LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21088 del ruolo generale dell’anno 2016 proposto da:
D.V., D.L., D.M., nonché dalla
“società di fatto D.V., M. e L.”, in persona del legale rappresentante, rappresentati e difesi per procura speciale a margine del ricorso dall’Avv. Vincenzo Operamolla, elettivamente domiciliato presso il proprio indirizzo pec vincenzo.operamolla.ordineavvocatitrani.it;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, n. 356/27/2016, depositata in data 15 febbraio 2016;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 ottobre 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari.
RILEVATO
che:
dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate, sul presupposto della esistenza di una società di fatto tra la ditta individuale “Azienda Vinicola Vini del Tavoliere di M.A.” e D.L., D.M. e D.V., aveva notificato a ciascuno di essi, relativamente agli anni di imposta 2005 e 2006, rispettivi avvisi di accertamento per maggior reddito non dichiarato e per reddito di partecipazione; avverso gli atti impositivi il titolare della ditta individuale, la società di fatto ed i soci avevano proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Foggia, mentre era divenuto definitivo per mancanza impugnazione l’avviso di accertamento notificato alla ditta individuale; la società di fatto ed i soci avevano quindi proposto appello;
la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: gli appellanti non avevano contestato la ricostruzione contenuta negli atti impositivi relativamente alla sussistenza del “disegno fraudolento”, né avevano offerto idonee prove contrarie; in particolare, non poteva attribuirsi valore probatorio alle dichiarazioni rese al difensore in quanto quest’ultimo non poteva essere qualificato quale pubblico ufficiale; non poteva, inoltre, assumere rilevanza la stipula dei contratti con il titolare della ditta individuale in quanto verosimilmente precostituiti al fine di giustificare “l’attività simulata”;
avverso la suddetta pronuncia hanno quindi proposto ricorso la società ed i soci, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1), per difetto di giurisdizione in materia di accertamento della esistenza di una società di fatto, nonché per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 2, e dell’art. 2247 c.c., posto che l’accertamento circa l’esistenza di una società di fatto, in quanto coinvolge il profilo relativo allo “status e capacità della stessa”, è estranea alla giurisdizione tributaria;
il motivo è inammissibile;
questa Corte ha più volte precisato che la questione di difetto di giurisdizione è inammissibile in quanto formulata per la prima volta in sede di legittimità, e ciò alla luce del principio secondo cui “le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità” e tenuto conto che “il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione” e “le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la sentenza sotto tale profilo” (Cass. civ., 4 agosto 2017, n. 19498; Cass. Sez. U., 5 ottobre 2016, n. 19912; Cass. Sez. U.” 18 dicembre 2008, n. 2753); con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché per omesso esame delle dichiarazioni testimoniali rese al difensore nel processo penale ai sensi degli artt. 391 bis e ter c.p.p., nonché, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, dell’art. 111 Cost., e dell’art. 6Cedu;
il motivo di ricorso in esame è articolato su diversi profili di censura che attengono ora a vizi di motivazione della sentenza ora a vizi di violazione di legge;
con riferimento al primo profilo, in sostanza, i ricorrenti censurano la sentenza: a) per non avere considerato che dall’attività ispettiva non era emerso alcun riscontro alle mere dichiarazioni di terzi da cui potere evincere la sussistenza di una “società di fatto”; b) per non avere correlato gli indizi prospettati dall’amministrazione finanziaria alle prove contrarie offerte dai ricorrenti, avendo reso una pronuncia insufficiente, omessa e contraddittoria, avendo ritenuto, da un lato, che le dichiarazioni erano state assunte nell’ambito delle indagini difensive nel procedimento penale dal difensore, e, dall’altro, escluso che le stesse fossero state rese ad un pubblico ufficiale;
con riferimento al secondo profilo, si censura la sentenza: al) per avere dato valenza di prova presuntiva alle dichiarazioni rese da terzi (contrarie all’assunto dei ricorrenti) senza che l’amministrazione finanziaria avesse supportato tale elementi indiziari con altri elementi di riscontro; bi) per non avere dato rilevanza di prova presuntiva anche alle dichiarazioni rese da terzi prodotte dai ricorrenti;
