Il prestatore del servizio di hosting è responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni ai sensi del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, quando: a) egli "sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita" e per quanto attiene ad azioni risarcitorie "sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione"; oppure b) egli non "agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso" appena "a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti.
Cassazione, Sezione I Civile, ordinanza 8 giugno 2022, n. 18430
Presidente Genovese – Relatore Nazzicone
Fatti di causa
Viene proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Milano del 24 gennaio 2020, la quale, decidendo sulle domande proposte da P.A. contro ***** s.r.l. e ***** LLC, ha dichiarato il difetto di legittimazione passiva della prima ed ha disposto che la seconda "provveda alla deindicizzazione delle URL meglio elencate in motivazione rispetto alla ricerca con le chiavi contenenti il nominativo del ricorrente "P.A. " ed alla cancellazione delle tracce digitali di tale ricerca", altresì condannandola al risarcimento del danno morale nella misura di Euro 25.000,00.
Per quanto ancora rileva, ha ritenuto - in punto di fatto - che risulta la diffusione, ad opera di un collega di lavoro del P. mediante il suo sito web, dell'accusa di essere questi parente di un appartenente ad associazione di tipo mafioso ed autore di reati, notizia ampiamente propalata attraverso la rete internet; detto collega, peraltro, su denunzia del P. , era stato rinviato a giudizio e condannato per diffamazione dal Tribunale di Lecco, con sentenza del 2017, divenuta definitiva; la richiesta di deindicizzazione inviata dal P. a ***** LLC è rimasta senza esito, perdurando ancora l'illecito comportamento. Ha precisato che ***** LLC è un internet service provider (ISP), il quale offre i servizi di un motore di ricerca, indicizzando i testi in rete, in tal modo offerti agli utenti in maniera organizzata ed aggregata, ed opera come intermediario tipico dell'informazione in internet; nel contempo, essa è una "banca dati", gestendo un catalogo delle migliori pagine selezionate dal web ed organizzando informazioni.
In punto di diritto, ha ritenuto inapplicabile il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, concernente soltanto la memorizzazione di informazioni commerciali fornite da altri, dovendo la responsabilità di ***** LLC ricondursi alla clausola generale dell'art. 2043 c.c., senza che si possa limitarne la responsabilità quale hosting provider, dal momento che essa abbina soggetti e siti secondo una propria scelta, rendendo disponibili informazioni aggregate, con un valore aggiunto autonomo rispetto a quello offerto dai siti sorgente, tanto che resta irrilevante l'assenza di intenzionalità lesiva.
Ritenuto necessario operare un bilanciamento tra gli interessi alla libertà economica ed alla manifestazione del pensiero, da un lato, ed i diritti al trattamento dei propri dati personali, all'identità personale ed onore e reputazione, dall'altro lato, ha concluso che, trattandosi di una notizia lesiva accertata come falsa dall'autorità giudiziaria penale, sussiste l'illiceità del trattamento, almeno a decorrere dalla diffida alla sua cessazione, con l'allegazione della sentenza penale predetta, rivolta dall'interessato a ***** LLC nel mese di ***** , momento dal quale questa non poteva più ritenersi ignara della violazione.
Donde il diritto dell'istante alla deindicizzazione degli URL "come infine precisate dalla difesa di parte ricorrente... nelle note depositate il 16/4/2019": di detti URL il tribunale ha ritenuto da deindicizzare, disattendendo le relative eccezioni, anche quelle riferibili ai siti gestiti da altri motori di ricerca, in quanto ***** LLC mette a disposizione degli utenti i riferimenti necessari per identificali; nonché gli URL concernenti il dato della condanna per diffamazione pronunciata dal Tribunale di Lecco nei confronti dell'originario autore delle notizie lesive, perché idoneo comunque a rievocare la vicenda.
Infine, ha condannato la responsabile al solo risarcimento del danno morale, per le sofferenze patite dalla vittima in ragione della perdurante diffusione dei dati negativi, liquidato in via equitativa nella somma di Euro 25.000,00, tenuto conto della diffida dell'interessato dopo sei anni dalla iniziale immissione in rete delle notizie diffamatorie, della risposta inizialmente data dalla società con il suo rifiuto e del tipo di lesione lamentata.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dalla soccombente, sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso l'intimato.
