Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1489 del 18/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22069-2020 proposto da:

G. INTERNATIONAL SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GUIDO D’AREZZO 2, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO FRONTONI, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURIZIO PARISI;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO ***** SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 127/2020 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 31/3/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata dell’1/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ALBERTO PAZZI.

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Patti, con sentenza n. 104/2017, dichiarava l’inefficacia, nei confronti della curatela del fallimento di ***** s.r.l. in liquidazione, della cessione di ramo d’azienda stipulata in data ***** fra ***** s.r.l. in bonis e la C.E.C. Civil Engineering Company International s.r.l. (oggi G. International s.p.a.), ordinando a quest’ultima di restituire i beni oggetto della cessione.

2. La Corte d’appello di Messina, una volta disattesa l’eccezione di incompetenza funzionale sollevata da G. International s.p.a., riteneva che la cessione di ramo d’azienda, avvenuta ad un prezzo determinato sulla scorta dei valori di bilancio piuttosto che del suo reale valore commerciale, avesse reso più incerta o difficile la soddisfazione del credito.

A fronte di una simile prova offerta dalla curatela attrice, la compagine convenuta non aveva dimostrato, invece, l’insussistenza di un pregiudizio eziologicamente connesso all’atto di cessione impugnato.

Di conseguenza doveva trovare conferma la statuizione assunta dal tribunale, in presenza – a parere dei giudici distrettuali – tanto di un sicuro eventus damni, quanto di un consilium fraudis, stante la piena compenetrazione oggettiva e soggettiva esistente fra le due società contraenti.

3. Per la cassazione di questa sentenza, pubblicata in data 31 marzo 2020, ha proposto ricorso G. International s.p.a. prospettando tre motivi di doglianza.

L’intimato fallimento di ***** s.r.l. non ha svolto difese.

CONSIDERATO

che:

4. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 24 e 66, e dell’art. 132 c.p.c., in quanto la decisione, assunta rispetto a una controversia destinata a incidere su una procedura concorsuale, doveva comunque essere resa dal tribunale fallimentare, quale giudice funzionalmente ed esclusivamente competente a decidere a questo riguardo, e non dal tribunale civile.

5. Il motivo non è fondato.

Allorquando il tribunale che ha dichiarato il fallimento e il tribunale cd. ordinario coincidano nello stesso organo giurisdizionale non è prospettabile – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte una questione di competenza, poiché la sezione fallimentare non costituisce un ufficio autonomo (Cass. n. 10912/2002), potendosi al più disquisire in ordine all’inammissibilità, all’improcedibilità o all’improponibilità della domanda siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge (Cass. n. 9198/2017).

La Corte distrettuale, quindi, una volta constatato che l’autorità giudiziaria che aveva pronunciato la decisione impugnata era la sezione promiscua del Tribunale di Patti, a cui erano attribuiti gli affari anche in materia di fallimenti, ha correttamente ritenuto che la questione posta non investisse un problema di competenza in senso tecnico, valorizzando il fatto che il tribunale cd. fallimentare e il tribunale cd. ordinario coincidessero nello stesso organo giurisdizionale piuttosto che la mancata formale attribuzione della statuizione al tribunale fallimentare, come pare sostenere il mezzo in esame.

6. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione degli artt. 2901 e 2697 c.c., e della L. Fall., art. 66: la Corte d’appello ha confermato la sentenza di revoca dell’atto di cessione d’azienda pur in assenza – in tesi di parte ricorrente – dei presupposti per l’accoglimento della domanda.

Spettava alla curatela fallimentare, e non alla parte convenuta, dimostrare non solo la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo, ma anche la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole e lo svantaggioso mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore, in maniera tale da far divenire oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito.

Non vi era prova, inoltre, della conoscenza del pregiudizio che l’atto negoziale avrebbe provocato ai creditori da parte della società alienante e della compagine acquirente.

7. Il motivo è fondato, nei termini che si vanno a illustrare.

La Corte di merito, nel valutare il ricorrere dei presupposti oggettivi dell’azione revocatoria promossa in sede fallimentare, ha constatato che il negozio incriminato rendeva più incerta e difficile la soddisfazione del credito, ha registrato la certezza e liquidità dello stesso sulla scorta dell’esito delle operazioni di verifica dello stato passivo e ha constatato, da ultimo, che a fronte della prova offerta da parte attrice parte convenuta non aveva “a sua volta provato l’insussistenza del pregiudizio eziologicamente connesso all’atto di cessione impugnato” (pag. 6).

Queste valutazioni non corrispondono, però, alle verifiche che il giudice deve compiere, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel caso in cui l’azione revocatoria ordinaria sia promossa ad opera di una procedura fallimentare L. Fall., ex art. 66.

In questo caso, infatti, non può trovare applicazione la regola (cfr. Cass. 1902/2015) secondo cui, a fronte dell’allegazione, da parte del creditore, delle circostanze che integrano l’eventus damni, incombe sul debitore l’onere di provare che il patrimonio residuo è sufficiente a soddisfare le ragioni della controparte, in quanto, da un lato, il curatore rappresenta contemporaneamente sia la massa dei creditori sia il debitore fallito e, dall’altro, in ossequio al principio della vicinanza della prova, tale onere non può essere posto a carico del convenuto, beneficiario dell’atto impugnato, che non è tenuto a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale del suo dante causa.

E’ dunque il fallimento – e non la parte convenuta, come erroneamente ha ritenuto la Corte di merito – ad essere onerato di fornire la prova che il patrimonio residuo del debitore poi fallito era di dimensioni tali, in rapporto all’entità della propria complessiva esposizione debitoria, da esporre a rischio il soddisfacimento dei creditori (Cass. 9565/2018, Cass. 2336/2018, Cass. 8931/2013).

Più precisamente, il curatore fallimentare che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria per dimostrare la sussistenza dell’eventus damni ha l’onere di provare tre circostanze: i) la consistenza del credito vantato dai creditori ammessi al passivo nei confronti del fallito; ii) la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole; iii) il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio del debitore per effetto di tale atto.

Solo se dalla valutazione complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse emergere che per effetto dell’atto pregiudizievole sia divenuta oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in una misura che ecceda la normale e fisiologica esposizione di un imprenditore verso i propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la sussistenza dell’eventus damni (Cass. n. 26331/2008, Cass. n. 19515/2019).

Non sono, invece esaminabili, in questa sede contestazioni che investono la pregnanza del materiale probatorio, la cui valutazione rientra nei compiti istituzionali della Corte di merito.

8. Rimane di conseguenza assorbito il terzo motivo di ricorso (con cui la ricorrente ha sostenuto che la Corte di merito abbia erroneamente ritenuto che l’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria provocasse un effetto restitutorio piuttosto che quello previsto dall’art. 2902 c.c.).

9. La sentenza impugnata andrà dunque cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte distrettuale, la quale, nel procedere al suo nuovo esame, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo mezzo e dichiara assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022

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