LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –
Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19551-2020 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
LANTANA PROPERTIES LTD;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2078/4/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE dell’EMILIA ROMAGNA, depositata il 0711/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 16/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA CAPRIOLI.
Ritenuto che:
La CTR dell’Emilia-Romagna con sentenza nr 2078/2019 rigettava l’appello dell’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della CTP di Ferrara che aveva accolto il ricorso della contribuente Lantana Properties LTD avente ad oggetto l’avviso di liquidazione di una maggiore imposta di registro proporzionale dovuta sul trasferimento immobiliare alla luce della riqualificazione dell’operazione sottoposta a registrazione operata dall’Ufficio ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.
Il Giudice di appello rilevava per gli aspetti che qui interessano che l’interpretazione originaria del citato art. 20, nel senso della prevalenza della causa reale dell’operazione sul dato formale dell’atto sottoposto a registrazione, doveva ritenersi superata dall’intervenuto legislativo operato sulla predetta disposizione con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, che ha stabilito che la norma deve essere interpretata sulla base degli elementi desumibili dall’atto stesso prescindendo dagli elementi extratestuali, norma questa ritenuta con la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, di interpretazione autentica e quindi applicabile anche ad atti antecedenti la sua entrata in vigore.
Osservava pertanto che poiché l’atto in questione si identificava nel conferimento immobiliare doveva ritenersi corretta la sua sottoposizione a tassazione in misura fissa.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui non replica la parte contribuente che resta intimata.
Considerato che:
Con il primo motivo si deduce la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, in combinato disposto con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett a), e con la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nonché in una con l’art. 1362 c.c., comma 2, tutti interpretati alla luce dell’art. 53 Cost., comma 1, per avere il giudice di appello ritenuto che le modifiche apportate al citato art. 20, valgano ad escludere tout court la considerazione di elementi e atti esterni a quello registrato, a prescindere dalla circostanza che essi siano riferibili al medesimo “contesto” negoziale ed economico.
Con un secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., a fronte dell’omessa pronuncia sulla configurabilità dell’abuso di diritto, secondo il principio codificato dalla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, delineato dall’Agenzia delle entrate nel proprio ricorso in appello.
Il primo motivo è infondato.
Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.
Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, di “interpretazione autentica”, che recano l’espressa previsione della irrilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20, fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.
La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, come ricordato dalla stessa CTR, era prevalentemente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610 del 2018).
E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216 del 2016, Cass. n. 1955 del 2015, Cass. n. 14150 del 2013, Cass. n. 6835 del 2013).
E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente ” alla quale lo stesso art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054 del 2017, Cass. n. 722 del 2019) e n. 6790 del 2020).
Non v’e’ dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20, “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.
Ne’ può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo.
Così si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549 del 2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali. Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale.
Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 39/2021, si è nuovamente espresso sulla questione concernente la legittimità dell’intervento legislativo che ha interessato il D.P.R. n. 131 del 1986, più volte citato art. 20, dapprima con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), e poi con la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ed ha osservato che esso deve essere letto come destinato non già “all’ambito semantico di una singola disposizione”, ma piuttosto “a quello dell’intero “impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro”, dove la sua origine storica di imposta d’atto “non risulta superata dal legislatore positivo” (sentenza n. 158 del 2020)”, in quanto risponde all’esigenza di ricondurre in un ambito più ordinato e coerente, rispetto al quadro normativo in forte evoluzione, l’interpretazione anche giurisprudenziale della norma tributaria, e ciò, segnatamente, in considerazione del progressivo consolidarsi di un’organica disciplina dell’abuso del diritto.
All’Ufficio, pertanto, deve ritenersi impedita la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, applicando il più volte citato art. 20, sulla base della valorizzazione di elementi extra testuali.
Tanto è confermato dalla stessa relazione che accompagna l’intervento legislativo in argomento, nella quale si sottolinea come, ai fini della interpretazione degli atti presentati per la registrazione, siano irrilevanti “gli interessi concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte”. In altri termini, resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata “ab intrinseco”, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione, essendo viceversa la finalità antielusiva profilo affatto estraneo alla disposizione in esame.
Nel caso di specie, come si desume dalla motivazione dell’avviso di accertamento (riprodotto in ricorso), sulla base del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, l’Amministrazione finanziaria ha riqualificato la natura della rettifica catastale, facendo riferimenti estrinseci all’atto soggetto a registrazione.
Ha infatti ritenuto che il conferimento di tre immobili nella società Deasy Properties LTD nell’ambito di un aumento di capitali della società conferitaria in cambio di azioni di quest’ultima e la successiva cessione di partecipazione ottenuta in conseguenza del conferimento costituisse una cessione diretta di immobili in favore della contribuente.
Correttamente pertanto la CTR ha considerato, alla luce della sopraindicata interpretazione dell’art. 20, una mera operazione di conferimento immobiliare cui doveva applicarsi una imposta di registro in misura fissa.
Il secondo motivo è parimenti infondato.
Non ricorre, nella specie, la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che non è configurabile il vizio di omessa pronuncia quando il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico – giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi incompatibile con tale domanda (cfr. Cass. n. 32258 del 2018; Cass. n. 24155 del 2017).
La CTR ha infatti ritenuto che l’operazione doveva essere letta nell’alveo della disciplina dell’art. 20, escludendo implicitamente un’interpretazione della norma in chiave antielusiva che comporterebbe “incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis” e “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica”, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea)”.
La potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.
La L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, infatti, è intervenuto sia sull’art. 20, che sul D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53-bis, rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa 20 T.U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elementi extra-testuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.
Per la codificazione dell’istituto dell’abuso del diritto, costruito sulla scorta delle soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, bisogna guardare al D.Lgs. n. 128 del 2015, che ha previsto, all’art. 1, una definizione dell’abuso del diritto, e le sue implicazioni in materia fiscale con valenza generale, sia per i tributi armonizzati, per i quali trova fondamento nei principi dell’ordinamento UE, che per quelli non armonizzati, per i quali il fondamento va ricercato nei principi costituzionali, in attuazione della delega fiscale concessa al governo dalla L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 5 e 6, e art. 8, comma 2, al dichiarato intento di “certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.
E’ con detta disposizione che il Legislatore ha aggiunto, dopo lo Statuto del contribuente, art. 10, (L. n. 212 del 2000), l’art. 10-bis, (testo in vigore dal 1 ottobre 2015), a tenore del quale (comma 1), “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”).
Ed è proprio il predetto art. 10-bis, che prevede che l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione debba essere obbligatoriamente preceduto da una richiesta di chiarimenti (comma 6), da fornire entro 60 giorni da parte del contribuente, e che l’atto impositivo (comma 8), debba essere sempre specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme eluse, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati ed ai chiarimenti forniti dal contribuente.
E, infine, la L. n. 205 del 2017, con l’art. 1, comma 87, lett. b), che introduce nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, (testo in vigore dal 1 gennaio 2018), e con esso completa il pieno ingresso dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito specifico della imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale (Cass. 2021 nr 10688).
In conclusione, se una diversa lettura del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così come risulta autenticamente interpretato dal Legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Cost., mentre ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dello Statuto del Contribuente, art. 10 bis, stante l’espresso richiamo contenuto nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, che richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è in precedenza detto.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Nessuna determinazione in punto spese stante la mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022