LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –
Dott. MELE Maria Elena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12872/2016 proposto da:
Agenzia delle Entrate difesa ex lege dall’Avvocatura dello stato elettivamente domiciliata in Roma in via dei Portoghesi 12;
– ricorrente –
contro
Cava S. Nicolò srl, con sede legale in *****;
– intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna n. 519/08/16 depositata il 26.02.2016, notificata il 17.03.2016;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. Maria Elena Mele;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale De Matteis Stanislao, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso avanti alla Commissione tributaria provinciale di Ferrara la società La Cava S. Nicolò srl impugnava l’avviso di classamento dell’area adibita a cava estrattiva in categoria D/1 (opifici industriali) del Catasto urbano con attribuzione di rendita pari a Euro 20.216,00, oltre sanzioni ed interessi notificato dall’Agenzia delle entrate. L’accertamento era eseguito dall’Ufficio a seguito di richiesta formulata dal Comune di Ferrara ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 336, ritenendo la situazione dell’immobile non più coerente con i precedenti classamenti e non avendo la proprietà provveduto a presentare l’aggiornamento dei dati catastali come richiesto dal Comune.
La società contribuente deduceva che, in forza di un precedente giudicato relativo ai medesimi terreni, questi erano stati esclusi da stima fondiaria per essere adibiti a cava e utilizzati per l’attività estrattiva. Contestava, inoltre, la legittimità dell’accatastamento nel Catasto urbano, dovendo l’area essere inclusa nel Catasto terreni R.D. n. 1572 del 1931, ex art. 18.
La CTP accoglieva il ricorso.
Avverso questa decisione proponeva appello l’Agenzia delle entrate. Resisteva in giudizio la società, chiedendo la conferma della decisione impugnata.
La Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna rigettava l’appello affermando che la previsione della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 336, non modificava il regime fiscale stabilito dal R.D. n. 1572 del 1931, art. 18, il quale esclude che le cave siano sottoposte a stima fondiaria. Affermava, inoltre, la legittima inclusione delle cave estrattive nel Catasto terreni ai sensi del citato art. 18, costituendo il terreno l’oggetto stesso dell’attività estrattiva e non bene strumentale della medesima.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza sulla base di sei motivi.
La contribuente è rimasta intimata.
Il P.g. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, l’Agenzia deduce la nullità della sentenza per incomprensibilità del dispositivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, facendo essa riferimento ad una controversia diversa, la n. 239 pronunciata dalla CTP di Ferrara, e non invece a quella effettivamente impugnata, e cioè la sent. n. 240/5/2011. Non sarebbe neppure correttamente individuato l’oggetto del contendere. Nell’atto di appello l’Agenzia aveva rilevato come la sentenza della CTP facesse riferimento ad un’unità immobiliare (foglio 90, mappale *****) soppressa nel 2003. La CTR, pur rilevando l’errore, non avrebbe disposto alcunché in proposito, prescindendo dall’esatta individuazione dell’immobile oggetto della controversia, così impedendo di dedurre con certezza l’oggetto della controversia.
Con il secondo motivo si prospetta la violazione o falsa applicazione del R.D. n. 1572 del 1931, art. 18, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La richiamata disposizione escluderebbe le cave dalla stima fondiaria, sicché esse sarebbero prive di reddito agrario e dominicale al catasto terreni, ma non dalla attribuzione di una rendita. Le cave, pertanto, dovrebbero essere iscritte al catasto urbano in quanto ascrivibili ai redditi d’impresa.
Con il terzo motivo si censura la violazione o falsa applicazione del R.D.L. n. 652 del 1939, artt. 4 e 5, conv. in L. n. 1239 del 1939 e del D.M. Finanze n. 281 del 1998, art. 1 e art. 2, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto, trattandosi di terreno che presenta autonomia funzionale e reddituale, esso deve essere accatastato al catasto fabbricati con attribuzione della relativa rendita.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 1142 del 1949, artt. 3 e 61, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, laddove, subordinando l’attribuzione della rendita catastale ad un immobile alla inesistenza di altre imposte sul medesimo cespite, nega l’autonomia dell’ordinamento catastale.
