LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27841/2019 proposto da:
H. O H.V. O V., elettivamente domiciliata in MONTELEONE SABINO, V. PIETRE PIANE 10, presso lo studio dell’avvocato ANGELO PICCHIONI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO CRISCUOLO;
– ricorrente –
contro
I.I., I.A., D.P.C., D.P.D., DE.PA.CL., D.P.O., I.E.J., I.A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso lo studio dell’avvocato CARLO MACCALLINI, rappresentati e difesi dall’avvocato RICCARDO LOPARDI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3950/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/09/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO;
udito il Procuratore Generale Dott. CORRADO MISTRI, che ha concluso per il rigetto dei primi due motivi e per l’accoglimento del terzo motivo.
FATTI DI CAUSA
I.P., G. e A. chiamavano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma H.V.; chiedevano che fosse accertata la falsità, nel testo e nella sottoscrizione, del testamento olografo del defunto Ia.An., datato *****, pubblicato a mezzo del notaio B.T. di Roma il 16 settembre 2008.
La convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda, previo accertamento dell’autenticità del testamento dell'*****; conseguentemente chiedeva che fosse accertata la propria qualità di unica erede del de cuius in forza del testamento stesso. In riconvenzionale, la convenuta chiedeva che fosse dichiarata la falsità del testamento olografo anteriore del defunto, recante la data del 31 ottobre 2007, pubblicato il 22 luglio 2008 a mezzo del notaio C.M.L.. In via subordinata chiedeva che fosse data esecuzione al legato, disposto in suo favore in tale testamento anteriore, della somma di Euro 300.000,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria, di cui Euro 200.000,00 da destinarsi in favore dei nipoti T.F., Be. e He..
Intervenivano nel giudizio I.A.M. e I.E.J., istituiti eredi testamentari con il testamento anteriore e già eredi legittimi, essendo nipoti ex fratre premorto del de cuius, i quali aderivano alle domande degli attori. Gli attori e gli intervenuti chiedevano di dichiarare l’indegnità a succedere della convenuta.
Intervenivano successivamente T.F., Be. e He., nipoti della convenuta, i quali proponevano domanda di adempimento del legato.
Il Tribunale, sul complesso delle domande, così provvedeva: dichiarava l’apocrifia del testamento dell'*****, nel contenuto e nella sottoscrizione; dichiarava valido ed efficace il testamento anteriore del 31 ottobre 2007; compensava interamente le spese di lite, comprese quelle di consulenza tecnica; dichiarava la carenza di legittimazione a intervenire di T.F., Be. e He., e ciò in base al rilievo che destinataria della disposizione era la sola H.V., non essendoci prova che la stessa non intendesse onorare la volontà del defunto.
Contro la sentenza H.V. proponeva appello. Si costituivano I.A. e I.I. anche come eredi di I.P.; si costituivano inoltre D.P.C., D.P.D., De.Pa.Cl. e D.P.O. quali eredi di I.G., i quali chiedevano il rigetto dell’appello principale e proponevano appello incidentale con riferimento alla statuizione di primo grado che aveva riconosciuto l’efficacia del legato a favore della convenuta disposto nel testamento del 31 ottobre 2007.
Non si costituivano ed erano dichiarati contumaci T.F., Be. e He..
