LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11894-2016 proposto da:
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– ricorrente –
contro
P.G.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 230/2015 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 03/12/2015 R.G.N. 34/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE.
RILEVATO IN FATTO
che:
con sentenza n. 230 del 2015, la Corte d’appello di Campobasso ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva accolto il ricorso con il quale P.G.A. – premesso di avere beneficiato, a seguito del sisma che ha colpito il Molise nel 2002, della sospensione dei versamenti contributivi di previdenza e assistenza sociale di cui all’OPCM 29 novembre 2002, n. 3253 e successive proroghe – avevano lamentato che, contrariamente a quanto stabilito nella succitata ordinanza a proposito della restituzione rateizzata dei contributi relativi al periodo oggetto di sospensione, il Ministero dell’economia aveva comunicato l’avvio del procedimento di recupero erariale ed operato in busta paga il recupero della contribuzione sospesa con trattenute sensibilmente maggiori di quelle inizialmente disposte;
a fondamento della decisione, la Corte territoriale ha sostenuto che sussisteva la legittimazione passiva del MEF, in quanto rappresentante di parte datoriale che aveva proceduto alla rideterminazione delle modalità di restituzione oggetto di controversia; inoltre, che la norma di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 263 del 1996, art. 6, comma 1 bis convertito in L. 16 dicembre 2006, n. 290, concerneva esclusivamente l’individuazione dei soggetti contemplati dalla normativa emergenziale adottabile in materia di protezione civile ai fini del temporaneo esonero dal versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi (tra cui era dunque pacifico non rientrassero mai i lavoratori dipendenti e neppure i datori di lavoro pubblici) e non aveva, invece, riguardato le modalità di restituzione dei contributi comunque non versati;
in siffatta situazione non poteva trovare applicazione la normativa richiamata dall’appellante Ministero a giustificazione dei nuovi criteri unilateralmente imposti quanto a modalità di restituzione dei contributi (divenuti) indebitamente sospesi (criteri dedotti dal D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 3 bis conv. in L. 8 agosto 2002, n. 178 e la L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 116, comma 17) perché non era ad essa pertinente essendo destinata a regolare il solo, distinto, nonché esclusivo, rapporto tra ente previdenziale e datore di lavoro;
pertanto, in mancanza di specifiche norme regolatrici del caso concreto, e, comunque, anche a non volere, in ipotesi, ritenere più operativa l’O.P.C.M. n. 3253 del 2002 quanto all’art. 7, comma 2 (non interessato dalla norma di interpretazione autentica di cui alla L. n. 290 del 2006, art. 6, comma 1 bis), la questione in disamina doveva essere riguardata e decisa alla luce del principio del legittimo affidamento del soggetto obbligato, da un lato, e della insuperabilità di limiti quantitativi valevoli ad assicurare il rispetto delle esigenze di vita del lavoratore dall’altro lato; che essendo, quindi, incontestato che gli appellati avevano goduto del beneficio della sospensione in perfetta buona fede, e stante il sensibile il divario che si sarebbe determinato dalla riduzione fino ad un massimo di 60 rate rispetto alla originaria previsione di restituzione “con un numero di rate pari a otto volte il numero delle mensilità sospese”, (circa trenta mensilità nelle fattispecie dedotte in causa), ovvero in una misura per il recupero che lo stesso Governo aveva giudicato compatibile con il regime medio di vita dei lavoratori dipendenti, l’operato del MEF era stato lesivo anche sotto quest’ultimo profilo teste’ rappresentato; ad ogni buon conto, il MEF aveva ingenerato l’affidamento dei dipendenti operando per circa un anno trattenute in misura ridotta dopo essersi determinato al recupero dei contributi a distanza di oltre tre anni dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2008 in merito alla giustificata esclusione dal beneficio per i soggetti pubblici; che, infine, la stessa determina del 2013 con la quale il Ministero appellante, in autotutela, aveva ripristinato l’originaria rateizzazione, senza perciò ritenere cessata la materia del contendere, era la ulteriore dimostrazione, alla luce della motivazione in essa contenuta, del fatto che l’amministrazione aveva sostanzialmente accettato i vari pronunciamenti dei giudici di merito di condanna al ripristino della precedente rateizzazione;
