Nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, il riempimento “absque pactis” consiste in una falsità materiale realizzata trasformando il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, mentre il riempimento “contra pacta” (o abuso di biancosegno) consiste in un inadempimento derivante dalla violazione del “mandatum ad scribendum”, il quale può avere un contenuto sia positivo che negativo; ne deriva che anche la violazione di un accordo sul riempimento avente contenuto negativo (quale è quello che prevede, a carico di chi riceve il documento, l’obbligo di non completarlo) integra un abuso di biancosegno, la cui dimostrazione non onera la parte che lo deduca alla proposizione di querela di falso.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GORJAN Sergio – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15805/2017 proposto da:
T.F., rappresentato e difeso dall’avv. PIERLUIGI VOSSI;
– ricorrente –
contro
C.A., rappresentato e difeso dall’avv. GIOVANNI SPINA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 179/2017 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 14/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 03/11/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.
FATTO E DIRITTO
ritenuto che l’ing. T.F. convenne in giudizio C.A., chiedendo che il convenuto fosse condannato a pagargli la somma di poco più di settantamila Euro, costituente compenso di prestazioni professionali, per avere progettato e diretto i lavori per la realizzazione di un edificio; che il C. chiese rigettarsi la domanda, poiché aveva corrisposto il compenso (circa tremila Euro) per l’incarico conferito al professionista, ben minore e diverso rispetto a quello descritto dall’attore, essendo stato costui incaricato, con mandato del 28/9/2004, solo di far luogo a una consulenza in merito alla lottizzabilità di un fondo;
ritenuto che l’insoddisfatto appellante ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di due motivi, che l’intimato resiste con controricorso e che entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa;
osserva:
1. Il ricorrente, con il primo motivo, denunzia violazione dell’art. 214 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché “manifesta illogicità della sentenza”, prospettando, in sintesi, che:
– la Corte di merito aveva erroneamente ammesso il disconoscimento della scrittura datata 13/9/2004, con la quale il C. aveva conferito l’incarico al professionista, nel mentre con la successiva del 28/9/2004 si era limitato ad autorizzare il T. ad acquisire la documentazione necessaria allo svolgimento della “consulenza tecnica relativa al lotto di costruzione di civile abitazione”, nonostante che la controparte avesse fatto luogo solo a un “mero tentativo di disconoscimento”;
– colui contro il quale viene prodotta una copia fotostatica di un documento, soggiunge il ricorrente, “ha l’onere di disconoscere tempestivamente la sua conformità all’originale”, invece il C. si era limitato a dichiarare “… si disconosce allo stato la fotocopia della scrittura 13.09.2004 ex adverso prodotta, invitando formalmente controparte al deposito in giudizio dell’originale, e riservandosi in quella sede ogni ulteriore iniziativa…”, con la conseguenza che la scrittura avrebbe dovuto intendersi per riconosciuta;
– essendo il ricorrente legittimamente venuto in possesso del documento (per come accertato anche in sede penale) e avendo il C. reiteratamente affermato di non aver conferito alcun incarico di progettazione per la costruzione d’un edificio, era evidente che non potevasi discorrere “di riempimento abusivo di foglio contra pacta, proprio perché quest’ultimo presuppone la preesistenza di un atto, che nella fattispecie de quo mancherebbe del tutto (…) Si dovrebbe, allora, far ricorso alla fattispecie sine pactis o absque pactis (mancanza di autorizzazione del C. all’eventuale riempimento abusivo del foglio in bianco con preventivo patto di riempimento): la quale, tuttavia, presuppone l’esercizio propositivo della querela di falso”;
1.1. La doglianza non è fondata.
Secondo un primo approdo di legittimità il disconoscimento non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento “absque pactis”, sia che si tratti di riempimento “contra pacta”, dovendo, invece, essere proposta la querela di falso, se si sostenga che nessun accordo per il riempimento sia stato raggiunto dalle parti, e dovendo invece essere fornita la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto, se si sostenga che l’accordo raggiunto fosse, appunto, diverso (Sez. 3, n. 25445, 16/12/2010, Rv. 614986).
Secondo un successivo indirizzo la denunzia dell’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco postula la proposizione della querela di falso tutte le volte in cui il riempimento risulti avvenuto “absque pactis”, non anche nell’ipotesi in cui il riempimento abbia avuto luogo “contra pacta” (Sez. 3, n. 5417, 07/03/2014, Rv. 630010; conf., Cass. n. 21587/2019). In quest’ultima occasione si è chiarito che, trattandosi “di riempimento abusivo della scrittura privata avvenuto contra pacta, come tale non soggetto alla proposizione della querela di falso, ma suscettibile di apprezzamento da parte del giudice del merito in base al corredo probatorio ritualmente acquisito, come e’, per l’appunto, avvenuto nella controversia in esame”.
Accedendo a questa seconda e più convincente chiave interpretativa, che postula la necessità della querela di falso le volte in cui il riempimento ha avuto luogo “absque pactis”, l’ipotesi ricostruttiva del ricorrente non può essere accolta.
Nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, il riempimento “absque pactis” consiste in una falsità materiale realizzata trasformando il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, mentre il riempimento “contra pacta” (o abuso di biancosegno) consiste in un inadempimento derivante dalla violazione del “mandatum ad scribendum”, il quale può avere un contenuto sia positivo che negativo; ne deriva che anche la violazione di un accordo sul riempimento avente contenuto negativo (quale è quello che prevede, a carico di chi riceve il documento, l’obbligo di non completarlo) integra un abuso di biancosegno, la cui dimostrazione non onera la parte che lo deduca alla proposizione di querela di falso (Sez. 3, n. 899, 17/1/2018, Rv. 647124).
