LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 13188/2013 di R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.
– ricorrente –
contro
A.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via Colossi n. 53, presso lo studio dell’avvocato Daniela Empoli, rappresentato e difeso dall’avvocato Marco Loi e dall’avvocato Francesco Demartis.
– controricorrente –
Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. SARDEGNA, sezione staccata di SASSARI, n. 61/08/12, depositata il 20/11/2012.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 gennaio 2022 dal Consigliere Riccardo Guida;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Vitiello Mauro, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso limitatamente al primo motivo.
FATTI DI CAUSA
1. Da un’indagine della Guardia di Finanza (“G.d.F.”) nei confronti di A.L., della Areline S.r.l., e della ditta individuale “Areline di A.S.” risultò che A.L. aveva svolto “in nero” attività di intermediario (o addetto alle vendite) dei prodotti (stufe a pellet) delle due imprese e che, nel 2005, per tale attività aveva percepito provvigioni (non dichiarate) per Euro 96.906,00. Ne scaturì un avviso di accertamento che, per quel periodo d’imposta, recuperava a tassazione il medesimo importo, ai fini Irpef, Irap, Iva. Più dettagliatamente, quanto all’Iva, nel corso della verifica, il contribuente esibì una fattura passiva del 31/12/2005, dell’importo di Euro 151.730,00, oltre Iva, emessa dalla Areline S.r.l., relativa all’acquisto di 85 stufe a pellet, nonché 69 fatture (attive) di vendita, indirizzate alla clientela, che per l’ufficio finanziario si riferivano ad operazioni inesistenti in quanto, in realtà, il contribuente non aveva ceduto le stufe ai clienti finali, ma (come sopra precisato) aveva svolto l’attività di intermediario per conto delle due imprese anzidette.
2. La Commissione tributaria provinciale di Sassari, con sentenza n. 133/02/2010, rigettò il ricorso del contribuente avverso l’atto impositivo.
3. La Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) della Sardegna (sezione staccata di Sassari), in parziale accoglimento dell’appello del contribuente, ha testualmente (cfr. il dispositivo della sentenza) “invita(to) l’Ufficio a rideterminare le imposte dovute e le relative sanzioni sulla base di quanto riportato in (motivazione)”, dopo avere esposto le seguenti considerazioni: (i) l’esame incrociato dei numerosi documenti contabili in atti conferma che è corretto il giudizio della Commissione provinciale, secondo cui il contribuente non ha esercitato attività commerciale nel senso “fiscale” dell’espressione ed ha piuttosto svolto attività di intermediazione pura e semplice; (ii) con riferimento all’Iva sugli acquisti e sulle cessione delle stufe, è provato che dette cessioni sono state effettuate unicamente da Areline S.r.l. e che il contribuente ha svolto l’attività di “incaricato alla vendita”, sicché le 69 fatture attive che egli ha emesso sono fittizie perché recano una partita Iva inesistente alla data di emissione dei singoli documenti, ma comunque egli ha effettuato la vendita (di stufe e climatizzatori) come agente di zona di Areline S.r.l. e della ditta Areline di A.S.. E ciò comporta per l’ufficio la necessità di rettificare l’accertamento, avendo cura di annullare la duplicazione di imposta, sulla base del principio, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 309/2006), per il quale sussiste il diritto di detrarre l’Iva pagata sugli acquisti al fine di evitare una duplicazione di imposta non consentita né dall’ordinamento comunitario né da quello interno, integrandosi diversamente la violazione dell’art. 53 Cost.; (iii) quanto alle provvigioni percepite, oltre a quella di cui alla fattura n. *****, occorre riconoscere quelle non contabilizzate, tenendo conto dei costi inerenti ed applicando una “percentuale” (“delle provvigioni”) pari a quella indicata dal ricorrente sul volume d’affari al netto dell’Iva, nonché una percentuale di redditività che, considerate le varie voci di spesa (acquisto autovettura, ammortamenti, carburante, assicurazioni, bollo, manutenzione, telefonia, etc.), non può superare il 40% dell’attività in esame; (iv) non è dovuta l’Irap in mancanza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, data l’assenza di dipendenti o di qualunque altra forma di collaborazione, dati altresì i beni strumentali minimi (un’autovettura) e lo svolgimento dell’attività in un locale di 50 mq.