per la cassazione della sentenza il Ministero dell’economia e delle finanze ha proposto ricorso, affidato a cinque motivi;
P.G.A. è rimasto intimato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
come primo motivo di ricorso il Ministero dell’economia deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 18 del 1952, art. 19 e ribadisce il proprio difetto di legittimazione passiva, attesa la sua funzione di mero erogatore del trattamento economico ai dipendenti degli altri ministeri e non di parte datoriale;
come secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’OPCM n. 3253 del 2002, art. 7 e dal D.L. n. 138 del 2002, art. 3, comma 3 bis conv. in L. n. 178 del 2002;
come terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1183 e 2033 c.c. e falsa applicazione del principio del legittimo affidamento;
come quarto motivo deduce l’omessa pronuncia sulla specifica eccezione proposta in secondo grado di violazione dell’art. 115 c.p.c. e sul principio di non contestazione;
come quinto motivo sostiene che la Corte abbia prospettato l’onere dell’amministrazione di procedere al recupero con modalità tali da non incidere sulle esigenze di vita dei dipendenti, senza tuttavia esaminarne in concreto la complessiva situazione patrimoniale;
le questioni poste dai detti motivi sono state affrontate da questa Corte con l’ordinanza n. 16299 del 2019 a cui va data continuità;
il primo motivo non è fondato, essendo il Ministero dell’Economia e delle Finanze legittimato passivo quale soggetto che ha operato la rateizzazione dell’importo dovuto dai dipendenti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca a titolo di restituzione dei contributi non versati nel periodo in questione per il tramite delle sue articolazioni costituite dal DAG (Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi del Tesoro), e dalla “Ragioneria Generale” nei suoi uffici territoriali, ai quali spettano la gestione degli stipendi dei vari ministeri e delle entrate. Del resto, nella presente fattispecie in cui si discute delle modalità di restituzione delle somme che i dipendenti pubblici non hanno versato a titolo di contributi non viene in rilievo il disposto della L. n. 218 del 1952, art. 19 (secondo cui “Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce.”) che, invece ha inteso individuare il soggetto responsabile per il versamento dei contributi da parte del lavoratore operando le relative trattenute sulla retribuzione corrisposta. Peraltro, non può non rilevarsi, come la legittimazione passiva del Ministero ricorrente risulti essere confermata dalla nota del marzo 2013 della Ragioneria Territoriale dello Stato di Campobasso relativa alla comunicazione della Det. Direttoriale 27 marzo 2013, n. 5654 con la quale, in regime di autotutela, aveva ripristinato la più favorevole rateizzazione prevista dall’O.P.C.M. n. 3253 del 2002, art. 7, comma 2;
Sono infondati anche il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi. Vale ricordare come questa Corte ha affermato che l’O.P.C.M. n. 3253 del 2002, art. 7, comma 1, – che prevede la sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali per i soggetti residenti nelle zone colpite dagli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 – va interpretato alla stregua del disposto del D.L. n. 263 del 2006, art. 6, comma 1-bis, citato e, pertanto, è riferibile soltanto ai datori di lavoro privati, essendo il beneficio in esso contemplato finalizzato alla liberazione di risorse economiche da destinare al sostegno delle attività imprenditoriali (finanziando l’impresa con operazione rispetto alla quale il lavoratore resta neutro) e non anche all’incremento delle retribuzioni dei lavoratori. E’ stato altresì chiarito che il predetto D.L. n. 263 del 2006, art. 6, comma 1-bis, essendo norma propriamente di interpretazione autentica (ritenuta costituzionalmente legittima da Corte Cost. n. 325 del 2008) secondo quanto