La ricorrente ha depositato la memoria di cui all'art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. - Con il primo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 132 e 156 c.p.c., per avere il tribunale omesso completamente di definire il contenuto della misura inibitoria: infatti, nè dal testo della motivazione, nè dal dispositivo è dato di individuare quali URL debbano essere deindicizzate, avendo la società eccepito che in gran parte esse non sono più presenti sulla rete, non sono indicizzate per il nome del P. , non lo associano ad esponenti della criminalità organizzata o non lo menzionano affatto.
Con il secondo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 41 Cost., artt. 13, 14 e 15 direttiva 2000/31/CE, D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, artt. 15,16 e 17, in quanto il tribunale ha confuso le figure dell'hosting provider e del caching provider, quest'ultimo essendo il ruolo della ricorrente, che si limita ad aggregare mediante il software denominato crawler o spider le informazioni pubblicate da terzi, offrendole mediante un ordine, o ranking, proposto da un algoritmo e non si occupa dei contenuti; nonché disapplicato il regime speciale di responsabilità previsto per il caching dagli artt. 15 e 17 del citato D.Lgs., introducendo in sua vece una responsabilità oggettiva, pur richiamando l'art. 2043 c.c., in quanto ha interamente disapplicato la direttiva ed il decreto di recepimento, reputati delimitati alla materia delle "informazioni commerciali fornite da altri".
Con il terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 12, lett. b), art. 14, comma 1, lett. a), direttiva 95/46/CE, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 7 comma 3, lett. b), e comma 4, lett. a), nonché art. 17 Reg. 2016/679, per avere il tribunale omesso di delimitare il c.d. diritto all'oblio in rapporto alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 70 del 2003, senza nessun bilanciamento tra tale diritto e l'interesse pubblico alla reperibilità della notizia, considerando che non tutti gli URL facevano riferimento alla vicenda giudiziaria all'esame. Il diritto all'oblio non è sovrapponibile al diritto all'onore e alla reputazione, nè a quello alla riservatezza: esso prevale, quando la notizia non sia più attuale, elemento questo costitutivo e centrale, dunque, della tutela, dovendo perciò accertarsi se permanga un interesse pubblico alla notizia.
Con il quarto motivo, si deduce l'omesso esame di fatto decisivo, in quanto il tribunale non ha svolto nessun esame sui contenuti dei 129 URL contestati, non avendoli neppure indicati in motivazione, mentre con riguardo a ciascuno di essi avrebbe dovuto essere svolto il predetto bilanciamento con l'interesse pubblico alla conoscenza dei dati. Invece, ***** LLC aveva puntualmente contestato come la maggior parte degli URL non sono più presenti sulla rete e non conducono a nessuna informazione, risultando le pagine di destinazione vuote, non sono indicizzate per il nome del P. o riguardano contenuti certamente leciti, non associandolo affatto agli esponenti della criminalità organizzata, oppure si occupano della vicenda decisa dal Tribunale di Lecco, ma senza nominarlo.
Con il quinto motivo, la ricorrente si duole della violazione degli artt. 2043 e 2050 c.c., avendo il tribunale condannato la società al risarcimento del danno, in assenza della prova del medesimo e del nesso causale, con motivazione apparente sul quantum liquidato.
2. - Va disattesa l'eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal controricorrente, per non avere ***** LLC notificato il ricorso per cassazione anche a ***** s.r.l.
Con riguardo alla medesima, invero, il tribunale ha pronunciato sentenza definitiva di carenza di legittimazione passiva. Non avendo le parti del giudizio di appello inteso impugnare sul punto, quella statuizione è ormai passata in giudicato, senza che possa lamentarsi nessun difetto di parti necessarie (nè sostanziali, nè processuali) nell'odierno giudizio di legittimità.
3. - Il Tribunale, nella decisione impugnata, da un lato, ha ritenuto inapplicabile il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, reputato riferibile solo alla memorizzazione di informazioni commerciali fornite da altri, ed applicabile la clausola generale dell'art. 2043 c.c., e, dall'altro lato, ha valutato la condotta omissiva tenuta dalla società come illecita, ricostruita questa come inerzia ed, anzi, rifiuto ad attivarsi, pur a fronte della diffida inviatale dal P. , contenente la copia della sentenza penale di condanna per diffamazione avverso l'autore originario della notizia, riconosciuta falsa (o non dimostrata).