La Corte d’appello rigettava l’appello principale e accoglieva l’appello incidentale. A) Essa, in primo luogo, disattendeva le censure dell’appellante principale fondate sulla mancata riunione con altre cause pendenti dinanzi al Tribunale di Roma (l’appellante aveva sostenuto che ricorreva un’ipotesi di connessione e persino di litispendenza); confermava la valutazione del tribunale circa il difetto di autenticità del testamento olografo dell'*****, superando le obiezioni mosse dall’appellante, la quale aveva lamentato l’incompletezza dell’indagine tecnica per il mancato esame di talune scritture di comparazione (l’appellante aveva sostenuto che le scritture erano state trattenute dal proprio consulente di parte dopo la rinuncia all’incarico). La Corte d’appello ha ritenuto infondata la censura sia perché l’appellante non aveva dimostrato come quei documenti avrebbero potuto incidere sull’esito della consulenza tecnica, sia perché non era stata data la prova del fatto che i documenti, che risultavano ritualmente prodotti in giudizio, fossero nel possesso del consulente di parte e non conservati nel fascicolo di parte da rimettere al consulente su iniziativa del difensore. Essa aggiungeva che, dal verbale di udienza, risultava che il difensore dell’epoca della convenuta aveva ritirato il fascicolo in sede di conferimento dell’incarico; aggiungeva ancora che il consulente tecnico d’ufficio aveva comunque replicato alle note critiche del consulente di parte della convenuta; aggiungeva inoltre che le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio trovavano conferma nell’accertamento computo in sede penale con la sentenza del Tribunale di Roma che aveva accertato, sulla base di perizia, la falsità del testamento e l’illiceità della condotta della convenuta; B) rigettava la richiesta di sospensione del giudizio civile in pendenza del processo penale contro la convenuta imputata per la falsificazione del testamento, non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dall’art. 75 c.p.p.; C) in accoglimento dell’appello incidentale, riconosceva l’indegnità a succedere, seppure a titolo particolare, della convenuta. Al fine di giustificare tale accertamento richiamava, oltre all’esito del giudizio civile sulla falsità del testamento, il fatto che la convenuta era stata condannata in sede penale per avere fatto scientemente uso di un testamento falso.
Per la cassazione della sentenza H.V. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. I.I., I.A., D.P.C., D.P.D., De.Pa.Cl., D.P.O., I.E.J., I.A.M. hanno resistito con controricorso.
I controricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Si rileva in primo luogo che il ricorso per cassazione non risulta notificato a T.F., Be. e He., contumaci nel giudizio d’appello. Tuttavia, non occorre assumere nessun provvedimento in relazione a tale omissione. Infatti, il giudice di primo grado ha dichiarato la carenza di legittimazione e la relativa statuizione non è stata impugnata né dagli interessati, né dalle altre parti. Essendosi pertanto formato il giudicato sul punto già in relazione alla sentenza di primo grado (Cass. n. 20928/2015), diventa superflua anche la notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 332 c.p.c. (cfr. Cass. n. 8693/2015).
2. Con il primo motivo di ricorso, rubricato “Mancata motivazione”, la ricorrente pone le seguenti censure:
A) il Tribunale e la Corte d’appello non hanno preso in considerazione l’operato del consulente di parte e non hanno motivato sul perché le conclusioni alle quali è pervenuto il suddetto consulente non sarebbero state credibili e sul perché esse non sono state prese in considerazione, essendosi limitati a prendere per buone le sole conclusioni del consulente tecnico d’ufficio.
La censura è infondata.
Vengono in considerazione i seguenti principi: “In tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione” (Cass. n. 19989/2016; n. 16368/2018).
“Qualora il giudice del merito aderisca al parere del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poiché l’accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo, anche per relationem dell’elaborato, implicare una compiuta positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente; diversa è l’ipotesi in cui alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori: in tal caso il giudice del merito, per non incorrere nel vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione” (Cass. n. 11917/2021; n. 15147/2008).
Ora, in palese contrasto con gli oneri derivanti dall’applicazione di tali principi, la ricorrente si duole dell’adesione dei giudici di merito alle conclusioni del consulente in termini del tutto generici. Non indica quali siano state le critiche puntuali e specifiche mosse dal proprio consulente, dovendosi aggiungere che la Corte d’appello ha precisato che il consulente d’ufficio ha replicato ai rilievi del consulente di parte.
B) Nonostante il modus operandi del consulente tecnico d’ufficio autorizzasse fondate riserve sull’imparzialità del medesimo nello svolgimento dell’incarico, il difensore che assisteva all’epoca la convenuta aveva omesso di sollevare le obiezioni del caso.
La censura è inammissibile. La ricorrente offre una propria rappresentazione soggettiva della vicenda senza formulare alcuna critica della decisione.