esplicitato anche dal dato testuale oltre che dalla sua ratio, come tale, ha efficacia retroattiva e si applica anche alle ordinanze ex D.L. 4 novembre 2002, n. 245 conv. con modif. in L. 27 dicembre 2002, n. 286, riguardando in generale il potere di emanazione di provvedimenti contingibili ed urgenti. Ne deriva che il datore di lavoro pubblico ha legittimamente operato le trattenute dovendo corrispondere da subito i contributi previdenziali ed i premi, ed anche per la quota a carico del lavoratore, non operando la sospensione dell’obbligo nei confronti dei datori pubblici secondo quanto fin qui detto (Cass. n. 2277 del 06/02/2015; Cass. n. 8442 dell’8 aprile 2014; Cass. n. 8646 del 30 maggio 2012; Cass. n. 4963 del 28 marzo 2012, n. 4963 nonché nn. 4669, 4673, 10243,13159, 28500 del 2011);
l’applicabilità della OPCM n. 3253 del 2002, art. 7, coma 1 solo ai datori di privati non comporta tuttavia che il comma 2 di detto articolo (secondo cui “La riscossione dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi dovuti per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali non corrisposti per effetto della sospensione di cui al comma 1 avverrà mediante rate mensili pari a otto volte i mesi interi di durata della sospensione. Gli adempimenti non eseguiti per effetto della sospensione di cui al comma 1 sono effettuati entro il secondo mese successivo al termine della sospensione, mentre le rate di contributi sono versate a partire dal terzo mese successivo alla sospensione stessa”) non possa trovare applicazione anche nelle ipotesi – quale quella all’esame – in cui l’indebita sospensione del versamento dei contributi sia avvenuta per un’erronea scelta dell’Amministrazione, favorita dall’equivocità del testo normativo che ha reso necessaria l’adozione di una disposizione interpretativa. Del resto è circostanza pacifica tra le parti che il Ministero ricorrente aveva inizialmente applicato – pur non essendo a ciò obbligato alla luce di quanto sopra esposto – le modalità di rateizzazione previste dal menzionato O.P.C.M. n. 3253 del 2002, art. 7, comma 2. Peraltro, è opportuno qui ricordare che la giurisprudenza amministrativa, formatasi sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato, ha avuto modo di affermare che il recupero ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 c.c. di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate, mentre le situazioni di affidamento e di buona fede dei percipienti rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. 3, 9 giugno 2014, n. 2903);
anche la giurisprudenza di diverso orientamento (Consiglio di Stato, 6 sezione, sentenza n. 5315 del 2014, Cons. St., 5 sezione, 13 aprile 2012, n. 2118) ha rilevato che i suddetti principi giurisprudenziali, pur apparendo condivisibili in linea astratta, non possono essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendosi aver riguardo alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell’errore che aveva portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell’entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità;
dal rigetto del secondo e del terzo motivo discende l’inammissibilità del quarto e del quinto motivo alla luce del principio più volte affermato da questa Corte per il quale nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano sicché è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass. Sez. U, n. 16602 del 08/08/2005; successive conformi, ex multis: Cass. n. 21431 del 12/10/2007; Cass. Sez. U, n. 10374 del 08/05/2007); ed infatti, entrambi i motivi censurano la seconda ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata;
il ricorso va pertanto rigettato;
non si provvede in ordine alle spese nei riguardi dell’intimato che non ha svolto alcuna attività difensiva;
non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che le stesse, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 1778/2016).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2022
Codice Civile > Articolo 1183 - Tempo dell'adempimento | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2021 - Legittimazione del possessore | Codice Civile
Codice Civile > Articolo 2033 - Indebito oggettivo | Codice Civile
Codice Procedura Civile > Articolo 115 - Disponibilita' delle prove | Codice Procedura Civile