4. L’Agenzia delle entrate ricorre con tre motivi per la cassazione della sentenza d’appello; il contribuente resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso (“1) Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 18,19, art. 21, comma 7, in tema di indetraibilità di Iva acquisti per fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”), poggia sulla premessa che, in sede di verifica della G.d.F., era stata accertata l’inesistenza della vendita, da parte di Areline S.r.l. al contribuente, di 85 stufe a pellet, per una totale di Euro 151.730,00, oltre Iva, e, conseguentemente, l’inesistenza delle operazioni fatturate. Ciò precisato, l’Agenzia censura la sentenza impugnata, che ha riconosciuto il diritto del contribuente alla detrazione dell’Iva, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, richiamando la sentenza della Cassazione n. 309/2009, senza considerare che quella pronuncia si riferisce alla diversa ipotesi del recupero dell’Iva nei confronti di chi emette la fattura falsa e sottolinea l’obbligo di quest’ultimo (e non del soggetto destinatario della prestazione fatturata), di versare l’imposta dovuta. In altri termini: l’emissione di fattura per operazioni inesistenti determina comunque l’obbligo, per il soggetto emittente, di corrispondere all’erario la relativa Iva; non per questo, tuttavia, il destinatario del documento contabile ha il diritto di operare la detrazione dell’imposta assolta “a monte” che risulta, infatti, indetraibile. La previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, disciplina un illecito tributario, specificamente sanzionato, il che, diversamente da quanto pare ritenere la C.T.R. in adesione alla linea difensiva del contribuente, non consente di configurare alcuna duplicazione di imposta, perché il versamento dell’importo risultante in fattura da parte del cedente e l’illegittima detrazione dell’importo stesso da parte del cessionario trovano fondamento, rispettivamente, per il cedente, nella norma sanzionatoria, per il cessionario, nell’inesistenza del credito Iva detratto.
2. Con il secondo motivo (“2) Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”), l’Agenzia assume che la verifica fiscale aveva fatto emergere che il contribuente aveva svolto “in nero” attività di intermediario di commercio per conto di Areline S.r.l. e della ditta di A.S., reali venditrici delle stufe, e che per tale attività egli aveva ricevuto commissioni pari nel 2005 al 20% e nel 2006 al 22% del prezzo pagato dai clienti finali per ogni cessione; che l’Amministrazione finanziaria aveva “ricostruito induttivamente (…) in applicazione di quanto previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d),” il reddito non dichiarato, applicando una percentuale di redditività del 78% che, in mancanza di costi documentati, era stata presuntivamente evinta dalla percentuale media dichiarata ai fini degli studi di settore dai soggetti operanti nel medesimo territorio ed esercenti la medesima attività. Sulla base di tale premessa, l’ufficio si duole della sentenza impugnata che, pur condividendo entrambi gli elementi di fatto dell’accertamento (inesistenza della vendita delle stufe e svolgimento, da parte del contribuente, dell’attività di intermediario), per la quantificazione della pretesa tributaria ha adottato del tutto immotivatamente altri parametri, e cioè: una percentuale di provvigioni/commissioni del 67%, e una percentuale di redditività del 40%.
3. Con il terzo motivo (“3) Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”), l’Agenzia censura la sentenza impugnata che ha negato che il contribuente fosse soggetto all’Irap, per carenza di prova del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, senza considerare che, per giurisprudenza costante, è onere del contribuente che chiede il rimborso dell’imposta regionale asseritamente non dovuta dimostrare l’assenza dell’autonoma organizzazione.
4. Il primo motivo è fondato.
4.1. La sentenza impugnata, poco chiara sul punto, sembra affermare che, pur in presenza di fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto è dimostrato che il contribuente non ha ceduto le stufe ai clienti, al medesimo spetti comunque il diritto alla detrazione Iva, conformemente al disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, e in ossequio al generale divieto di duplicazione di imposta.
