, deduce il ricorrente, la somministrazione del vaccino era avvenuta il 19 marzo 2002 ed a distanza di 11 giorni, la bambina aveva mostrato disturbi della deambulazione con disequilibrio e perdita delle forze dell’arto inferiore e superiore sinistro, accompagnata da sonnolenza, irritabilità, ridotto interesse per il contesto e regressione del linguaggio. Da tali sintomi, a seguito di ricovero e ripetuti esami, era derivata la diagnosi di encefalopatia post vaccina, come attestato dalla scheda di dimissioni del 5 luglio 2002 versata in atti;

nel giugno del 2003, la Commissione per l’accertamento degli stati di invalidità civile aveva accertato la totale invalidità con la medesima diagnosi; da ciò il determinarsi della definitiva decadenza, in piena coerenza con quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 342 del 2006 e dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 7240 del 2014);

va osservato, in via preliminare, che il Procuratore Generale ha rilevato l’inammissibilità del motivo in quanto: 1) esso non riporta i termini della censura svolta dall’amministrazione in appello; 2) non si confronta con la motivazione addotta dalla Corte d’appello in punto di prescrittibilità dei singoli ratei e non del diritto in sé considerato, né in punto di avvenuto riconoscimento del nesso causale nelle more del giudizio; 3) il medesimo motivo, sotto il velo della violazione di legge, introdurrebbe una questione di fatto non deducibile nel giudizio di legittimità dal momento che si basa, in via apodittica, sulla diagnosi del 5 luglio 2002 quanto al momento di effettiva consapevolezza del danno subito e della sua derivazione causale da vaccino;

tali obiezioni non colgono interamente nel segno, giacché se è vero che il motivo non si confronta pienamente con la sentenza impugnata, la quale non ha disconosciuto l’operatività del regime della decadenza previsto dalla L. n. 210 del 1992, art. 3, ma lo ha ritenuto riferibile al solo triennio precedente la domanda amministrativa, non vi è dubbio che il ricorso miri alla cassazione della sentenza sulla base dei medesimi dati di fatto accertati nel giudizio di merito ed in quanto si affermi la decadenza tout court del diritto all’indennizzo;

si tratta cioè di un effetto di integrale decadenza, fondato sulla incontestata situazione emersa in fatto relativa alla certezza sin dal 5 luglio 2002 della diagnosi sulla origine vaccinale della encefalite, che contiene e supera l’ipotesi minore, la cd. decadenza “mobile”, ritenuta dalla sentenza impugnata;

quest’ultima forma di operatività del meccanismo decadenziale è stata applicata dai giudici del merito in ragione della sola natura assistenziale, sottesa a scopi di solidarietà sociale, attribuibile all’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992; semplicemente, cioè, facendo applicazione dei principi elaborati dalla Corte di cassazione a SS.UU. N. 10955 del 2002, resa in tema di prescrizione del diritto agli interessi sui ratei di prestazioni assistenziali e previdenziali corrisposti in ritardo, nel punto in cui si è precisato che “(…) ferma restando l’imprescrittibilità del diritto alla prestazione previdenziale o assistenziale garantita dall’art. 38 Cost. in quanto connesso ad uno status del cittadino, si prescrivono (oppure da essi si può decadere), invece, i diritti esclusivamente patrimoniali, cioè i singoli crediti periodicamente risorgenti (che maturano per ciascun mese o alla scadenza di un periodo più lungo), in quanto sono espressione del diritto alla prestazione e vengono denominati “ratei””;

il ricorso supera, dunque, il vaglio di ammissibilità e va deciso nel merito;

RILEVANZA DELLA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITA’:

ritiene questa Corte di cassazione che in punto di fatto sia ormai incontrovertibile, perché pacifico tra le parti ed appurato dalla sentenza impugnata, che la piena consapevolezza del danno subito dalla minore e della sua derivazione causale dal vaccino fosse presente sin dal 5 luglio 2005, mentre la domanda amministrativa fu presentata il 22 giugno 2010, quando i tre anni previsti dalla L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, erano certamente decorsi;

ciò premesso, va rilevato che la via interpretativa seguita dalla Corte d’appello non può essere condivisa innanzi tutto in ragione del tenore testuale della disposizione contenuta nella L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, nel testo vigente ed applicabile alla fattispecie concreta, secondo il quale”1.

I soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, presentano alla USL competente le relative domande, indirizzate al Ministro della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post-trasfusionali o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV. I termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno. La USL provvede, entro novanta giorni dalla data di presentazione delle domande, all’istruttoria delle domande stesse e all’acquisizione del giudizio di cui all’art. 4, sulla base di direttive del Ministero della sanità, che garantiscono il diritto alla riservatezza anche mediante opportune modalità organizzative”;

la disposizione non fa cenno alcuno ad un effetto decadenziale limitato a singole parti della prestazione economica oggetto del diritto e, dunque, come precisato da Corte Costituzionale n. 118 del 2020, ” l’univoco tenore della disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (così, in particolare, sentenza n. 232 del 2013 e, più di recente, sentenze n. 221 del 2019, n. 83 e n. 82 del 2017)”, restando quindi inibito al giudice l’intervento interpretativo costituzionalmente orientato;

neppure è possibile operare in via analogica, essendo evidente la differenza quanto a presupposti costitutivi, funzione e specifica disciplina della decadenza (D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47) esistente tra le prestazioni pensionistiche e l’indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992, art. 1 e la decadenza di cui al citato art. 3 della stessa legge;

pertanto, applicando alla fattispecie concreta il disposto della L. n. 210 del 1992, art. 3, questa Corte dovrebbe ritenere la parte istante decaduta dal diritto ad ottenere l’indennizzo nella sua interezza, senza possibilità di limitare la suddetta decadenza alle mensilità maturate prima del triennio decorrente dalla presentazione della domanda;

NON MANIFESTA INFONDATEZZA:

ciò premesso, va tuttavia riconosciuto che il confronto tra la disciplina della decadenza (disciplinata dal D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 e s.m.i.) che il diritto vivente ha tracciato per i trattamenti pensionistici e l’effetto decadenziale connesso alla L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, doveroso in ragione del profondo radicamento costituzionale di entrambe le misure di protezione sociale, fa emergere dubbi sulla conformità a Costituzione di tale ultima disposizione;

va infatti rimarcato che è vero che la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha riconosciuto l’operatività della cd. decadenza mobile (vd. da ultimo, rispetto alla già citata Cass. SS.UU. n. 10955 del 2002, la recente Cass. n. 17430 del 2021) nella specifica ipotesi della decadenza dalle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una prestazione pensionistica parzialmente riconosciuta;

in tale contesto si è ritenuto che, in considerazione della natura della prestazione, la decadenza possa cadere solo sulle differenze dei ratei maturati precedentemente al triennio e non riguardo ad ogni differenza comunque dovuta per il titolo in relazione al quale è richiesto l’adeguamento o il ricalcolo (decadenza cd. tombale);

si è considerato che pur dovendosi tener conto che l’istituto della decadenza persegua evidenti finalità di certezza sulla sorte di diritti che comportano aggravio di spesa pubblica, anche nell’interesse della stabilità dei conti pubblici, il fondamento costituzionale della prestazione pensionistica, che le conferisce il carattere della non prescrittibilità, impone di salvaguardare la medesima prestazione nel suo nucleo essenziale;

la base normativa espressa è stata individuata nel D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, comma 6, che prevede che il decorso Data pubblicazione 17/01/2022 dei termini previsti dal D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, commi 2 e 3, posti a pena di decadenza per l’esercizio del diritto alla prestazione previdenziale, “determina l’estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l’inammissibilità della relativa domanda giudiziale”, precisando poi che in caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo i termini decorrono dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei;

