Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.1516 del 19/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12143/2017 proposto da:

P.G., e G.B., rappresentati e difesi dall’Avvocato UGO DELLA MONICA per procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO ***** S.R.L., rappresentata e difesa dall’Avvocato GIOVANNI TAIANI per procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 297/2017 della CORTE D’APPELLO DI SALERNO, depositata il 29/3/2017;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza non partecipata del 1/12/2021 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.

FATTI DI CAUSA

1.1. La curatela del fallimento della ***** s.r.l. ha proposto azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita (e cioè, tra gli altri, P.G., quale amministratore in carica al momento del fallimento, e G.B., quale amministratore di fatto fino al 2005), per aver omesso di procedere, pur in presenza di una perdita di esercizio tale da ridurre il capitale sociale al di sotto dei minimi previsti, alla ricapitalizzazione, continuando l’amministrazione e dismettendo l’unico bene sociale.

1.2. Il tribunale, dopo l’assunzione di prova testimoniale e lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio, ha ritenuto che: – era risultata provata la “discesa del capitale al di sotto del minimo di legge”; – la responsabilità derivava dalla “scelta compiuta di procedere al rimborso dei finanziamenti fatti dai soci prima di soddisfare i creditori sociali”; – gli amministratori, “una volta provati i fatti posti a fondamento della domanda ed il nesso causale”, hanno l’onere di provare la loro estraneità ai fatti e l’osservanza dei doveri ad essi spettanti; – per le “irregolarità di gestione” doveva essere ritenuto responsabile anche G.B., marito di P.G., essendo stato dimostrato che lo stesso non aveva soltanto compiti esecutivi ma svolgeva “funzioni decisionali”.

1.3. Il tribunale, quindi, dichiarata la cessazione della materia del contendere in relazione alla posizione dei “successivi amministratori”, ha condannato P.G. e G.B. al pagamento della somma di Euro 163.255,35, oltre alle spese.

2.1. P.G. e G.B. hanno proposto appello al quale ha resistito la curatela del fallimento.

2.2. La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello ed ha, per l’effetto, confermato la sentenza impugnata.

2.3. La corte, in particolare, per quanto ancora rileva, ha osservato che, per ciò che riguarda la richiesta di dichiarare inammissibile la consulenza tecnica per essere stata strumento di ricerca della prova e non strumento di valutazione della stessa, i principi vigenti consentono, sia pur entro un ambito definito, la delega di indagini al consulente posto che, in tema di azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali, quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, può essere disposta una consulenza tecnica d’ufficio allo scopo di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse; d’altra parte, ha aggiunto la corte, benché le parti non possano sottrarsi all’onere probatorio a loro carico invocando, per l’accertamento dei propri diritti, una consulenza tecnico di ufficio, non essendo la stessa un mezzo di prova in senso stretto, è tuttavia consentito al giudice fare ricorso a quest’ultima per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario (c.d. consulenza percipiente) purché la parte, entro i termini di decadenza propri dell’istruzione probatoria, abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda, ed il loro accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche.

2.4. La corte, poi, quanto al merito, dopo aver premesso che il primo giudice aveva affermato, ritenendola assorbente ai fini della prova della male gestio, che la responsabilità per il dissesto societario devesse essere ricondotta all’amministratore P.G. non già per la mancata ricapitalizzazione della società in conseguenza dell’abbattimento del capitale sociale sotto il minimo di legge, quanto per aver “scelto di procedere in via preventiva al rimborso dei finanziamenti fatti dai soci, in danno dei creditori sociali, che avrebbero dovuto essere preferiti ai soci”, ha escluso che potesse condividersi la tesi della mancata conoscenza dei debiti sociali per non essere stato notificato alcun precetto, “avendo comunque l’amministratore la possibilità e l’obbligo di conoscere e valutare la situazione creditoria e debitoria della società”, tanto più che, come evidenziato in “perizia”, “l’amministratrice non poteva non appostare in bilancio il potenziale debito della sig.ra Pe., già dipendente e ricorrente, ex art. 414 c.p.c., nei confronti della società, per rivendicazioni salariali e per illegittimo licenziamento”. In definitiva, ha concluso la corte, gli amministratori della società, “scegliendo di privilegiare la restituzione di un finanziamento al pagamento di un debito, senza che per esistessero un termine o un obbligo preciso”, con la conseguenza che la società “fu esposta ad azioni da parte di terzi, cui era evidente che non potesse più far fronte, nel momento in cui il capitale sociale risultava azzerato”, hanno violato i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto sociale, come “l’obbligo di diligenza, correttezza e buona fede nel compiere gli atti di gestione e nel tenere indenne la società da ogni danno” e sono, quindi, responsabili ai sensi dell’art. 2476 c.c..

2.5. La corte, infine, ha esaminato il motivo con il quale l’appello aveva contestato l’attribuzione di responsabilità in capo a G.B., quale amministratore di fatto, sul rilievo che “l’apposizione di una sola firma” non equivalesse a dimostrare il suo “coinvolgimento nell’intera gestione”: e l’ha ritenuto infondato evidenziando che, “in contrario”, “le testimonianze rese in primo grado sono univoche e sono corroborate dalla significativa sottoscrizione dell’atto di vendita dell’unico (e di rilevante valore) bene sociale” e che ulteriori elementi si traggono dalle movimentazioni extra contabili evidenziate dal consulente tecnico d’ufficio, “con particolare riferimento all’assegno bancario di Euro 110.000 a firma G.”.