4.2. La statuizione non è conforme alla giurisprudenza di questa sezione tributaria, che il Collegio condivide, recentemente ribadita da Cass. 12/10/2021, n. 27637, per cui “(L)a fattispecie individuata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, è (…) del tutto speciale ed esula dalla applicazione del regime ordinario dell’Iva (cfr. Cass. n. 7289 del 29/05/2001; Cass. n. 22882 del 25/10/2006; Cass. n. 1565 del 27/01/2014): il legislatore, in caso di “operazione inesistente”, ha, infatti, inteso privilegiare la rappresentazione cartolare del rapporto rispetto alla effettiva irrealtà della operazione sottostante, assoggettando comunque ad imposizione detto rapporto, ma tale previsione normativa opera soltanto dal lato del debito d’imposta gravante sull’emittente, quale soggetto passivo nei confronti dell’Erario; mentre dal lato del cessionario/destinatario della prestazione di servizi, in difetto di alcuna disciplina normativa speciale, rimane confermato il meccanismo ordinario dell’Iva, per cui, in difetto di verificazione del presupposto impositivo (attesa la inesistenza di una reale cessione di beni/prestazioni di servizi in cambio di corrispettivo), alcun diritto alla detrazione/rimborso può sorgere dall’utilizzo di una fattura passiva che è stata emessa per una operazione che in realtà non esiste (così, sostanzialmente, Cass. n. 25997 del 10/12/2014) (…) In buona sostanza, vale il principio di diritto per il quale in tema di Iva, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, comma 7, ai sensi del quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta stessa è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura, va interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione “isolata” da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, senza che possa operare, per tale fatto, il meccanismo di compensazione, tra Iva “a valle” ed Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. (…),art. 19, e ciò anche in considerazione della rilevanza penale della condotta consistente nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti (cfr. Cass. n. 1565 del 27/01/2014; ma si veda anche Cass. 10939 del 2015 (…); si vedano anche Cass. n. 23551 del 05/11/2014; Cass. n. 17774 del 06/07/2018). (…) Ciò risponde pienamente al principio di neutralità dell’Iva, in quanto tende ad evitare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Ed è pienamente conforme, altresì, alla previsione della sesta Dir., art. 21, p. 1, lett. c), per l’applicazione del quale è sufficiente la mera indicazione dell’Iva in fattura.”.
5. Il secondo motivo, nella sua duplice articolazione, è fondato nei termini che seguono.
5.1. Cominciando dall’esame del c.d. “vizio di motivazione”, va considerato che la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 20/11/2012, sicché trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134, che si applica in relazione alle sentenze d’appello pubblicate dall’11/09/2012. In base alla norma novellata ed attualmente vigente, applicabile ratione temporis, è denunciabile per cassazione soltanto l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario (e per tale ragione appare imprecisa la censura, recata dalla seconda parte della rubrica del mezzo d’impugnazione, d'”insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.
5.2. Nella specie, la sentenza impugnata è senz’altro carente nella parte in cui, senza minimamente esaminare gli elementi oggettivi che l’ufficio aveva addotto a dimostrazione del fatto che, per un verso, per l’attività d’intermediazione svolta “in nero”, il contribuente, nel 2005, aveva ricevuto commissioni del 20% sul venduto e che, per altro verso, la percentuale di redditività (sempre sul venduto) era del 78%, ha laconicamente sottostimato i ricavi dell’appellante aderendo, in maniera acritica, alla diversa prospettazione della difesa di quest’ultimo.
5.3. Per effetto dell’accoglimento di tale rilievo rimane assorbita la prima censura del complesso motivo, attinente ad un error iuris, in quanto l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura (come si è appena visto) è possibile, in sede di legittimità, come vizio dello sviluppo argomentativo della decisione, e non invece assumendo a parametro la violazione di legge.
6. Il terzo motivo è infondato.
6.1. E’ pacifico orientamento di legittimità (cfr. tra le molte Cass. 04/11/2020, n. 24516) che “In tema di Irap, il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività, in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni meramente esecutive.”.
6.2. Quanto al riparto dell’onere della prova, tra il fisco e contribuente, circa l’esistenza o meno del presupposto dell’imposta (D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, comma 1), dell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata (altrimenti detta, con locuzione sintetica, “autonoma organizzazione”) diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, vale la regola generale per cui se è fatta valere una pretesa tributaria tramite la notifica al contribuente di un accertamento, spetta all’ufficio l’onere di provare la ricorrenza del presupposto impositivo; se invece è il contribuente ad agire per il rimborso dell’Irap indebitamente versata, sarà suo onere provare l’assenza dell’autonoma organizzazione.
6.3. Nella specie, in applicazione di questo principio di diritto, poiché si controverte dell’accertamento dell’erario, incombe senz’altro sull’Agenzia (e non su contribuente) la prova del presupposto dell’imposta. Sotto altra angolazione giuridica, è dato rilevare che la C.T.R., alla stregua di un giudizio di fatto fondato su tutti gli elementi oggettivi della vicenda tributaria, ha concluso che il contribuente ha svolto l’attività di intermediario in assenza di autonoma organizzazione e che pertanto non è soggetto all’Irap.
7. In conclusione, accolti il primo e il secondo motivo (nei termini sopra indicati) e rigettato il terzo motivo di ricorso, la sentenza è cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio al giudice a quo, anche per la disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sardegna (sezione staccata di Sassari), in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022