Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.1378 del 18/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 10147 del ruolo generale dell’anno 2014 proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è elettivamente domiciliata;

– ricorrente –

contro

M.A.;

– intimato –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, n. 66/13/2013, depositata in data 14 ottobre 2013;

udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 23 novembre 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a M.A. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2003, aveva contestato maggiori redditi e una maggiore Iva non dichiarata, in particolare la pretesa impositiva si fondava sulla circostanza che la società Confida s.r.l. era una mera cartiera che importava legname dall’estero e, successivamente, ometteva il versamento dell’Iva incassata che, a sua volta, costituiva il corrispettivo del sistema fraudolento, di cui si avvantaggiava M.A., ritenuto socio unico ed amministratore di fatto della medesima società, al quale, quindi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, venivano imputati i maggiori redditi riferibili alla società in quanto effettivo percettore per interposta persona; veniva altresì irrogata la sanzione; avverso l’atto impositivo il contribuente aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Modena; avverso la decisione del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: il thema decidendum della controversia era stato circoscritto dal giudice di primo grado alla questione dell’assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’amministrazione finanziaria circa la posizione soggettiva del contribuente quale effettivo possessore dei redditi prodotti dalla società Confida s.r.l., sicché le ulteriore questioni erano state ritenute assorbite; gli elementi di prova prodotti dall’amministrazione finanziaria non erano idonei al fine di accertare nei confronti di M.A. l’effettivo possesso dell’intero reddito prodotto dalla società; la stessa amministrazione finanziaria, inoltre, aveva riconosciuto la posizione della società quale persona giuridica che avrebbe conservato anche l’autonoma soggettività passiva;

l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a quattro motivi di censura, illustrato con successiva memoria;

il contribuente è rimasto intimato;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Basile Tommaso, ha depositato le proprie osservazioni scritte con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

questa Corte, con ordinanza del 22 marzo 2021, ha disposto il rinnovo della notifica del ricorso, atteso che lo stesso era stato notificato alla parte personalmente piuttosto che al procuratore costituito.

CONSIDERATO

che:

preliminarmente, va dato atto che l’Agenzia delle entrate, con la memoria, ha evidenziato che nel giudizio di appello la parte non si era costituita e che in ogni caso, come attestato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Modena con certificazione del 1 giugno 2021, l’avvocato difensore in primo grado era stato cancellato dall’albo in data 17 settembre 2013, dunque in data successiva alla assunzione della causa in decisione, sicché la notifica del ricorso era stata effettuata personalmente all’intimato; inoltre, ha altresì evidenziato di avere provveduto a rinnovare la notifica all’intimato, come documentato dall’avviso di ricevimento, ricevuto da questi personalmente;

ne consegue la regolarità della notifica e della costituzione del contraddittorio, atteso che, secondo l’art. 330, c.p.c., qualora la parte non abbia dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, l’impugnazione deve essere notificata, ai sensi dell’art. 170, presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio tenuto conto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di notifica dell’atto di impugnazione, in forza dell’art. 330 c.p.c., comma 1, secondo periodo, applicabile al processo tributario in forza del richiamo operato dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, i luoghi ivi indicati ove eseguire la notifica dell’impugnazione devono ritenersi tra di loro alternativi, dovendosi escludere che la norma prescriva un tassativo ordine di successione, anziché un concorso (Cass. Civ., 5 luglio 2017, n. 16561);

questa Corte, peraltro, ha precisato che, in caso di cancellazione dall’albo dell’avvocato le notifiche vanno effettuate alla parte personalmente (Cass. civ., 21 settembre 2011, n. 19225; Cass., Sez. U., 21 novembre 1996, n. 10284);

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, per avere erroneamente ritenuto che la mancanza di prova circa la percezione dell’intero reddito conseguito dal M. implicasse, altresì, la mancata prova della interposizione fittizia, con conseguente illegittimità della pretesa fatta valere nei suoi confronti; nonché, per avere ritenuto che la soggettività passiva della società ai fini delle imposte precludesse, nonostante la prova della artificiosa creazione di uno schermo societario, la possibilità di far valere la pretesa nei confronti del M. quale soggetto interposto;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e art. 41-bis, nonché dell’art. 2697 c.c., per non avere posto a carico del contribuente l’onere di provare che tutto il reddito prodotto dalla società fosse a lui interamente riferibile;

i motivi, che possono essere unitariamente esaminati, in quanto riguardano la corretta interpretazione dei presupposti applicativi della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, sono fondati;

la pretesa esercitata dall’amministrazione finanziaria nei confronti del M. si è basata sulla ritenuta applicabilità della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, secondo cui: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”;

in particolare, la sentenza evidenzia che la pretesa dell’amministrazione finanziaria si basava sulla considerazione che il M. fosse socio unico ed amministratore di fatto della società Confida s.r.l., in luogo dei soci e degli amministratori formalmente presenti e che, di conseguenza, al contribuente dovevano essere imputati i rilievi addebitabili alla società, in quanto effettivo percettore per interposta persona dei redditi della società;

va quindi osservato che questa Corte (da ultimo, Cass. civ., 29 gennaio 2021, n. 2083) ha più volte precisato che la previsione normativa in esame prescrive l’imputazione diretta al contribuente dei redditi di cui appaiono titolari gli altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona. La norma, che ha evidenti finalità antielusive, mira in sostanza ad impedire che, attraverso operazioni commerciali compiute mediante negozi giuridici conformi all’ordinamento giuridico, si realizzi lo scopo di sottrarre alla corretta tassazione il reddito prodotto ed imputabile al medesimo soggetto giuridico; essa non presuppone, quindi, un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio ed ingiustificato di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione fiscale propria dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta;