i profili di censura che attengono al vizio di motivazione della sentenza sono inammissibili;
va, invero, precisato che gli stessi sono stati proposti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, applicabile al presente giudizio, stante la norma transitoria di cui al comma 3 del predetto art. 54, secondo cui l’intervento normativo “si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione” e, dunque, alle sentenze pubblicate a partire dall’11 settembre 2012;
va quindi ribadito che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U., 28 ottobre 2021, 23746; Cass. Sez. U., 7 aprile 2014 n. 8053);
in sostanza, la modifica normativa ha inteso limitare il giudizio di legittimità ai soli casi in cui il giudice del merito, nell’applicazione della legge, abbia omesso di considerare e di pronuncia su di un fatto (costitutivo, impeditivo, modificativo o estintivo) controverso tra le parti;
in realtà, dall’esame del contenuto della sentenza censurata si evince che la stessa, nel contesto della motivazione, ha precisato che i ricorrenti non avevano “minimamente contestato la ricostruzione operata dalla GdF circa il disegno fraudolento posto in essere in danno dell’erario”: in sostanza, il giudice del gravame ha precisato che, tenuto conto del contenuto dei emotivi di appello, non vi era discussione in ordine alla rilevanza degli elementi probatori sulla cui base si era ritenuta la sussistenza della “società di fatto”, posto che gli stessi si erano incentrati ora sulla necessità dell’inclusione anche di M.A., titolare della ditta individuale, nell’ambito della società di fatto, ora sulla valenza della prova contraria offerta dai ricorrenti;
la circostanza, peraltro, che le dichiarazioni dei terzi erano state rese in favore del difensore nell’ambito dell’attività difensiva penale non emerge in alcun modo dalla sentenza censurata, la quale dà solo atto della circostanza che le stesse erano state “raccolte dall’avvocato dei sigg. D.”;
non può, dunque, ragionarsi in termini di vizi della motivazione nei limiti riconducibili all’ambito della previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);
con riferimento, invece, ai profili di censura che riguardano la violazione di legge, gli stessi sono fondati, nei limiti appresso precisata;
in primo luogo, va precisato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario, le dichiarazioni rese da terzi, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, ben possono essere utilizzate quali elementi indiziari e non violano il divieto di prova per testi, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, non potendosi negare il loro valore indiziario e ben potendo esse costituire fonti di prova presuntiva, sì da concorrere legittimamente alla formazione del convincimento del giudice, pur se non rese in contraddittorio con la parte ricorrente e senza neppure la necessità che l’ufficio espleti ulteriori indagini (Cass. civ., 20 maggio 2020, n. 9316);
d’altro lato, si è altresì precisato che nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 non osta alla produzione sia da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio (Cass. civ., 11 maggio 2021, n. 12403);
la sentenza censurata, dunque, non si è attenuta ai seguenti principi, per avere escluso, già in astratto, la valenza di prova presuntiva delle dichiarazioni rese da terzi e prodotte dalle parti al fine di contrastare la valenza di prova presuntiva degli elementi indiziari prospettati dall’amministrazione finanziaria a fondamento della pretesa fatta valere nei confronti dei ricorrenti, sicché, sotto tale profilo, la stessa è incorsa nel vizio di violazione di legge;
con il terzo motivo di ricorso, le cui ragioni di fondo sono state sostanzialmente riaffermate con la memoria, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 2247 c.c., per non avere accertato l’esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociali ai fini dell’accertamento della società di fatto, posto che gli elementi indiziari dedotti dall’amministrazione finanziaria non erano idonei a provare l’esistenza dei rapporti interni del vincolo societario; le considerazioni espresse con riferimento al secondo motivo di ricorso hanno valore assorbente del presente motivo; in conclusione, è infondato il primo motivo, è fondato, nei limiti precisati, il secondo motivo, assorbito il terzo, con conseguente cassazione della sentenza per il motivo accolto e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie, nei limiti precisati in motivazione, il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo e assorbito il terzo, cassa la sentenza censurata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022