3.1. P.G. e G.B., con ricorso notificato il 6/5/2017, hanno chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente notificata il 6/4/2017.

3.2. La curatela del fallimento della ***** s.r.l. ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 61,101,191 e 198 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto l’ammissibilità della disposta consulenza tecnica d’ufficio senza, tuttavia, considerare che il consulente, come emerge dai quesiti che gli sono stati posti, è stato chiamato a sindacare fatti e situazione che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda della parte attrice, dovevano essere necessariamente provati dalla stessa, come l’individuazione della natura, della tipologia e dell’autore delle operazioni finanziarie dalle quali sarebbe scaturita la condotta illecita ascrivibile ai convenuti, così come era onere dalla parte attrice provare che dalle predette operazioni, ben individuate, sarebbe sorto il pregiudizio ai danni della società e/o dei creditori sociali.

4.2. Il motivo è infondato. E’ vero che, secondo il consolidato orientamento, affermato anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo essa la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, onde non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume (Cass. n. 3130 del 2011; Cass. n. 30218 del 2017; Cass. n. 10373 del 2019). Peraltro, come ha correttamente ritenuto la corte d’appello, è orientamento altrettanto costante quello secondo cui è consentito derogare al limite del divieto di indagini esplorative, quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo, in tal caso, consentito al consulente tecnico d’ufficio anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (Cass. n. 28669 del 2013, in materia di azioni di responsabilità nei confronti degli organi sociali; Cass. n. 3191 del 2006; Cass. n. 9060 del 2003). La censura in esame, peraltro, non illustra, con la dovuta specificità, se ed in che misura la relazione del consulente tecnico d’ufficio abbia finito per accertare fatti che, alla luce del principio esposto, la parte attrice aveva invece l’onere di provare in giudizio e che, ad onta della conseguente violazione dello stesso, il giudice di merito abbia, poi, in concreto, posto a fondamento della pronuncia di condanna dei convenuti al risarcimento dei danni.

5.1. Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1708 c.c., e art. 2301 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che G.B. aveva rivestito la carica di amministratori di fatto della società omettendo, tuttavia, di considerare che lo stesso, marito di P.G. e socio della società fallita, era stato, come tale, “erogatore di finanziamenti nell’interesse della società”, che gli sono stati poi restituiti, nonché, diversamente da quanto statuito dal giudice d’appello, “avallante nella sottoscrizione del contratto di vendita dell’imbarcazione”. In realtà, hanno osservato i ricorrenti, per poter ritenere amministratore di una società di capitali un soggetto che tale non sia mai stato nominato, è necessaria la prova del suo inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative, e di un’appropriazione delle funzione gestorie con carattere di sistematicità e completezza, non essendo sufficiente il compimento di un’unica operazione distrattiva in un’attività gestoria episodica ed occasionale, com’e’ accaduto nel caso in esame, in cui “l’unico dato certo è l’ingerenza del G. in un unico atto – apposizione della firma sul preliminare di vendita dell’imbarcazione come garante inidoneo… ad attribuire allo stesso la qualifica di amministratore di fatto”.

5.2. Il motivo è infondato. Questa Corte, in effetti, ha ritenuto che, ai fini della corretta individuazione della sussistenza della figura dell’amministratore di fatto, è sufficiente l’accertamento dell’avvenuto inserimento dello stesso nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, anche in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società stessa (Cass. n. 2586 del 2014), purché le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale (Cass. n. 4028 del 2009, in motiv.; Cass. n. 4045 del 2016). Non è sufficiente, quindi, il compimento episodico e frammentario di singoli atti gestori essendo, piuttosto, necessario che le funzioni gestorie effettivamente svolte dall’estraneo si traducano in un’attività, vale a dire nel compimento stabile e sistematico, continuo e protratto per un periodo di tempo rilevante di una pluralità di atti tipici dell’amministratore (cfr. Cass. n. 9795 del 1999; Cass. n. 2906 del 2002; Cass. n. 28819 del 2008; Cass. n. 6719 del 2008; Cass. n. 4028 del 2009; Cass. n. 9619 del 2009; Cass. n. 4045 del 2016; Cass. n. 21730 del 2020). Nel caso di specie, la corte d’appello non si è sottratta all’onere di accertare la sussistenza dei requisiti esposti: lì dove, in particolare, respingendo il motivo di censura con il quale l’appellante aveva contestato l’attribuzione di responsabilità quale amministratore di fatto della società fallita sul rilievo che “l’apposizione di una sola firma” non equivalesse a dimostrare il suo “coinvolgimento nell’intera gestione”, ha ritenuto che, “in contrario”, con apprezzamento in fatto rimasto del tutto incensurato, “le testimonianze rese in primo grado sono univoche”, solo “corroborate dalla significativa sottoscrizione dell’atto di vendita dell’unico (e di rilevante valore) bene sociale” nonché dalle movimentazioni extra contabili evidenziate dal consulente tecnico d’ufficio, “con particolare riferimento all’assegno bancario di Euro 110.000 a firma G.”.

