Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.1569 del 19/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24435-2020 proposto da:

R.P., C.L., rappresentati e difesi dagli avvocati TOMMASO GALLO, RAFFAELE SANTORO;

– ricorrenti –

CA.LO., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LAURO, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO SAVERIO ESPOSITO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

D.L.G.F., quale erede di D.L.A., elettivamente domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Abate Emilia;

– controricorrente –

D.L.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 598/2020 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 11/06/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/07/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con atto di citazione del ***** D.L.A. esponeva di essere proprietaria di un appezzamento di terreno sito in *****, riportato nel N.C.T. al foglio *****, particella *****; di avere appreso che i coniugi D.L.R. e Ca.Lo., con atto di vendita del *****, avevano alienato il suddetto appezzamento agli acquirenti R.P. e S.M.; che in tale atto gli alienanti avevano affermato di aver acquistato la proprietà del bene venduto, in parti uguali ed indivise, per usucapione, a seguito di possesso ultraventennale; che i coniugi alienanti non avevano mai avuto il possesso del bene.

Tanto premesso con la citazione a comparire dinanzi al Tribunale di Salerno D.L.A. chiamava in giudizio D.L.R., Ca.Lo., R.P. e S.M.. L’attrice chiedeva di accertare il proprio diritto sull’appezzamento sopra descritto, con la condanna dei convenuti al rilascio e al risarcimento del danno.

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale rigettava la domanda. Secondo il primo giudice D.L.A. non aveva assolto all’onere probatorio imposto all’attore che agisce in rivendicazione.

La Corte d’appello di Salerno, adita dalla D.L., riformava la sentenza.

Essa riconosceva in primo luogo l’applicabilità, nel giudizio d’appello, dell’art. 164 c.p.c., comma 2. In ragione di ciò il vizio incorso nella vocatio in ius nei confronti di R.P. doveva ritenersi sanato con effetto ex tunc a seguito della rinnovazione della notifica.

Nel merito la Corte di merito osservava che l’attrice aveva acquistato il terreno a seguito di divisione del 1957 intercorsa fra i germani D.L., fra i quali era compreso D.L.L., padre di D.L.R.. Ciò posto la Corte riconosceva che il rapporto di D.L.R. con il bene derivava dal titolo del proprio genitore, rispetto al quale nessuno dei convenuti poteva ritenersi terzo. Non era tale la Ca., coniuge di D.L.R., la quale non aveva neanche allegato di avere instaurato il rapporto con il bene in forza di un titolo diverso rispetto a quello del coniuge. Non lo erano S.M. e R.P., i quali, avendo acquisto da alienanti che si erano dichiarati proprietari per usucapione non giudizialmente accertata, avevano implicitamente accettato il rischio di un acquisto a non domino, qualora il proprietario si fosse fatto avanti per rivendicate il bene.

Per la cassazione della sentenza R.P. e C.L., quest’ultimo quale unico erede di S.M., hanno proposto ricorso affidato a due motivi. Con il primo motivo si censura la sentenza nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che la rinnovazione della citazione in appello avesse raggiunto il proprio scopo in dipendenza della costituzione della parte. Si rimprovera alla Corte d’appello di non avere considerato che la rinnovazione della notificazione era stata eseguita presso il procuratore costituito, pur essendo decorso oltre un anno dalla pubblicazione della sentenza: quindi il termine assegnato per la rinnovazione non era stato nei fatti rispettato, conseguendone perciò l’inapplicabilità della sanatoria. Con il secondo motivo si censura la decisione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la Corte d’appello ha riconosciuto la efficacia del titolo di proprietà del bene in capo all’attrice, costituito dalla divisione, non solo nei confronti di D.L.R., avente causa di uno dei condividenti, ma anche del coniuge di lui Ca.Lo., la cui posizione era invece del tutto indipendente. Si rileva ancora che l’attrice non avrebbe potuto affermarsi proprietaria per usucapione. Dagli atti, infatti, risultava l’acquisto del possesso, ma non la sua protrazione per il tempo occorrente per l’acquisto del diritto.

Ca.Lo. ha depositato controricorso, con il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Ha depositato controricorso anche D.L.G.F., quale unico erede di D.L.A..

D.L.R. resta intimato.

La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore di manifesta infondatezza del ricorso.

I ricorrenti e Ca.Lo. hanno depositato memorie.

Deve in via preliminare essere dichiarata l’inammissibilità del controricorso di Ca.Lo., con il quale questa, soccombente nel giudizio d’appello, ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale. Il controricorso è stato notificato il 30 ottobre 2020, decorsi oltre sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, eseguita il 19 giugno 2020. “Qualora un atto, anche se denominato controricorso, non contesti il ricorso principale ma aderisca ad esso, deve qualificarsi come ricorso incidentale di tipo adesivo, con conseguente inapplicabilità dell’art. 334 c.p.c., in tema di impugnazione incidentale tardiva” (Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 25505 del 2009).

Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile. Per effetto della disciplina di cui all’art. 164 c.p.c., comma 2, applicabile anche in appello ai sensi dell’art. 359 c.p.c., i vizi relativi alla votatio in ius sono sanati con effetto ex tunc (Cass. n. 23667 del 2018). Nel caso in esame è avvenuto che la prima notificazione dell’atto di appello nei confronti del R., eseguita presso il procuratore costituito, non andò a buon fine per irreperibilità del destinatario. La Corte d’appello ne ha quindi ordinato la rinnovazione e a seguito della rinnovazione il R. si è costituito nel giudizio d’appello. Il ricorrente, con il motivo in esame, intende accreditare la tesi che i principi sulla rinnovazione e sulla sanatoria della nullità della notificazione non sarebbero applicabili nel caso di specie. Si sostiene che, essendo decorso l’anno dalla pubblicazione della sentenza, la rinnovazione doveva essere eseguita mediante notificazione alla parte personalmente, mentre essa era stata eseguita presso il procuratore costituito. Secondo il ricorrente, con riferimento alla rinnovazione, non si poneva tanto un problema di validità, ma di rispetto del termine perentorio accordato dal giudice per la stessa rinnovazione. Insomma, sembra volersi sostenere che, ai fini del rispetto di quel termine, occorreva che la notificazione fosse stata ritualmente eseguita presso il procuratore costituito, conseguendone quindi la possibilità del destinatario della notificazione di costituirsi al solo scopo di rilevarne la nullità.

La tesi non trova conferma nella giurisprudenza della Corte, che ha riconosciuto il diverso principio secondo cui “nei giudizi di impugnazione, la notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio in cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 c.p.c., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, deve essere effettuata alla parte personalmente e non già al procuratore costituito davanti al giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Tuttavia, la notificazione fatta al procuratore, integrando una mera violazione della prescrizione in tema di forma, e non già l’impossibilità di riconoscere nell’atto la rispondenza al modello legale della sua categoria, dà luogo a una nullità sanabile, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., con conseguente operatività dei rimedi della rinnovazione (arti. 162, 291 c.p.c.) o della sanatoria (art. 156 c.p.c., comma 3, e artt. 157 e 164 c.p.c.) (Cass. n. 22341 del 2017).

Del resto, in termini generali, questa Corte ha chiarito che “Il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto, sicché i vizi relativi alla sua individuazione, anche quando esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto, come tale sanabile, con efficacia ex lune, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata (anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c. (Cass. S.U., n. 14916 del 2016. La sanatoria per effetto della costituzione in giudizio dell’intimato si verifica ancorché sia effettuata al solo fine di eccepire la nullità (Cass. n. 7703 del 2018).

E’ inammissibile anche il secondo motivo. La Corte d’appello ha riconosciuto raggiunta la prova della proprietà di D.L.A. in forza dell’atto di divisione a suo tempo intercorso, fra gli altri, fra la stessa D.L.A. e D.L.L. dante causa di D.L.R.. Quando la Corte di merito menziona l’usucapione, essa non si riferisce alla D.L.A., ch’e’ riconosciuta proprietaria in forza del titolo costituito dal negozio divisorio. L’usucapione è considerata dalla sentenza solo perché oggetto dell’eccezione di S.R. (nella corretta prospettiva, rimasta sulla carta, dell’attenuazione eventuale dell’onere probatorio a carico dell’attrice in rivendica). In questo senso la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui “l’atto di divisione, mentre non è idoneo a fornire la prova della titolarità del bene nei confronti dei terzi, assume rilevanza probatoria nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, giacché la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione di beni indivisi, postula necessariamente il riconoscimento dell’appartenenza delle cose in comunione (Cass. n. 4730 del 2015; Cass. n. 15504 del 2018; Cass. n. 10067 del 2020).

La corte di merito ha riconosciuto che il titolo, costituito dalla divisione del 1957, era rilevante anche nei confronti della Ca., la quale, pur non essendo stata partecipe dell’atto di divisione, non aveva allegato né provato “di avere acquisito il rapporto col bene a titolo diverso rispetto alla provenienza dalla massa ereditaria, di cui alla divisione del 1957”. Tale affermazione è giuridicamente corretta. Infatti, una volta riconosciuto che il potere di fatto sulla cosa da parte della Ca. aveva la sua genesi nel rapporto con il coniuge, la misura dell’onere della prova imposta nel caso in esame all’attore in rivendicazione si commisurava sulla posizione del solo D.L.R.. Con la memoria il ricorrente ricorda che il convenuto con l’azione di rivendicazione può trincerarsi dietro il possideo quia possideo e non è gravato da alcun onere probatorio. Il richiamo di tale principio, tuttavia, non gli giova e non gli giova proprio perché, secondo la ricostruzione in fatto operata dalla Corte d’appello, il potere di fatto della Ca. aveva la sua iniziale nel rapporto con il D.L.. Ella, quindi, non poteva disconoscere che il coniuge aveva il possesso della cosa in forza di un titolo che importava l’iniziale riconoscimento della proprietà comune con D.L.A.. Del resto è principio acquisito nella giurisprudenza della Corte che, anche in caso di azione di rivendica, la intensità e la estensione della prova a carico dell’attore devono stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia, cosicché il criterio di massima secondo cui l’attore deve fornire la prova rigorosa della proprietà sua e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per la usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto (Cass. n 305 del 1964; Cass. n. 1873 del 1985; Cass. n. 6592 del 1986; Cass. n. 8394 del 1990).

E’ stato anticipato che i rilievi sull’acquisto per usucapione, operati con il motivo, non colgono la ratio decidendi, che si esaurisce nella riconosciuta idoneità della divisione rispetto alla prova della proprietà nei confronti dei condividenti e loro aventi causa.

In conclusione, il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese di lite sono a carico dei ricorrenti principali e della ricorrente incidentale.

Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali e della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

PQM

dichiara inammissibili il ricorso principale e il ricorso incidentale; condanna i ricorrenti principali e la ricorrente incidentale Ca.Lo. al pagamento, in favore del controricorrente D.L.G.F., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022

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