C) La sentenza di primo grado non aveva considerato la domanda riconvenzionale della convenuta, la quale aveva chiesto che fosse accertata e dichiarata la falsità del testamento del 31 ottobre 2007.
La censura è inammissibile. Essa denuncia un’omissione in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado e non risulta che la supposta violazione sia stata fatta valere in sede di appello (Cass. n. 2755/2018).
D) L’accertamento compiuto dai giudici di merito risentiva del pregiudizio che l’originaria convenuta avesse profittato del de cuius. Era stato così obliterato del tutto il fatto che c’era stata fra i due una lunga convivenza more uxorio, tant’e’ vero che il defunto aveva più volte proposto all’attuale ricorrente di unirsi in matrimonio.
La censura è inammissibile, perché si traduce in una mera supposizione con la quale si allude a fatti a priori privi di decisività.
3. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 39,40,273,274 e 112 c.p.c., “per le ragioni già ampiamente esposte nell’atto di citazione in appello, al quale ci si riporta in toto”.
Il motivo è inammissibile. Non è consentito formulare un motivo di ricorso per cassazione mediante rinvio agli atti del giudizio d’appello “L’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in indicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata” (Cass. n. 342/2021).
4. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 295 c.p.c. e segg..
La sentenza è oggetto di censura per avere la Corte d’appello dichiarato l’indegnità a succedere dell’attuale ricorrente sulla base della sentenza emessa in sede penale, con la quale essa è stata condannata per avere fatto scientemente uso di testamento falso. Si fa rilevare che la Corte d’appello non aveva considerato che il relativo procedimento era ancora pendente in grado d’appello, mancando pertanto il presupposto per potersi dichiarare l’indegnità.
Il motivo è infondato. La corte d’appello ha richiamato l’art. 75 c.p.p., che riguarda il rapporto fra l’azione penale e l’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. Nel caso in esame, trattandosi di azione volta a far valere l’indegnità della ricorrente per avere scientemente fatto uso di un testamento falso, la norma di riferimento è quella di cui all’art. 654 c.p.p., che disciplina l’efficacia della sentenza penale, di condanna o di assoluzione, in altri giudizi civili.
In relazione a tale norma questa Corte ha precisato che “la sospensione necessaria del processo civile ai sensi dell’art. 295 c.p.c., art. 654 c.p.p. e art. 211 disp. att. c.p.p., in attesa del giudicato penale, può essere disposta solo se una norma di diritto sostanziale ricolleghi alla commissione del reato un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile ed a condizione che la sentenza penale possa avere, nel caso concreto, valore di giudicato nel processo civile. Perché si verifichi tale condizione di dipendenza tecnica della decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto in ambito civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale” (Cass. n. 18918/2019; n. 2522/2021). E’ stato così definitivamente chiarito che il nesso richiesto dall’art. 295 c.p.c., non si trova in ogni processo civile nel quale possa esplicarsi l’autorità del futuro giudicato penale ai sensi dell’art. 654 c.p.p.. A rendere dipendente la decisione civile non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti e che la sentenza penale sia idonea a precludere l’accertamento dei fatti comuni al processo civile, ma occorre che la situazione sostanziale, l’effetto giuridico dedotto nel giudizio civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto dell’imputazione penale (Cass., S.U., n. 13682/2001).
Ora in linea di principio fra processo penale nel quale sia oggetto di imputazione il reato di falsificazione di un testamento e uso di un testamento falso e il giudizio civile per fare dichiarare l’indegnità a succedere dell’imputato corre certamente rapporto di pregiudizialità giuridica. L’art. 463 c.c., n. 6, infatti, commina l’indegnità di chi abbia formato un testamento falso o ne abbia fatto scientemente uso. Si rileva per completezza di esame che, a seguito della L. n. 4 del 2018, che ha introdotto nel codice di procedura penale l’art. 537-bis, l’indegnità è ora dichiarata dal giudice penale con la sentenza di condanna (art. 537-bis c.p.p.).