Con il quinto motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, artt. 1,2 e 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La sentenza impugnata, nel ritenere legittima l’iscrizione dei terreni adibiti a cava nel catasto terreni, senza rendita fondiaria, porterebbe ad esentarli dalla contribuzione IMU al di fuori delle ipotesi di esenzione previste dalla legge.
Con il sesto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 336, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, laddove la sentenza impugnata aveva affermato che tale disposizione subordina la possibilità di rivedere un classamento catastale alla inesistenza di un precedente giudicato in materia fiscale. Secondo la ricorrente la L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 336, legittima un nuovo accertamento per correggere eventuali errori migliorare la qualità ed equità delle rendite catastali, e il nuovo classamento sarà il presupposto per l’imposizione fiscale futura.
Il primo motivo è infondato.
Benché la sentenza impugnata, nell’indicazione del proprio oggetto, faccia riferimento alla sentenza della CTP n. 239 del 25 luglio 2011, tuttavia, dal suo contenuto, nonché dallo stesso frontespizio, il quale indica quale oggetto dell’impugnazione la sentenza n. 240/2011 della CTP di Ferrara, risulta chiaro che è a tale pronuncia che la sentenza impugnata si riferisce. Sicché appare evidente che l’indicazione nel corpo della motivazione ad altra sentenza costituisca un mero errore materiale che non ha determinato alcuna incertezza.
Analoga conclusione vale per il rilievo concernente l’identificazione del bene oggetto dell’atto impugnato con riguardo ai suoi estremi catastali, non essendovi alcun dubbio in ordine a quale fosse il terreno cui si riferivano sia la pronuncia della CTP che quella della CTR.
I restanti motivi, che possono essere scrutinati congiuntamente involgendo questioni strettamente connesse, sono fondati.
La questione di fondo sottesa a tutte le censure concerne la iscrivibilità delle cave nel catasto urbano, nonché il valore da attribuire al R.D. n. 1572 del 1931, art. 18.
Trattandosi di questione di diritto, deve preliminarmente escludersi la rilevanza di un precedente giudicato intervenuto tra le stesse parti, potendo esso eventualmente esplicare i suoi effetti, in via esclusiva, con riferimento agli accertamenti in fatto e non sulle questioni di diritto. Ciò posto, occorre considerare che il R.D. n. 1572 del 1931, art. 1, recante la “Approvazione del testo unico delle leggi sul nuovo catasto”, dispone che “Sarà provveduto, a cura dello Stato, in tutto il Regno, alla formazione di un catasto geometrico particellare uniforme fondato sulla misura e sulla stima, allo scopo:1) di accertare le proprietà immobili, e tenerne in evidenza le mutazioni; 2) di perequare l’imposta fondiaria”
Ai sensi dell’art. 11 “La stima dei terreni ha per oggetto di stabilire la rendita imponibile, sulla quale è fatta la ripartizione dell’imposta, mediante la formazione di tariffe di estimo, nelle quali è determinata, comune per comune, la rendita stessa per ogni qualità e classe”. L’art. 13 stabilisce che “La tariffa esprime, in moneta legale, la rendita imponibile di un ettaro per ciascuna qualità e classe. La rendita imponibile è quella parte del prodotto totale del fondo che rimane al proprietario, netta dalle spese e perdite eventuali”.
Il comma 3 prevede che “Agli effetti attuali del catasto, le tariffe d’estimo rappresentano la parte dominicale del reddito medio, ordinario, continuativo ritraibile dai terreni al 1 gennaio 1914”.
Con specifico riferimento ai terreni adibiti a cave, l’art. 18 dispone che “Saranno escluse dalla stima fondiaria le miniere, le cave, le torbiere, le saline ed i laghi e stagni da pesca, con la superficie stabilmente occupata per la relativa industria, e le tonnare”.
Tale disposizione non esclude che le cave siano iscritte in catasto, ma dispone soltanto che esse saranno escluse dalla sola operazione di stima fondiaria.
Pertanto, i terreni adibiti a cava devono essere iscritti al catasto al fine di essere identificati per rilevare l’estensione delle singole proprietà e delle diverse particelle catastali e per essere ivi graficamente rappresentati con mappe planimetriche.
I redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne sono qualificati dall’ordinamento come redditi d’impresa (D.Lgs. n. 344 del 2002, art. 55, lett. b) la cui tassazione avviene sulla base del reddito effettivamente prodotto, e non sull’attitudine del bene a produrre reddito, con esclusione, quindi, della rilevanza degli estimi catastali. Nel caso in esame, l’Agenzia delle entrate con l’atto impugnato ha provveduto, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 336, al classamento del terreno su cui insiste la cava della società contribuente, iscrivendolo al catasto urbano in categoria D/1 (opifici industriali).
Con riferimento ai presupposti per l’inventariazione nel Catasto urbano, il R.D.L. n. 652 del 1939, art. 3, conv. in L. n. 1249 del 1939, concernente l’accertamento generale dei fabbricati urbani, rivalutazione del relativo reddito e formazione del nuovo catasto edilizio urbano, stabilisce che l’accertamento generale degli immobili urbani è fatto per “unità immobiliare”.
Ai sensi dell’art. 4, si considerano come “immobili urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costituite, diversi dai fabbricati rurali”, ivi compresi “gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente assicurati al suolo”. L’art. 5 prevede che costituisce “unità immobiliare urbana” “ogni parte di immobile che, nello stato in cui si trova, è di per sé stessa utile ed atta a produrre un reddito proprio”. Il D.M. 2 gennaio 1998, n. 28, (“Regolamento recante norme in tema di costituzione del catasto dei fabbricati e modalità di produzione ed adeguamento della nuova cartografia catastale”), stabilisce al comma 1 che “Il catasto dei fabbricati rappresenta l’inventario del patrimonio edilizio nazionale” e al comma 2, che “Il minimo modulo inventariale è l’unità immobiliare”.
A mente dell’art. 2, l’unità immobiliare “e’ costituita da una porzione di fabbricato, o da un fabbricato, o da un insieme di fabbricati ovvero da un’area, che, nello stato in cui si trova e secondo l’uso locale, presenta potenzialità di autonomia funzionale e reddituale”.
Sulla base di tali disposizioni questa Corte ha affermato che l’accatastamento viene dalla normativa riferito non al fabbricato in quanto tale, bensì alla nozione di unità immobiliare urbana (UIU), a sua volta rapportata ad una componente immobiliare (rilevante ex art. 812 c.c.) suscettibile di autonoma funzionalità e redditività (Cass., sez. 5, n. 12741 del 23/05/2018, Rv. 648470 – 01).
Tali caratteristiche sono state valorizzate dalla giurisprudenza di legittimità proprio ai fini dell’accertamento dei presupposti di accatastabilità anche con specifico riguardo agli immobili aventi destinazione industriale o di produzione energetica (per le discariche pubbliche v. 12741/2018 cit.; per le centrali elettriche v. Cass. 2621/15; 3500/15, per i parchi eolici v. Cass. 4028/12; 24815/14; 3354/15; per le centrali telefoniche v. Cass. 24924/16; per le piattaforme petrolifere v. Cass. 3618/16), sicché l’accatastabilità di tali unità immobiliari è sempre stata riconosciuta. Non vi sono pertanto ragioni per escluderla con riferimento alle cave, trattandosi di immobili suscettibili di autonoma funzionalità e redditività.
Ciò premesso, l’area classificata come D/1, ancorché concretamente destinata unicamente a cava e ad attività estrattiva, non è perciò solo qualificabile come agricola, in quanto avente potenzialità edificatoria, sia pure limitata alla sola realizzazione di fabbricati strumentali (Cass., Sez. V, n. 31079 del 28/11/2019).
Problema differente è quello relativo alla quantificazione della rendita catastale a fini impositivi.
Come si è detto l’art. 18, esclude le cave dalla stima fondiaria.
La Corte costituzionale, con ord. n. 285 del 2000, in materia di imposta di registro – e, specificamente, del criterio di valutazione automatica ai fini della determinazione della base imponibile – ha affermato che “il R.D. n. 1572 del 1931, art. 18, esclude le cave dalla stima fondiaria per la determinazione del reddito dominicale, sicché il reddito del terreno formalmente risultante in catasto di natura agricola non è espressivo dell’effettiva ricchezza derivante dalla sua pacifica destinazione e dallo sfruttamento del medesimo a finalità estrattiva, essendo riconducibile l’utilizzazione a cava ad una attività di carattere esclusivamente industriale”.