In tal modo, la sentenza impugnata ha ritenuto l'illiceità del trattamento a decorrere dalla predetta diffida, in quanto, da tale momento, la società non può più ritenersi ignara della violazione.
4. - Ciò posto, il primo motivo - afferente la sola pronuncia di inibitoria emessa dal tribunale - è infondato.
4.1. - Come sopra esposto, il Tribunale di Milano con la sentenza impugnata ha:
i) in motivazione, affermato il diritto dell'istante alla deindicizzazione degli URL (uniform resource locator), quale sequenza di caratteri identificativa dell'indirizzo cercato, indicati "come infine precisate dalla difesa di parte ricorrente... nelle note depositate il 16/4/2019";
ii) in dispositivo, così stabilito: "dispone che ***** LLC provveda alla deindicizzazione delle URL meglio elencate in motivazione".
In tal modo, l'unica modalità di individuazione degli URL da deindicizzare è quella di reperirle nelle "note depositate il 16/4/2019".
Si tratta di documento facente parte del medesimo processo, certamente a conoscenza delle parti, non avendo invero la ricorrente neppure mai dedotto il contrario.
Di dette note è parola più volte nella sentenza impugnata, nonché negli scritti delle parti, che confermano così di poterle con esattezza identificare.
4.2. - Tale situazione comporta l'applicazione del principio di diritto - che si lega al tema della motivazione esistente e non meramente apparente - secondo cui il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell'art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, non si esaurisce nel documento giudiziario in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, in quanto è consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, purché le relative questioni siano state trattate nel corso dello stesso e possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata, piuttosto, la concreta estrinsecazione della soluzione come operata nel dispositivo o perfino nel tenore stesso del titolo (cfr.: Cass. 30 marzo 2022, n. 10230; Cass., sez. un., 21 febbraio 2022, n. 5633; Cass. 26 novembre 2020, n. 26935; Cass. 5 giugno 2020, n. 10806; Cass. 25 febbraio 2020, n. 5049; Cass., 23 maggio 2019, n. 14154; 5 giugno 2018, n. 14356; Cass. 21 dicembre 2016, n. 26567; 2 dicembre 2016, n. 24635; Cass. 1 ottobre 2015, n. 19641; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23159; Cass. 16 aprile 2013, n. 9161; Cass. 17 gennaio 2013, n. 1027).
Come è noto, nella giurisprudenza di legittimità era consolidato, almeno fino al 2012, il rigoroso orientamento secondo cui il titolo esecutivo deve, per la sua tendenziale autosufficienza, contenere la più puntuale possibile indicazione del diritto suscettibile di esecuzione, con i suoi elementi identificativi e quindi con l'oggetto o la prestazione analiticamente indicati, il creditore ed il debitore, solo in tal modo sussistendo il requisito della certezza.
Dunque, si affermava potersi integrare il comando contenuto nel titolo esclusivamente con elementi desumibili dal titolo stesso: in sostanza, si era ritenuto che il titolo esecutivo dovesse essere determinato e delimitato, sicché ne era consentita l'integrazione con espressi richiami a dati ed elementi desumibili dallo stesso e non da elementi esterni, sebbene presenti nel processo (cfr. Cass. 21 novembre 2006, n. 24649).
Sicché si era ritenuta consentita al giudice dell'esecuzione, se correttamente e congruamente motivata, una sorta di integrazione del titolo con quegli elementi comunque da esso ricavabili, purché però non trasmodasse nella risoluzione di profili lasciati controversi nel titolo o che il titolo non avesse in alcun modo considerato o che investissero la sussistenza del diritto del creditore.
Tuttavia, la questione dei concreti limiti di integrabilità del titolo è stata sottoposta a sensibile rivisitazione critica dalle Sezioni unite (Cass., sez. un., 2 luglio 2012, n. 11066): le quali, col dettare il principio sopra delineato, hanno espresso la tendenza a valorizzare ogni elemento sul quale l'attività giurisdizionale si è in effetti estrinsecata, sebbene il relativo risultato non sia stato espresso in modo puntuale.