dal punto di vista applicativo, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di riferire il termine decadenziale ai singoli ratei (tra le tante, Cass. Sez. L, Sentenza n. 13104 del 08/09/2003; Sez. L, Sentenza n. 152 del 09/01/1999; Sez. L, Sentenza n. 2364 del 07/02/2004), in ragione della loro autonoma cadenza temporale e tale interpretazione si è adottata anche a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 98 del 2011, art. 38, che ha modificato la disciplina del 1970, sia aggiungendo all’art. 47 un comma 6 secondo cui le decadenza si applica alle azioni giudiziarie avente oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito, sia aggiungendo dopo l’art. 47 un art. 47 bis, a norma del quale “si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronuncia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui alla L. 9 marzo 1988, n. 88, art. 24, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni”;

l’interpretazione che limita ai ratei l’applicazione dei termini di prescrizione e decadenza anche nel caso di riliquidazioni è in linea con i principi affermati in materia dalla Corte Costituzionale, che ha sempre ritenuto il diritto a pensione come diritto fondamentale, irrinunciabile, imprescrittibile e non sottoponibile a decadenza, in conformità di principio costituzionalmente garantito che non può comportare deroghe legislative (tra le altre, Corte Costituzionale 26 febbraio 2010, n. 71; Corte Costituzionale 22 luglio 1999, n. 345; Corte Costituzionale 15 luglio 85, n. 203);

questa Corte di cassazione ha espressamente riconosciuto che una diversa interpretazione (che applicasse la decadenza all’intera pretesa di rideterminazione travolgendo i ratei futuri ed interni al triennio precedente alla domanda giudiziale) sarebbe del resto incompatibile con la Costituzione tutte le volte in cui la misura della prestazione riconosciuta o pagata non salvaguardi il nucleo essenziale della prestazione, come nel caso che solo una parte esigua della prestazione sia riconosciuta e pagata dall’ente previdenziale. Per tali casi, ritenere il diritto alle differenze pensionistiche perduto per decadenza comporterebbe di fatto la vanificazione del diritto alla pensione, in netto contrasto con l’art. 38 Cost.;

in definitiva, può certamente affermarsi che l’art. 38 Cost. impedisce alla legge ordinaria, mediante il meccanismo della decadenza, di attaccare il nucleo essenziale della prestazione pensionistica;

per l’intangibilità del diritto a pensione si sono peraltro pronunciate anche Corte Cost. 26 febbraio 2010, n. 71, Corte Cost. 22 luglio 1999, n. 345, che lo ha definito “fondamentale, irrinunciabile e imprescrittibile”, e Corte Cost. 15 luglio 1985, n. 203, secondo cui si tratta di una “situazione finale (…) attinente alla sopravvivenza della persona”;

le citate sentenze n. 203 del 1985 e 345 del 1999, avevano posto anche un limite a tali affermazioni, ammettendo che il diritto a pensione, pur coperto da garanzia costituzionale, possa essere dalla legge regolato e così sottoposto a limite, sempre che questo sia compatibile con la funzione del diritto di cui si tratta e non si traduca comunque nella esclusione dell’effettiva possibilità dell’esercizio in parola”, legittimando le previsioni normative scrutinate, che ponevano dei termini e delle condizioni alla presentazione della domanda;

la sentenza n. 71 del 2010, inoltre, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 504, osservando che “la norma censurata non contrasta, poi, con gli artt. 31 e 37 Cost., in quanto non incide sull’an del diritto alla pensione, ma solo marginalmente sul quantum; laddove il mancato aumento del trattamento previdenziale goduto da chi, alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 151 del 2001, già era in pensione, non vale a far considerare tale emolumento insufficiente ai fini della tutela imposta dalle norme costituzionali indicate”;

il complesso normativo relativo all’indennizzo oggetto della presente controversia, compresa la specifica previsione della decadenza di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 3, è certamente, per struttura e per funzione, profondamente diverso dal sistema pensionistico e ciò non consente che si possa procedere ad una estensione analogica dei principi espressi dagli arresti giurisprudenziali appena descritti;