Ancora in materia di imposta di registro, e con riguardo al sistema di valutazione automatica fondata sulla rendita catastale (D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4), questa Corte ha già rilevato che, nel caso di terreni sfruttati come cave, “la valutazione di cui si tratta deve essere operata con il metodo del valore venale di cui al citato art. 52, n. 1, avuto riguardo alla circostanza che il R.D. 8 ottobre 1931, n. 1572, art. 18, esclude le cave dalla stima fondiaria, e che la eventuale indebita iscrizione delle aree nel catasto terreni non può valere a ravvisare nella rendita fondiaria erroneamente risultante da tale iscrizione l’idoneità ad esprimere la potenzialità reddituale derivante dallo sfruttamento dei terreni stessi per una finalità estrattiva di natura esclusivamente industriale” (Cass., 17 gennaio 2001, n. 649 cui adde Cass., 5 marzo 2020, n. 6207; Cass., 6 dicembre 2018, n. 31604; Cass., 18 settembre 2013, n. 21277; Cass., 29 luglio 2009, n. 17571; Cass., 30 agosto 2006, n. 18755; Cass., 23 novembre 2005, n. 24568; Cass., 19 ottobre 2001, n. 12774).
Si è inoltre precisato con riguardo all’imposta di registro e IVIM, nonché all’IMU, come “la qualificazione agricola (con relativa attribuzione di rendita), non più attuale, di un terreno destinato ad attività industriale estrattiva renda possibile la rettifica del valore dello stesso secondo il valore venale, non coincidendo necessariamente l’attribuzione di rendita con la stima fondiaria, perché un tale errato presupposto interpretativo non tiene conto (come ha precisato la Corte costituzionale con sentenza n. 285 del 2000) del fatto che il R.D. 8 ottobre 1931, n. 1572, art. 18, esclude comunque le cave dalla stima fondiaria per la determinazione del reddito dominicale, sicché, in tali casi, le risultanze catastali non corrispondono all’effettiva e giuridica destinazione del terreno, benché non sia stata denunciata al catasto la variazione” (Cass., sez. 5, n. 24568 del 23/11/2005; sez. 5, n. 3978 del 16/02/2021, in motivazione).
Questa Corte ha altresì affermato che, “ove l’area sia adibita ad attività estrattiva secondo il regolamento urbanistico e suscettibile, in conformità allo stesso, di edificazione, ancorché limitata alla realizzazione di fabbricati strumentali, la base imponibile deve essere determinata avendo riguardo al valore venale”. Si è in particolare osservato che “l’area di cui si tratta, seppure è adibita ad attività estrattiva secondo lo strumento urbanistico, il che induce ad escludere la sua natura agricola ai fini della determinazione della base imponibile, è altresì suscettibile di edificazione, ancorché limitata alla realizzazione di fabbricati strumentali, così come indicato dalla ricorrente nel ricorso. Ciò fa sì che il terreno debba essere qualificato come edificabile ai fini dell’Ici e che la base imponibile debba essere determinata sulla base del valore venale” (Cass., sez. 5, n. 14409 del 09/06/2017; sez. 5, n. 3267 del 5/2/2019).
Non vi sono ragioni per discostarsi da tale indirizzo, volto ad escludere che terreni urbanisticamente destinati allo svolgimento di attività industriale, quale quella in esame, possano considerarsi agricoli.
Nella specie, non vi è dubbio che il terreno di proprietà della società contribuente ha destinazione estrattiva ed è stato classificato in categoria D/1, sicché esso non è qualificabile come agricolo. Da tanto deriva che la commissione tributaria regionale ha violato la normativa di riferimento, nel momento in cui ha escluso nell’immobile in esame i connotati dell’unità immobiliare urbana suscettibile di accatastamento.
Il ricorso va quindi accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può essere deciso nel merito ex art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso originario proposto dalla contribuente.
Nulla deve essere disposto riguardo alle spese, essendo parte contribuente rimasta intimata.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso della contribuente. Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022