La decisione, la cui massima viene immediatamente sopra riportata, nel corpo della motivazione spiega: “Si è stabilito, in particolare, che il riempimento absque pactis è quello che trasforma il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, e costituisce perciò una falsità materiale. Il riempimento contra pacta o abuso di biancosegno, invece, consiste in un inadempimento: ovvero nella violazione del mandatum ad scribendum conferito dal sottoscrittore a chi poi dovrà completare il documento (così, in particolar modo, Sez. 3, Sentenza n. 18989 del 01/09/2010). Ne consegue che deve ritenersi sussistente non un falso materiale (riempimento absque pactis), ma un abuso di biancosegno (riempimento contra pacta) in tutti i casi in cui esista un qualsivoglia accordo sugli interventi da eseguire sul testo”.
Andando al caso che ci occupa, al professionista venne rilasciato foglio firmato in bianco (punto, questo, pacifico), perché lo riempisse in maniera tale da poterlo utilizzare per richiedere documentazione (secondo la tesi del controricorrente), perché lo riempisse con la descrizione dell’incarico progettuale (secondo la tesi del ricorrente).
Nell’uno e nell’altro caso non si versa nell’ipotesi di falsità materiale, realizzata trasformando il documento in qualcosa di diverso da quel che era in precedenza, ma, nella prospettiva coltivata dal convenuto e fatta propria dai Giudici di merito, in un inadempimento derivante dalla violazione del “mandatum ad scribendum”, cioè “nella violazione del mandatum ad scribendum conferito dal sottoscrittore a chi poi dovrà completare il documento”. La contestazione di una tale violazione non postula il disconoscimento dell’abusivo riconoscimento, non trattandosi, appunto in una scritturazione falsa, ma della violazione del patto di riempimento, che va provato secondo le regole ordinarie in materia di prova. A maggior ragione, proprio perché non si è in presenza di un falso materiale, ma di un riempimento in contrasto con il mandato a scrivere, non occorre querela di falso.
La Corte di merito, sulla scorta dell’esito del vaglio probatorio, ha reputato che l’appellato avesse “chiaramente provato che il mandato conferito all’appellante fu violato con l’inserimento di dichiarazioni diverse da quelle pattuite” e ciò basta.
Se questa è la “ratio decidendi” risulta evidente che non ha rilievo la contrastata affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale vi sarebbe stato disconoscimento tempestivo della scrittura e, pertanto, non occorre confrontarsi con un tale asserto.
2. Con il secondo motivo il T. denunzia violazione dell’art. 246 c.p.c..
Assume il ricorrente che la Corte locale aveva errato a non valutare incapace a deporre la moglie del C.. La predetta, che non era stata mai indicata quale persona informata nel processo penale, aveva interesse diretto, tale da coinvolgerla nel rapporto controverso; né poteva sottacersi la sussistenza di un interesse indiretto all’accrescimento del patrimonio del coniuge.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 c.p.c., per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità (Sez. 3, n. 25358, 17/12/2015, Rv. 638123). In definitiva, non più ipotizzabile l’incapacità a rendere testimonianza del coniuge, appartiene all’insindacabile scrutinio di merito il giudizio d’attendibilità del teste. Peraltro, il ricorrente altro non evoca che il rapporto di coniugio, senza neppure indicare quali specifici elementi, denotanti mancanza d’attendibilità, il Giudice abbia obliterato.
Quanto poi al paventato interesse della teste all’esito della causa, questa Corte ha già chiarito che l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati (Sez. L. n. 21418, 21/10/2015, Rv. 637578).
E’ di tutta evidenza che, nella sostanza, peraltro neppure dissimulata, la censura investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299).
Il ricorrente va condannato a rimborsare le spese in favore dei controricorrenti, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo.
Sul punto devesi osservare che non può essere valutato quale atto difensivo che meriti remunerazione quella che il controricorrente ha nomato “memoria”, trattandosi di un mero, nudo, immotivato e generico richiamo in sei righe delle proprie difese. La giurisprudenza della Corte è ormai costante nel ritenere che l’art. 366 c.p.c., n. 4, si applichi, specularmente, anche al controricorso (Cass. n. 12171/09 ed ivi richiamo a Cass. n. 5400/06; cfr. anche Cass. nn. 6222/12 e 3421/97); ciò, tuttavia non significa affatto pretendere, al fine di valutarne l’ammissibilità, che il controricorso debba contenere dei propri “motivi” specifici e speculari rispetto a quelli del ricorso, né tanto meno che contrattacchi la decisione con altre autonome argomentazioni, ma semplicemente esigere che esso contenga una sia pur minima confutazione del ricorso, in qualunque modo articolata, purché la sua giustapposizione alla vicenda oggetto di ricorso non sia affidata alla sola deduzione logica della Corte sulla sola base dell’indicazione dei dati di riferimento della causa (numero d’iscrizione a ruolo, nomi delle parti, decisione impugnata). Il principio di diritto sopra riportato sorregge l’anticipata decisione in ordine alla quantificazione delle spese da liquidare.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022
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