tuttavia, è innegabile che sia il diritto alle prestazioni pensionistiche previdenziali che quello all’indennizzo per cui è causa siano prestazioni fondate sugli obblighi di solidarietà sociale fissati dalla Costituzione;

in particolare, quanto alla L. n. 210 del 1992, è innegabile che la stessa si caratterizza per il suo fondamento costituzionale. Secondo certa dottrina, tale fondamento non discenderebbe dalla natura assistenziale (ai sensi dell’art. 38 Cost.) posto che, ricorrendone i presupposti, all’indennizzo si può accedere indipendentemente dalle condizioni economiche ed è ammesso il cumulo di esso con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito; il fondamento costituzionale dell’istituto andrebbe ravvisato negli artt. 2 e 32 Cost.;

ciò, in sostanza, ha affermato anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 26 febbraio 1998, chiarendo che l’indennizzo “assume il significato di misura di solidarietà sociale fondata negli artt. 2 e 32 Cost., cui non necessariamente si accompagna una funzione assistenziale a norma dell’art. 38 Cost., comma 1, essendo esso dovuto indipendentemente dalle condizioni economiche dell’avente diritto e non mirando di per sé agli scopi per i quali l’art. 38 stesso è stato dettato…”;

la sentenza della Corte Costituzionale n. 342 del 2006 ha però successivamente precisato che “(…) La menomazione della salute conseguente a trattamenti sanitari può determinare, oltre al risarcimento del danno secondo la previsione dell’art. 2043 c.c., il diritto ad un equo indennizzo, in forza dell’art. 32 in collegamento con l’art. 2 Cost., ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale; nonché il diritto, qualora ne sussistano i presupposti a norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore nell’ambito della propria discrezionalità (sentenze n. 226 del 2000 e n. 118 del 1996);

invero, oltre all’analogo fondamento costituzionale, una certa assimilazione tra indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992 ed il trattamento pensionistico può ravvisarsi anche nella significativa estensione temporale periodica che caratterizza entrambe le misure di protezione sociale;

in particolare, va ricordato che la citata L. n. 210 del 1992, art. 2, dispone che “1. L’indennizzo di cui all’art. 1, comma 1, consiste in un assegno, reversibile per quindici anni, determinato nella misura di cui alla tabella B allegata alla L. 29 aprile 1976, n. 177, come modificata dalla L. 2 maggio 1984, n. 111, art. 8. L’indennizzo è cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito ed è rivalutato annualmente sulla base del tasso di inflazione programmato. 2. L’indennizzo di cui al comma 1 è integrato da una somma corrispondente all’importo dell’indennità integrativa speciale di cui alla L. 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni, prevista per la prima qualifica funzionale degli impiegati civili dello Stato, ed ha decorrenza dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda ai sensi dell’art. 3. La predetta somma integrativa è cumulabile con l’indennità integrativa speciale o altra analoga indennità collegata alla variazione del costo della vita. (…)”;

si tratta, evidentemente, di una misura che tende ad attenuare, con sostegni distesi temporalmente e periodici, soprattutto nel caso di vaccini inoculati a bambini in tenera età, le difficoltà di gestione dello stato patologico mediante la corresponsione di importi mensili nell’arco temporale di un quindicennio, con la conseguenza che l’operatività di un effetto decadenziale unitario e definitivo che non prevede (come oggi impone il testo della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1) la limitazione dell’effetto estintivo del diritto ai soli importi mensili maturati precedentemente al triennio dalla domanda (con i consequenziali effetti riduttivi sull’importo una tantum), realizza in concreto la piena frustrazione dello scopo dell’indennizzo e crea una vistosa ed irragionevole disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di tale misura ed i pensionati che, invece, possono contare sulla garanzia della misura della prestazione riconosciuta o pagata almeno per il nucleo essenziale della prestazione;