4.3. - Ora, se è vero che è bene tener conto dell'attività processuale comunque svolta, in quanto per sua natura costituente una risorsa limitata, onde il fine di non vanificarla con pronunce rigoristicamente formali di ineseguibilità del titolo per indeterminabilità, occorre pur rilevare che un piccolo impegno motivazionale aggiuntivo permette agevolmente al giudice di redigere una motivazione completa, che non debba costringere qualunque interessato ad indagini extratestuali ed essere foriera di ulteriori liti.
Devesi, invero, considerare che la sentenza non ha il solo scopo di costituire un titolo esecutivo giudiziale, nè la motivazione è volta unicamente a questo utilizzo: al contrario, essa assolve - anzitutto ad esigenze di chiarezza ed inequivocità del decisum in una società democratica, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 7, e dunque di legittimazione all'esercizio del potere giudiziario, nonché di interpretazione concreta delle discipline e di risoluzione della controversia, anche ai fini della ripetibilità della decisione nei casi analoghi e di orientamento dei fruitori del diritto con riguardo ai loro comportamenti.
Invero, sebbene la funzione nomofilattica sia riservata dall'art. 65 ord. giud., alla Corte Suprema, le interpretazioni di tutti i giudici soggetti soltanto alla legge, ai sensi dell'art. 101 Cost., comma 2, rivestono indubbiamente un ruolo importante a quei fini: non essendo, dunque, rivolte soltanto alle parti del giudizio, ai loro difensori o al giudice dell'impugnazione, ma essendo suscettibili della più ampia diffusione, a regolamentazione ed indirizzo delle condotte di tutti i consociati.
Ne deriva che i tre requisiti-base della motivazione - chiarezza, completezza e (nei limiti in cui non smentisce gli altri due) concisione - debbono essere rispettati da ciascun giudice.
4.4. - Peraltro, a fronte dei limiti alla rilevanza dei vizi della motivazione, che il sistema positivo (cfr. art. 111 Cost., comma 7, artt. 132 e 360 c.p.c., art. 118 att. c.p.c.) considera solo laddove conducano alla motivazione assente o equiparata (apparente, insanabilmente contraddittoria), non può che aderirsi alla tesi acquisita della possibilità di una integrazione extratestuale della decisione giudiziale, ove condotta mediante gli elementi in essa comunque considerati e delibati, nonché reperibili agevolmente dalle parti del giudizio; pur consapevoli che dètta facilità cognitiva è del tutto assente per coloro che al giudizio siano estranei (come pure alla Cassazione, che ha limitata conoscenza degli atti per i soli vizi processuali ed ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) e per i consociati in generale.
È vero, dunque, che la tecnica redazionale della motivazione della sentenza impugnata è sul punto imprecisa, non corrispondendo alla migliore possibile ed ai precetti di massima chiarezza e completezza, che (insieme a quello della coerenza) debbono connotare la decisione giudiziale. Tuttavia, essa non si pone al di sotto del livello minimo costituzionale, ai sensi dell'art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c.: con il conseguente rigetto del motivo.
Va, infine, ricordato il principio, affermato da questa Corte, secondo cui la domanda di deindicizzazione, ai fini della sua determinatezza, deve contenere la precisa individuazione dei risultati che l'attore intende rimuovere e, quindi, normalmente, l'indicazione degli indirizzi telematici (o url) dei contenuti rilevanti: sebbene una puntuale rappresentazione delle singole informazioni associate alle parole chiave può rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare comunque contezza della cosa oggetto della domanda (cfr. Cass. 21 luglio 2021, n. 20861).
5. - Il secondo motivo è in parte inammissibile, laddove ripropone un giudizio sul fatto, ed in parte infondato sotto il profilo giuridico, posto che, pur dovendosi correggere la motivazione, il dispositivo è conforme a diritto ex art. 384 c.p.c., comma 4.
Ed invero, dopo avere ritenuto ***** LLC certamente un hosting provider quanto all'accertamento della sua condotta operativa, la sentenza impugnata, nonostante la previa affermazione d'inapplicabilità del D.Lgs. n. 70 del 2003, ha poi ravvisato un illecito nella condotta della società, che, notiziata della sentenza penale di condanna per diffamazione dell'originario propalatore della notizia falsa, ha omesso di provvedere alla sua deindicizzazione.