nella fattispecie, il giudice del gravame ha accertato che la società Confida s.r.l. era una società cartiera, quindi artificiosamente creata al fine di compiere operazioni fraudolente, che il M. aveva partecipato al meccanismo fraudolento e che sussistevano gravi indizi relativi al fatto che lo stesso fosse socio unico ed amministratore di fatto della società;

invero, la stessa ha precisato, in primo luogo, che: “il quadro presuntivo identificato nel processo verbale di constatazione vede, con ragionevole fondamento, la figura del M. quale persona di spicco con funzioni manageriali dell’organizzazione fraudolenta”;

inoltre, ha ulteriormente accertato che: “il quadro presuntivo individuato dall’ufficio e dotato di gravità, precisione e concordanza possa fondatamente provare la natura di mera cartiera della società Confida s.r.l. e la partecipazione al meccanismo fraudolento del contribuente”;

infine, ha accertato che: “le presunzioni dell’amministrazione trovano dovuta gravità precisione e concordanza sulla qualifica soggettiva del socio unico ed amministratore di fatto”;

dunque, la sentenza del giudice del gravame ha ritenuto che, nella fattispecie, era stata provata la creazione di uno schermo societario finalizzato al compimento di attività fraudolente nonché il ruolo centrale di partecipazione del M. all’operazione;

nonostante, tuttavia, queste premesse di fondo, il giudice del gravame ha ritenuto che la pretesa impositiva non fosse legittima in quanto non era stata fornita la prova del fatto che il reddito prodotto dalla società era stato interamente percepito dal M. e, quindi, il suo possesso del medesimo reddito;

questa considerazione, sulla cui base il giudice del gravame ha ritenuto non legittima la pretesa, non è corretta, in quanto confonde tra la prova dell’interposizione fittizia e quella relativa alla quantificazione dell’imponibile da addebitare al soggetto interponente;

questa Corte (Cass. civ., 21 maggio 2020, n. 9336), invero, ha precisato che, ai fini della applicabilità della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, non rileva il fatto che l’interponente sia stato colto nel possesso del reddito, ma il fatto che l’interposizione, essendo stata fittizia e meramente apparente, abbia costituito indizio grave e sufficiente per ritenere che i redditi formalmente imputati all’interposta dovessero essere imputati invece all’interponente, quale “effettivo possessore per interposta persona” del reddito;

una diversa interpretazione, diretta a richiedere che l’amministrazione finanziaria dia prova che il contribuente ha posseduto il reddito oggetto di imputazione non solo si pone in contrasto con la lettera dell’art. 37, comma 3, (“quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore”: dove il possesso in capo all’interponente può essere indiscutibilmente conseguenza del quadro indiziario) ma produrrebbe l’effetto di rendere pressoché impossibile l’applicazione concreta della norma se l’individuazione della fattispecie dovesse partire non dalla fittizietà dell’interposizione, ma dalla prova (per lo più impossibile a darsi) del reale del possesso, in capo all’interponente, del reddito;

pertanto, una volta che, sulla base di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, l’amministrazione finanziaria ha dato la prova della natura artificiosa del soggetto interposto e del soggetto che, in concreto, ha percepito il reddito avvalendosi dello schermo societario, e’, eventualmente, onere del contribuente dare la prova della partecipazione di altri soggetti alla realizzazione dell’operazione fraudolenta e, quindi, della esistenza di altri soggetti interponenti; analoghe considerazioni devono essere compiute sul versante sanzionatorio;

questa Corte (Cass. civ., 13 luglio 2020, n. 14875) ha precisato che l’amministratore di fatto di una società alla quale sia riferibile il rapporto fiscale ne risponde direttamente qualora le violazioni siano contestate o le sanzioni irrogate antecedentemente alla data di entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326, stante la disposizione di diritto transitorio di cui al menzionato decreto, art. 7, comma 2, e la disciplina precedentemente vigente dettata dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 2, e art. 11,” (Cass. n. 9122 del 23/04/2014). Tale orientamento incontra un limite nella artificiosa costituzione a fini illeciti della società di capitali, potendo allora le sanzioni amministrative tributarie essere irrogate “nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate. In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società e’, nel contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera fictio, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica. Non opera, pertanto, il D.L. n. 269 del 2003, art. 7, secondo cui nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente, in quanto detta norma “intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente, e, in particolare, l’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni nell’interesse della persona giuridica medesima” (vedi anche: Cass. civ., 8 marzo 2017, n. 5924; Cass. civ., 28 agosto 2013, n. 19716);

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del D.P.R. n. 546 del 1992, artt. 2 e 7, per avere reso una pronuncia contraddittoria, in quanto, da un lato, ha riconosciuto che i redditi della società erano stati spartiti tra il contribuente e i soggetti che avevano partecipato alla frode fiscale e, dall’altro, non ha proceduto alla quantificazione del reddito percepito dal contribuente, nonostante gli elementi di fatto allegati;

con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, e art. 55, per avere ritenuto che il giudice di primo grado aveva correttamente ritenuto assorbita la questione della imputabilità al contribuente della pretesa relativa all’Iva, nonostante il fatto che, invece, sulla base dei principi in materia di abuso del diritto, era legittima la pretesa nei confronti del contribuente che aveva artatamente creato una società fittizia al solo scopo di esercitare indebitamente la detrazione dell’Iva;

i motivi in esame sono assorbiti dalle considerazioni espresse con riferimento al primo e secondo motivo di ricorso;

in conclusione, sono fondati il primo e secondo motivo, assorbiti i restanti, con conseguente accoglimento del ricorso e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

PQM

La Corte:

accoglie il primo e secondo motivo, di ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza censurata e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472