6.1. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che P.G. fosse responsabile per aver proceduto alla vendita dell’imbarcazione, unico bene della società, e di averne destinato una parte (Euro. 400.000,00) in favore di G.B., incurante dell’esistenza di altre pretese creditori in capo a terzi, omettendo, tuttavia, di considerare, innanzitutto, che, quanto alla “presunta diminuzione del capitale sociale”, “il capitale sociale”, nel caso in esame, “era formato dall’unico bene, cioè la imbarcazione”, ed, in secondo luogo, che l’imbarcazione in questione era “sottoposta a contratto di mutuo ipotecario” sicché, se la società non avesse proceduto alla vendita dell’imbarcazione, avrebbe certamente arrecato danni ai creditori perché “avrebbe perso la differenza in termini monetari tra l’importo ancora dovuto alla società che aveva concesso il mutuo e l’importo effettivo della imbarcazione realizzato con la vendita”. La P., pertanto, hanno osservato i ricorrenti, così operando, ha liberato la società dal contratto di mutuo ed ha realizzato un introito che le ha consentito di restituire i finanziamenti resi alla stessa dal socio G., unico creditore, senza arrecare danni ad altri creditori in quanto non esistenti e, se esistenti, non conosciuti “stante la mancata notifica dell’atto introduttivo in sue mani” mentre la sentenza resa in favore di Pe.Ro. ai danni della società è stata emessa solo il 21/2/2006, e cioè dopo la scrittura privata di vendita dell’imbarcazione, stipulata il 18/11/2004. D’altra parte, hanno aggiunto i ricorrenti, la curatela avrebbe dovuto fornire la prova delle operazioni gestorie che, in quanto assunte dopo la perdita del capitale sociale in un’ottica di continuità aziendale non più lecita, avevano cagionato danno alla società, al netto dell’eventuale ricavo.

6.2. Il motivo è inammissibile. I ricorrenti, infatti, non si confrontano con la sentenza che hanno impugnato: la quale, invero, lungi dall’affermare la responsabilità di P.G. per aver proseguito la gestione sociale dopo la perdita del capitale sociale o per aver ceduto a terzi l’unico bene sociale, e cioè l’imbarcazione, ha ritenuto, più semplicemente, con statuizione rimasta del tutto incensurata, che la stessa aveva “scelto di procedere in via preventiva al rimborso dei finanziamenti fatti dai soci, in danno dei creditori sociali…” dei quali era (o avrebbe dovuto essere) a conoscenza (“avendo comunque l’amministratore la possibilità e l’obbligo di conoscere e valutare la situazione creditoria e debitoria della società”, compreso “il potenziale debito della sig.ra Pe., già dipendente e ricorrente, ex art. 414 c.p.c., nei confronti della società, per rivendicazioni salariali e per illegittimo licenziamento”), in tal modo esponendo la società “… ad azioni da parte di terzi, cui era evidente che non potesse più far fronte…”. Ed e’, in effetti, noto come, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il curatore fallimentare è legittimato, in sede civile, all’esercizio di qualsiasi azione di responsabilità sia ammessa contro gli amministratori di società, anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti, come nel caso in esame, in violazione della par condicio creditorum (Cass. SU n. 1641 del 2017): invero, integra il reato di bancarotta preferenziale la restituzione ai soci, effettuata in periodo di insolvenza, dei finanziamenti concessi dai medesimi alla società a titolo di mutuo (Cass. pen. 13318 del 2013).

7.1. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando la “violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha condannato P.G. e G.B. al pagamento della somma di Euro. 163.255,35, pari ai debiti della società accertati dal consulente tecnico d’ufficio, senza, tuttavia, considerare che la curatela, nel corso del giudizio, aveva provveduto a transigere la vertenza con M.A. e L.P., che sono stati gli unici ed esclusivi responsabili del dissesto sociale.

7.2. Il motivo è infondato. La responsabilità degli amministratori di società, infatti, pur se si tratti di chi abbia partecipato in via di mero fatto alla gestione amministrativa e contabile della stessa, ha carattere solidale (art. 2392 e 2476 c.c.) ed, in quanto tale, consente al curatore del fallimento di agire in giudizio nei confronti di ciascuno dei responsabili per l’intero danno arrecato alla società ed ai suoi creditori (L. Fall., art. 146, comma 2) avendo il diverso apporto causale di quanti vi abbiano concorso rilievo giuridico solo nei soli rapporti interni tra coobbligati, ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di regresso, e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell’illecito al danneggiato (società, creditori sociali), giusto il principio generale di solidarietà tra coobbligati di cui all’art. 2055 c.c., comma 1, sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile, altresì, in tema di responsabilità contrattuale, che esclude, quindi, la legittimità di una commisurazione percentuale della responsabilità di ciascuno dei concorrenti all’entità del loro contributo nella causazione dell’evento dannoso.

7. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

8. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

9. La Corte dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e le spese generali nella misura del 15%; dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472