Questa Corte ha già affermato, con principio da cui non vi è ragione di discostarsi, che il prestatore del servizio di hosting è responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni ai sensi del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, quando: a) egli "sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita" e per quanto attiene ad azioni risarcitorie "sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione"; oppure b) egli non "agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso" appena "a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti" (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708).
Nella specie, rileva già la prima delle fattispecie di responsabilità, la quale collega il sorgere dell'obbligazione risarcitoria al fatto della conoscenza, da parte del prestatore del servizio, circa la illiceità dell'informazione, in particolare connotata dall'essere essa manifesta nelle azioni di risarcimento del danno: onde la comunicazione - dalla impugnata decisione reputata accertata in punto di fatto - della diffida a cessare l'attività illecita, eseguita dal P. nel ***** , in una con la sentenza penale de qua, era certamente idonea ad integrare la fattispecie sub a).
Ne deriva che, corretta la motivazione quanto all'inapplicabilità, erroneamente ritenuta, del regime della direttiva e del Decreto Legislativo nazionale, il motivo va sul punto disatteso, essendo il decisum conforme a diritto.
6. - Il terzo motivo è inammissibile, non cogliendo esso la ratio decidendi: una volta, invero, ravvisata la responsabilità della società prestatore del servizio dell'informazione nell'esposto rifiuto a cessare l'attività illecita, pur edotta ormai dei contenuti diffamatori del dato, resta irrilevante la questione della attualità o no della notizia in questione.
7. - Il quarto motivo è infondato, avendo il tribunale dato prova di avere esaminato tutti gli elementi in causa.
Esso, invero, ha disatteso le difese della società, quanto al contenuto dei singoli URL, che sono stati ricordati più volte nel testo della motivazione della sentenza impugnata, ripetutamente asserendo il tribunale di avere chiesto precisazioni alle parti, con riguardo alle reciproche contestazioni; ed avendo poi espressamente il tribunale argomentato nel senso che nè ***** LLC è irresponsabile con riguardo agli URL pretesamente riferibili a siti gestiti da altri motori di ricerca, per i quali comunque la società fornisce agli utenti i riferimenti necessari per identificali, nè sono innocue gli URL concernenti il dato della condanna per diffamazione pronunciata dal Tribunale di Lecco nei confronti dell'originario autore delle notizie lesive, perché idoneo comunque a rievocare la vicenda presso il pubblico dei fruitori della notizia.
Dunque, si tratta di una motivazione sufficiente a sostenere la decisione, in quanto palesa come, contrariamente all'assunto, l'esame sia stato svolto su tutti gli elementi di causa e con riguardo a tutte le questioni, ivi comprese quelle dei contenuti degli URL, sottoposte dalle parti.
8. - Il quinto motivo è infondato.
La liquidazione equitativa operata è contestata dalla ricorrente, secondo cui il tribunale non avrebbe potuto farvi ricorso, perché consentita solo quando sia certo il danno e sia impossibile determinarlo nel suo esatto ammontare.
Deve, al riguardo, considerarsi che il danno morale in presenza di una lesione ai diritti personalissimi, come quelli invocati dal soggetto leso, è per definizione un danno che "non può essere provato nel suo preciso ammontare", ai sensi dell'art. 1226 c.c., richiamato dall'art. 2056 c.c., comma 2, in quanto pertiene al ristoro del pregiudizio rappresentato dalla sofferenza interiore, o danno morale (sub specie di dolore dell'animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione: così, fra le altre, Cass. 19 febbraio 2019, n. 4878; Cass. 28 settembre 2018, n. 23469). Si tratta, dunque, d'un tipo di danno in cui più che altrove si rende necessario il ricorso alla liquidazione equitativa, che il giudice del merito compie - come è avvenuto nel caso di specie - valutando il danno stesso mediante la sua "personalizzazione".
Per il resto, il motivo è inammissibile, laddove sollecita una nuova e diversa valutazione dei fatti, rispetto a quella compiuta dal giudice di merito.
9. - Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di legittimità in favore della parte controricorrente, liquidate in Euro 10.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori, come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso.
Dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.