la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 232/2018), del resto ha pure precisato che il diritto del disabile a “ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita”, inscindibilmente connesso con il diritto alla salute e a una integrazione effettiva, rappresenta il fulcro delle tutele apprestate dal legislatore e finalizzate a rimuovere gli ostacoli suscettibili di impedire il pieno sviluppo della persona umana. Nella disciplina di sostegno alle famiglie che si prendono cura del disabile convergono non soltanto i valori della solidarietà familiare, ma anche “un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale” e impongono l’interrelazione e l’integrazione “tra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela”, sicché, nell’apprestare le misure necessarie a rendere effettivo il godimento di tali diritti e a contemperare tutti gli interessi costituzionali rilevanti, la discrezionalità del legislatore incontra un limite invalicabile nel “rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati”;

ancora, a proposito dell’indennizzo per menomazioni da vaccinazione raccomandata, Corte costituzionale n. 268 del 2017, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1, comma 1, nella parte in cui non prevede il diritto all’indennizzo, istituito e regolato dalla medesima legge, anche nei confronti di coloro che si siano sottoposti a vaccinazione antinfluenzale, ha affermato che la ragione determinante del diritto all’indennizzo “risiede nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell’interesse della collettività”, rendendo “più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali”;

anche le sentenze della Corte Costituzionale più recenti (vd. Corte Cost. nn. 5 del 2018 e 118 del 2020) hanno ribadito il fondamento costituzionale dell’indennizzo de quo negli artt. 2,3 e 32 Cost. con il correlato obbligo dello Stato di farsi carico dell’obbligo indennitario;

pare, dunque, non manifestamente infondato il dubbio sul rispetto dell’art. 3 Cost. da parte della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, posto che secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale (vedi, tra le altre, sentenze n. 89 del 1996, n. 5 del 2000 e n. 441 del 2000), al fine di stabilire se una disposizione sia tale da determinare una irragionevole differenziazione di situazioni meritevoli di eguale tutela, il relativo giudizio va incentrato sul “perché” la legge operi, all’interno dell’ordinamento, quella specifica distinzione (ovvero, a seconda dei casi, quella specifica equiparazione), sì da trarne le dovute conclusioni circa il corretto uso del potere normativo;

nel caso di specie, tale vaglio non pare conduca a risposte ragionevoli, giacché non si comprende perché la categoria dei percettori di pensione può, per effetto della decadenza prevista dalla legge, al più vedere estinto il diritto a talune prestazioni periodiche relative al diritto a pensione, in sé imprescrittibile, mentre i destinatari dell’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 1, certamente protetti dalla Costituzione in ragione del grave ed irreparabile vulnus subito a causa delle vaccinazioni e dei trattamenti previsti dalla medesima legge, debbano vedersi estinto il diritto a tutte le prestazioni periodiche nonostante la distensione temporale delle medesime prestazioni periodiche superi di gran lunga il termine triennale di decadenza previsto dalla legge.

Thema decidendum:

Ritiene, in definitiva, il Collegio, che la questione prospettata importi innanzi tutto la necessità di verificare la legittimità costituzionale della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, per violazione degli artt. 2,3,32 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede che l’effetto di decadenza conseguente alla presentazione della domanda oltre il triennio, decorrente dal momento in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno, sia limitato ai ratei relativi al periodo antecedente al suddetto periodo triennale con i consequenziali effetti riduttivi anche sulla misura una tantum prevista dalla L. n. 210 del 1992, art. 2.

A norma dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, va dichiarata la sospensione del presente procedimento con l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La cancelleria provvederà alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

PQM

La Corte di cassazione, visti l’art. 134 Cost., della L. Cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1 e la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della L. n. 210 del 1992, art. 3, comma 1, per violazione degli artt. 2, 32 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede che l’effetto di decadenza conseguente alla presentazione della domanda oltre il triennio, decorrente dal momento in cui l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno, sia limitato ai ratei relativi al periodo antecedente al suddetto periodo triennale con i consequenziali effetti riduttivi anche sulla misura una tantum prevista dalla L. n. 210 del 1992, art. 2.

Sospende il presente procedimento.

Manda la cancelleria per gli adempimenti previsti dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, u.c., e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022

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