Occorre nello stesso tempo considerare che, al solito, la configurabilità della sospensione del processo civile suppone innanzitutto la pendenza del processo pregiudicante, da provare agli atti (Cass. n. 2413/1981). “La sospensione del processo presuppone che il rapporto di pregiudizialità tra due cause sia concreto ed attuale, nel senso che la causa ritenuta pregiudiziale deve essere tuttora pendente, non giustificandosi diversamente la sospensione, che si tradurrebbe in un inutile intralcio all’esercizio della giurisdizione, sicché, quando una sentenza sia impugnata in cassazione per non essere stato il giudizio di merito sospeso in presenza di altra causa pregiudiziale, è onere del ricorrente provare che la causa pregiudicante sia pendente e resti presumibilmente tale sino all’accoglimento del ricorso, mancando, in difetto, la prova dell’interesse concreto e attuale all’impugnazione, perché nessun giudice, di legittimità o di rinvio, può disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione di altra causa non più effettivamente in corso” (Cass. n. 26716/2019).
Nel caso in esame la ricorrente deduce di avere proposto appello contro la sentenza penale di primo grado; tuttavia, non ha avuto cura di documentare l’attuale pendenza del processo.
A tale considerazione, già sufficiente a giustificare il rigetto del motivo in esame, occorre aggiungere che, ai fini della configurabilità della sospensione del processo civile per pregiudizialità penale, deve ricorrere l’identità dei soggetti tra giudizio civile e giudizio penale (Cass. n. (Cass. n. 25272/2010); il che può configurarsi quando non soltanto l’imputato, ma anche il responsabile civile e la parte civile abbiano partecipato al processo penale (Cass. n. 14074/2005; n. 30838/2018). Poiché la norma di cui all’art. 654, si pone come eccezione al concetto di “separazione delle giurisdizioni”, va da sé che le disposizioni di legge ex artt. 651-654 c.p.p., debbano essere oggetto di un’interpretazione rigorosa ai fini della loro applicabilità; deve perciò escludersi l’operatività della norma in esame laddove non vi sia coincidenza soggettiva tra il giudizio penale e il giudizio civile (Cass. n. 11998/2005; n. 13016/2005; n. 20325/2006).
In presenza di un processo con una pluralità di parti occorre che vi sia piena coincidenza con le parti del processo penale; altrimenti, se tale coincidenza sia solamente parziale, i due processi proseguono in parallelo, nonostante l’eventuale carattere necessario del litisconsorzio, certamente riscontrabile riguardo all’azione d’impugnazione del testamento per indegnità a succedere della persona designata come erede dal de cuius, in quanto tale azione è diretta a ottenere una pronuncia in ordine a un rapporto giuridico unitario e ha per oggetto l’accertamento, con effetto di giudicato, della qualità di erede, la quale, per la sua concettuale unità non sarebbe operante se la decisione non fosse emessa nei confronti di tutti coloro che, essendo soggetti del rapporto successorio sono interessati alla successione mortis causa (Cass. n. 4533/1986; n. 1869/1073).
Pertanto, l’esistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario non giustifica la sospensione dell’intero processo e non consente, naturalmente, la sospensione parziale in attesa della definizione del processo penale (Cass., S.U., n. 13661/2019). Il rilievo, proposto in relazione alla sospensione prevista dall’art. 75 c.p.p., deve estendersi anche per i giudizi civili diversi da quelli di restituzione e risarcimento del danno.
Nel caso in esame la condizione dell’integrale identità soggettiva non ricorre, perché fra i più attori che hanno promosso l’azione civile contro la convenuta, la sola costituita parte civile è I.I.. Il punto, risultante dalla stessa sentenza impugnata, può ritenersi pacifico.
Conclusivamente, la mancanza della prova dell’attuale pendenza del processo penale e comunque il difetto dell’identità soggettiva fra i due processi rende superfluo il vaglio della sussistenza degli altri presupposti della sospensione; in primo luogo, se questa sia ancora configurabile dopo la pronuncia della sentenza penale di primo grado (cfr. Cass., S.U. n. 21763/2021).
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.
PQM
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022
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