LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GRECO Antonio – Presidente –
Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –
Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3340-2020 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. *****), in persona Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;
– ricorrente –
contro
M.L.P., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MAURO DI DALMAZIO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 579/6/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE dell’ABRUZZO SEZIONE DISTACCATA di PESCARA, depositata il 14/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 20/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA CAPRIOLI.
FATTO E DIRITTO
Considerato che:
L’Agenzia delle Entrate impugnava avanti alla CTR dell’Abruzzo, sez. distaccata di Pescara, la pronuncia della CTP di Pescara che aveva accolto il ricorso proposto da M.L.P. avverso l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva rettificato la dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta 2011 escludendo la natura di indennità di trasferta alle somme da quest’ultimo percepite quale dipendente del Consorzio Servizi Integrati scarl.
Il Giudice di appello con la sentenza n. 579/2019 rigettava il gravame ritenendo, alla luce della documentazione prodotta dal contribuente che fosse stata offerta la prova in merito all’effettivo espletamento delle trasferte.
Osservava con riguardo alla questione relativa alla prospettata applicabilità al caso di specie del disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 6, la novità della deduzione non denunciata nel precedente grado di giudizio. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo cui resiste con controricorso M.L.P..
Con un unico motivo l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 TUIR, comma 5, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La ricorrente lamenta, in particolare, che la CTR avrebbe omesso di vagliare tutti gli elementi di fatto e di diritto dedotti dall’Ufficio dalla cui considerazione sarebbe emersa la legittimità del rilievo violando in tal modo la normativa, la prassi e la giurisprudenza circa il trattamento delle indennità di trasferta ex art. 51 Tuir, comma 5.
Sostiene, infatti, che il giudice del merito avrebbe ritenuto a torto che il contribuente avesse provato l’espletamento delle trasferte per le quali il datore di lavoro aveva applicato la tassazione ai fini Irpef soltanto per la parte eccedente l’importo di Euro 46,48 per ciascuna giornata malgrado la controparte non avesse prodotto alcuna documentazione in grado di dimostrare l’effettività delle trasferte in violazione dell’art. 2697 c.c..
Va ricordato che questa Corte ha più volte affermato il principio secondo il quale “in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità”, se non nei limiti del vizio di motivazione come indicato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134, (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 195/2016; Cass. n. 26110/2015), nel caso di specie non denunciato.
Ed è stato quindi affermato che “Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (Cass. n. 7394/2010).
Pertanto, laddove la deduzione della violazione di legge sia solo formale, l’oggetto del ricorso non è più l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerente alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315), il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti nei quali quest’ultimo sia consentito (Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2019, n. 31546; Cass., Sez. U., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054).
Con riguardo alla denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., la stessa si configura solo se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
La CTR non ha affatto deviato dalla corretta applicazione del riparto dell’onere probatorio, come sembrerebbe ipotizzare l’Agenzia fiscale ma con valutazione in fatto, congrua e coerente rispetto agli evocati principi, e quindi non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che le prove offerte dalla ricorrente ed in particolare la documentazione prodotta (nota spese, buste paga e lettera d’incarico)dimostrassero l’effettiva entità dei lavori eseguiti, pervenendo a tale conclusione sulla base della corretta applicazione della regole, dell’onere della prova (così ripartito), individuando appunto nel datore di lavoro il soggetto onerato della dimostrazione dell’avvenuta esecuzione delle attività per le quali il Consorzio Servizi Integrati aveva applicato la tassazione ai fini Irpef per la parte eccedente l’importo di Euro 46,48.
Ogni altra argomentazione sottesa alla proposta censura tende evidentemente ad una inammissibile rivalutazione di fatti e risultanze probatorie come accertate dal giudice di appello.
In vero, non può ricondursi nell’ambito d’una censura per violazione di legge idoneamente formulata, secondo i principi sopra precisati, la deduzione con la quale si contesti al giudice del merito non di non aver correttamente individuato la norma regolatrice della questione controversa o di averla applicata in difformità dal suo contenuto precettivo, bensì di avere o non avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto presa in considerazione, la ricorrenza o meno degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacché valutazione siffatta non comporta un giudizio di diritto ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. 11.8.04 n. 15499, 29.4.02 n. 6224, 18.3.95 n. 3205, 10.1.95n. 228) ma ha piuttosto valutato nel merito le risultanze istruttorie, ritenendo che la documentazione prodotta dalla società dimostrasse la censura stessa si risolve nella denuncia di un “error facti” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con la conseguente inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, del motivo con il quale viene, invece, dedotto il diverso vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, relativo ad attività di giudizio, in punto di violazione della regola del riparto probatorio ex art. 2697 c.c..
Risulta “ictu oculi” che la critica formulata alla sentenza di appello investe, anche in questo caso, la inesatta ricostruzione della fattispecie concreta alla stregua delle risultanze istruttorie, e dunque un errore di fatto che doveva essere censurato attraverso il vizio di illogica motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di legittimità che si liquidano in complessive Euro 1400,00 oltre accessori di legge ed al 15% per spese generali.
Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022